domenica 27 gennaio 2013

Giusti dell'Islam

Mostre a disposizione La redazione delle riviste PIME ha curato le seguenti mostre che sono a dispozione per allestimenti su richiesta. Per ulteriori informazioni telefonate alla segreteria riviste PIME-Milano 02.438.22.317 oppure scrivete a segreteriariviste@pimemilano.com Giusti dell'Islam Media PIME Una mostra per riscoprire le storie dimenticate di alcuni musulmani che durante la persecuzione nazista salvarono la vita ad alcuni ebrei Giusti dell'islam: un libretto per approfondire La conferenza stampa di presentazione della mostra Tra i circa ventiduemila nomi dei «Giusti tra le nazioni» censiti dallo Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, figurano anche quelli di settanta musulmani. Persone che - in nome di valori islamici - si diedero da fare per salvare la vita ad alcuni ebrei durante la persecuzione nazista. pannello 2Con questo loro gesto hanno ricordato che la frase del Talmud «Chi salva una vita salva il mondo intero» compare anche nel Corano. Oggi, però, sono i più dimenticati tra i Giusti, perché politicamente scorretti sia per tanti ebrei sia per tanti arabi. Sono infatti un invito ad andare oltre le generalizzazioni facili nella percezione dell’altro e delle sue aspirazioni. Attraverso i suoi 25 pannelli, la mostra «Giusti dell’islam» - promossa dal Centro di cultura e attività missionaria Pime di Milano e sponsorizzata dalla Regione Lombardia - racconta alcune di queste storie. Parla di due bosniaci, tre albanesi, due diplomatici turchi e un iraniano che con il loro coraggio salvarono alcune decine di ebrei. Pannello 10Inoltre rende conto del lavoro compiuto dallo storico americano Robert Satloff, il primo a proporre ufficialmente allo Yad Vashem un arabo come candidato «Giusto tra le nazioni». La mostra è a disposizione di scuole e amministrazioni locali per attività culturali legate al tema del rapporto tra religioni e identità diverse. Testi a cura di: Giorgio Bernardelli Progetto grafico: Bruno Maggi La mostra «Giusti dell’islam» è a disposizione di scuole e centri culturali per iniziative di sensibilizzazione sul tema del dialogo tra culture e religioni. Per informazioni: Centro di cultura e attività missionaria Pime - via Mosè Bianchi, 94 - Milano mondoemissione@pimemilano.com ALCUNE TAPPE DELLA MOSTRA: La mostra è già stata, tra l'altro, a Torino (nel contesto della mostra "Islam e ebraismo" al Politecnico), a Desio (al collegio Pio XI), a Capannori (Lucca), a Villapizzone (Milano), ad Arezzo, presso la Cittadella della pace Rondine, a Cremeno (Lecco), a Novellara e Luzzara (nel contesto del Festival delle culture "Uguali-Diversi"), a Roma, a Cornaredo (Mi), a Pozzallo (Rg), a Casatenovo (Lc). Ritorna Le altre mostre del Centro Missionario PIME di Milano Per conoscere tutte le mostre curate dalla redazione di "Mondo e Missione", dall'animazione PIME, dall'Ufficio Educazione Mondialità e dal Museo Popoli e Culture clicca qui Iscriviti alla newsletter Dona online Segui il tuo €uro © Fondazione PIME Onlus C.F. 97486040153 e P.IVA 06630940960 Pime Milano via Mosè Bianchi, 94 - 20149 Milano tel. 02438201 - fax 024695193

mercoledì 23 gennaio 2013

Vergognose menzogne della stampa americana

Come i media perdonano gli omicidi israeliani La stampa serra i ranghi a difesa dello Stato di Israele: i giovani palestinesi uccisi erano minacce alla sicurezza e la stabilità, mantenuta dalla chimera della separazione. adminSito lunedì 21 gennaio 2013 08:43 Commenta I parenti di Samir Awad, ucciso dall'IDF il 14 gennaio (Foto: Issam Rimawi/APA Images) I parenti di Samir Awad, ucciso dall'IDF il 14 gennaio (Foto: Issam Rimawi/APA Images) di Charlotte Silver - The Electronic Intifada Roma, 21 gennaio 2013, Nena News - Israele spreca molto tempo a parlare di sicurezza dei confini e di come le connesse necessità conducano alle politiche verso i palestinesi. Con poche eccezioni, i media operano come promotori di questa perversione della realtà. Tra l'11 e il 15 gennaio, quattro giovani palestinesi - di età compresa tra 17 e 22 anni - sono stati uccisi dal fuoco delle forze di occupazione israeliana. Gli omicidi sono avvenuti a Gaza e in tre diverse comunità lungo il Muro israeliano in Cisgiordania. In tutti i casi, l'esercito israeliano ha giustificato l'uso di una forza letale invocando la necessità di proteggere l'integrità del Muro e dei confini israeliani. L'11 gennaio, il 22enne Anwar Mamlouk si trovava poco fuori il campo profughi di Jabaliya, a Gaza, quando i soldati israeliani gli hanno sparato, uccidendolo. Il giorno dopo, Odai al-Darawish, 21 anni, è stato ucciso alle tre del pomeriggio mentre attraversava il Muro israeliano in Cisgiordania per andare al lavoro in Israele. Inizialmente, fonti israeliane hanno riportato che i soldati hanno colpito al-Darawish alle gambe, secondo le regole di ingaggio. Ma fonti mediche hanno subito smentito dicendo che è stato centrato alla schiena: probabilmente è stato colpito mentre correva per salvarsi. Al-Darawish viveva nel villaggio di Dura, vicino Hebron, dove a settembre dello scorso anno un uomo tentò il suicidio come disperata protesta per le difficili condizioni economiche che i palestinesi affrontano nella Cisgiordania occupata. Mustafa Jarad aveva 21 anni ed era un contadino di Beit Lahiya, a Nord della Striscia di Gaza. È stato colpito alla testa da un cecchino israeliano il 14 gennaio mentre lavorava la sua terra. Ma nonostante l'abilità del soldato israeliano, Jarad non è morto subito. I dottori dell'ospedale Shifa di Gaza City hanno tentato di rimuovere la pallottola dal cervello, ma Jarad è morto dopo l'operazione. Sparare ad uno studente Il 14 gennaio Samir Awad, 17enne di Budrus, villaggio vicino Ramallah, è stato centrato alla testa, alla schiena e ad una gamba mentre scappava dai soldati. Samir aveva appena finito l'ultimo esame di metà anno a scuola e stava partecipando con altri ragazzi ad una protesta contro il Muro israeliano. Samir era stato già arrestato tre volte per aver preso parte a manifestazioni. Rapporti in inglese su questi omicidi sono quasi inesistenti. Ad esempio, la stampa non era d'accordo sulle circostanze della morte di Anwar Mamlouk. La Reuters ha riportato che il fratello di Anwar, Hani, ha raccontato che Anwar stava studiando fuori casa quando è stato colpito. La BBC, invece, ha ripreso solo la versione dell'esercito israeliano, raccontando che Anwar era entrato in un'area vietata lungo il confine di Gaza, con decine di altri palestinesi. Cambiare le responsabilità Il New York Times ha utilizzato l'omicidio di Samir Awad, il quarto nell'ondata di uccisioni volontarie da parte israeliana di palestinesi disarmati, come opportunità per sottolineare "la crescente protesta" in Cisgiordania, spostando in modo bizzarro la colpa di quelle morti sul popolo palestinese. Si deve ricordare che quando il 17enne Muhammad al-Salaymeh è stato ucciso da un poliziotto di frontiera ad Hebron il giorno del suo compleanno, a dicembre, il New York Times è rimasto in silenzio. Leggere la copertura del New York Times sugli omicidi di palestinesi da parte di Israele è una lezione adatta a qualsiasi aspirante spin-doctor del linguaggio dell'equivoco. La corrispondente Isabel Kershner ha puntato l'articolo su Budrus non sul grilletto facile dei soldati israeliani che operano in un'impunità senza fine, ma su "l'inquietudine latente" dei palestinesi, sulla loro crescente partecipazione in atti di "disturbo" alla "relativa stabilità" che Israele cerca di mantenere e sulla "profonda crisi finanziaria che impedisce all'Autorità Palestinesi di pagare i salari dei dipendenti". Però non spiega perché l'ANP non è in grado di pagare gli stipendi delle due decine di migliaia di dipendenti: Israele ha rubato le tasse e le imposte di dogana dei palestinesi. Omettere questioni chiave Ecco come il New York Times trasforma l'assassinio a sangue freddo di un teenager in una storia volutamente offuscata, in una nebbia opaca di tensioni e di "crescente disordine". Questa inesorabile nuvola di ambiguità si regge sulla metodica omissione dei fatti da parte della stampa: non solo dei fatti riguardanti i recenti omicidi di Odai al-Darawish, Muhammad al-Salaymeh e Anwar Mamlouk, ma anche quelli sugli innumerevoli raid, le demolizioni e le violenze che Israele perpetra contro la popolazione palestinese ogni settimana. Questi sono il tipo di fatti che, se appropriatamente riportati dai giornali, permetterebbero ai lettori di sapere che Israele viola i termini di legge sul controllo dei suoi preziosi "confini". Articoli corretti smaschererebbero una bugia oggi inattaccabile: al fine di proteggere i propri confini, è necessario sparare e uccidere ragazzi innocenti, uomini e donne. Basarsi sulle fonti israeliane La terribile verità su cosa è successo questa settimana è nascosta dalle bugie, secondo le quali i giovani uccisi volevano trasgredire le regole e secondo le quali il Muro è necessario a tenere lontano i terroristi. La BBC, il New York Times, la Reuters e l'AP fanno riferimento alle fonti militari israeliane nei loro rapporti sulla morte di quattro giovani palestinesi. Come risultato, ai lettori viene detto che i soldati israeliani hanno seguito il protocollo per la difesa della sovranità e dei confini di Israele. Con la sola notabile eccezione dei quotidiani inglesi, The Guardian e The Indipendent, i media hanno doverosamente serrato i ranghi a difesa dello Stato di Israele, riportando l'utile fiction che mostra questi giovani palestinesi uccisi come minacce per la sicurezza e la stabilità, mantenuta dalla chimera della separazione. E per quanto riguarda i confini, è estremamente probabile che gli addolorati genitori dei giovani uccisi vorrebbero vedere l'esistenza di un qualsiasi tipo di confine che protegga i loro figli dalla presenza di un'entità minacciosa, violenta e usurpatrice. (Traduzione a cura della redazione di Nena News) *Charlotte Silver, giornalista, lavora tra la Palestina e San Francisco. 11 Aggiungi Commento

Gerusalemme, evacuato il villaggio al-Karamah

Le forze israeliane sono entrate all'alba nel villaggio palestinese di Beit Iksa che resisteva alla confisca illegale, presidiando il fratello di Bab Al-Shams. adminSito lunedì 21 gennaio 2013 08:58 Commenta Una delle tende di Al Karamah (Foto: Gabriele Benvenuti/Nena News) Una delle tende di Al Karamah (Foto: Gabriele Benvenuti/Nena News) di Gabriele Benvenuti Beit Iksa, 21 Gennaio 2013, Nena News - All'alba di questa mattina, intorno alle 4 del mattino, il neonato villaggio palestinese di Al Karamah, a Beit Iksa (Gerusalemme), è stato sgomberato dalle forze militari israeliane. Bulldozer dell'esercito hanno demolito le tende e evacuato tutti gli attivisti presenti. Poco prima l'esercito aveva chiuso il checkpoint d'accesso al villaggio, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Le forze israeliane erano già attese nella notte di sabato, dopo che dalla radio della Mezzaluna Rossa avevano comunicato l'imminente raid per procedere allo sgombero di al-Karamah. La situazione è rimasta tranquilla fino alle sette del mattino di ieri, quando la polizia di frontiera si è presentata con la stessa ordinaria disinvoltura con la quale tecnici ed ingegneri effettuano un sopralluogo di un cantiere qualsiasi. Si trattava della fase preparatoria della demolizione del villaggio palestinese di al-Karamah. Infatti, come per Bab al-Shams, i militari israeliani hanno preventivamente acquisito informazioni sulle strutture ed il numero di civili presenti, per consentire alla Corte Suprema di dichiarare l'area "zona di interesse militare" e rilasciare un ordine di evacuazione. Al-Karamah (in arabo "dignità") è il villaggio gemello di Beit Iksa, che si estende per circa 14.000 dunam (1 dunam equivale a mille metri quadrati) su di un territorio già fisicamente oppresso dall'occupazione. Beit Iksa si trova, infatti, a soli dieci minuti da Gerusalemme, ma è isolato: un checkpoint regola gli accessi al villaggio dall'unica strada di collegamento con Ramallah (e quindi Gerusalemme), la colonia di Ramot - costruita sul territorio occupato nel 1967 - lo circonda insieme al cantiere per l'alta velocità Gerusalemme-Tel Aviv, in appalto all'italiana Pizzarotti, il cui tracciato passerà anche attraverso i Territori Occupati senza, però, prevedere stazioni di fermata a beneficio dei palestinesi. Beit Iksa è stato oggetto, nel mese dicembre 2012, dell'ordine di esproprio delle terre destinate alla costruzione della barriera di "sicurezza", che lascerà agli abitanti del villaggio solamente 400 dunam. Sulla scia di quanto avvenuto a Bab al-Shams, gli abitanti di Beit Iksa hanno, quindi, deciso di costruire un villaggio gemello con il supporto di Fatah. Come dichiarato da Abdallah Abdallah (membro del Comitato Esecutivo di Fatah) durante un meeting con il sindaco Kamal Habbab, la fazione leader dell'Autorità Palestinese ha fornito le prime strutture abitative e (con la visita di Abdallah) sancito la primacy nel supporto alla lotta di Beit Iksa. Mazin Qumsiyeh, professore ed attivista palestinese, è scettico: "Il fenomeno del coinvolgimento della leadership nelle azioni di resistenza popolare siinserisce in una logica di ricerca del consenso (politico) che vuole sfruttare l'alto impatto mediatico ed emotivo che tali situazioni comportano", spiega a Nena News. Contrariamente alla solidarietà di circostanza, "la popolazione è determinata a resistere fino alla revoca definitiva dell'ordine di esproprio, perché le terre che Israele vuole annettere sono la principale fonte di sostentamento per il villaggio", spiega a Nena News Mahmoud, studente universitario di Beit Iksa. Secondo Shadi, nata a Beit Iksa ma residente ad Abu Dis (Gerusalemme Est), "le restrizioni imposte dall'installazione del checkpoint, che da tre anni limitano il transito ai soli residenti del villaggio, hanno de facto creato le condizioni per un trasferimento forzato della popolazione e l'isolamento di Beit Iksa". Al-Karamah ha accolto da sabato palestinesi ed internazionali. E dopo l'esperienza di Bab al-Shams e Beit Iksa, c'è da aspettarsi qualche altra sorpresa. Nena News 4

domenica 20 gennaio 2013

Mali: non vogliamo rassegnarci a un'altra guerra

di Pax Christi Italia Non vogliamo rassegnarci a un'altra guerra che sta ereditando armi e persone di quella libica. Ci allarma il vuoto della politica subalterna all'economia di guerra. L'impresa militare in Mali rischia di diventare “una piccola guerra mondiale” dagli esiti incontrollabili in un'area vastissima, politicamente fragilissima e socialmente complessa: dal Mali all'Algeria, dal Niger alla Nigeria, dalla Mauritania al Burkina Faso, dal Ciad al Corno d'Africa, dal Congo al Sudan, dall'Arabia saudita ai paesi del Golfo, dall'Iraq alla Siria. Non possiamo accettare che la soluzione dei conflitti avvenga sempre con guerre che li alimentano e li aggravano in una spirale senza fine. Non intendiamo aderire al consenso quasi unanime verso operazioni militari mosse da logiche neocoloniali che difendono interessi vecchi e nuovi e il controllo di risorse preziose che i maliani non utilizzeranno (oro, petrolio, uranio e gas). Già vediamo sfilare il solito lugubre corteo di guerra: bombardamenti, stragi, rappresaglie, rapimenti, violenze su donne e bambini, migliaia di sfollati e di profughi, bande contrapposte spesso all'interno dello stesso schieramento (alcune delle quali aiutate da paesi vicini e lontani), traffico incontrollato di armi e di droga, tanta sofferenza, insicurezza generale. Proponiamo con forza di rilanciare la politica estera verso l'Africa attivando tutti gli strumenti (non armati) del diritto internazionale, con capacità di mediazione, con una vera e solida Unità africana sostenuta dall'Onu e dall'Unità europea, con decise iniziative di isolamento dei violenti, con una seria politica di “intelligence”, con forze polizia internazionali promosse dalle Nazioni unite in accordo con la Unità africana, con una vera cooperazione economica e politica, con il sostegno alle istanze democratiche emerse nella “primavera araba”, con il dialogo tra culture e religioni. Ormai in piena stagione elettorale, ricordiamo l’intervento del vescovo Presidente di Pax Christi, mons. Giovanni Giudici, lo scorso 13 gennaio,(www.paxchristi.it) in cui chiedeva agli elettori e ai candidati l'impegno di costruire la pace riducendo le spese militari, limitando il commercio delle armi e fermando la corsa al riarmo. Lo esigono il dolore di troppe vittime, la gravità della crisi economica, la coscienza di cittadini e credenti a 50 anni dalla Pacem in terris che definisce la guerra “pura follia” Pax Christi Italia 19 gennaio 2013 www.paxchristi.it info@paxchristi.it per contatti: 347 3176588

lunedì 14 gennaio 2013

Giovane assassinato mentre lavorava; Israele ha passati tutti i limiti dell'umano!

Mostafa Abd Al Halkeem Abu Jarad, ucciso oggi da un cecchino israeliano. Aveva 21 anni http://ilblogdioliva.blogspot.co.il/2013/01/mostafa-abd-al-halkeem-abu-jarad-ucciso.html 14 gennaio 2013 Erano circa le 14.00 quando ho saputo che un giovane era rimasto ferito dal fuoco dell'esercito israeliano in Beit Lahia. Mostafa Abd Al Halkeem Abu Jarad aveva 21 anni. Era stato trasportato al Kamal Odwan hospital in condizioni critiche. Un proiettile l'aveva colpito alla testa. Ci siamo diretti subito in Beit Lahia per incontrare i familiari. Durante il tragitto abbiamo appreso che il giovane era stato trasferito dal Kamal Odwan hospital allo Shifa hospital in Gaza city. Ci siamo così diretti allo Shifa insieme ad un familiare della vittima. Mustafa era ricoverato nel reparto di Terapia Intensiva. Erano le 18.10 circa. Fuori il reparto, in attesa, i suoi genitori e tanti suoi familiari. Suo padre, con gli occhi sbarrati, non riusciva a dire una parola. sua madre era seduta con altre donne della famiglia in silenzio. Un membro della famiglia ci ha raccontato che Mustafa stava lavorando con altre persone in una terra a circa 1 chilometro di distanza dal confine. La terra non era di proprietà della famiglia, Mustafa era un semplice lavoratore. I soldati avevano iniziato a sparare pesantemente. I contadini erano scappati e poi erano tornati a lavoro. Poi un soldato ha sparato direttamente alla fronte di Mustafa. Il fratello di Mustafa era stato ucciso dall'esercito israeliano in un attacco aereo circa 2 mesi e mezzo fa, il suo nome era Loay, aveva circa 26-28 anni ed era membro della resistenza. Mustafa era un semplice lavoratore. In quell'area sono soliti sparare contro i contadini. Ma non a quella distanza. Mustafa e gli altri non si trovavano nella "buffer zone". Si trovavano ben lontano. Uno dei familiari ci comunica che Mostafa aveva emorragia interna alla testa. Un altro familiare ci ha detto che il soldato ha sparato da una delle torri di controllo poste al confine. Nel frattempo avevo ricevuto unincredibile sorpresa. Tra i familiari di Mustafa, c'era il padre di Fahmi Abu Ryash, il pescatore ucciso dall'esercito israeliano quel maledetto venerdì del 28 settembre 2012. Avevo condiviso con la sua famiglia l'agonia e la morte, le lacrime, e il dolore della perdita. Quello stesso dolore condiviso ha creato un enorme legame di affetto tra me e la famiglia di Fahmi. Quando l'ho visto lì, tra i parenti del govane Mustafa, il dispiacere ha iniziato ha esplodere dentro di me. Guardavo il padre di Fahmi, avrei voluto piangere, cacciare tutte le lacrime che ho chiuse dentro, aprire la porta per far uscire il dolore. Quello in atto è un genocidio lento e costante. Queste famiglie vivono una tragedia dopo un 'altra. Siamo entrati nel reparto di Terapia Intensiva. Mostafa aveva una fascia sulla testa, ed il cuscino era impregnato di sangue. Un dottore nel reparto ci ha detto che Mostafa avevea subito uno sparo alla testa e che il proiettile è entrato ed uscito. Ha subito danno al cervello ed emorragia cerebrale. Era stato traferito allo shifa hospital dal Kamal Odwan hospital ed era stato sottoposto ad operazione per rimuovere frammenti di proiettile dalla testa. Dopo l'operazione è stato portato in Terapia Intensiva. "Pensiamo possa morire tra questa notte e domani", ha detto il dottore. E poi ha aggiunto "Noi cerchiamo di fare del nostro meglio, facciamo quello che possiamo fare." Lo abbiamo ringraziato e siamo usciti dal reparto. Avevamo pensato di tornare il mattino seguente in ospedale, ma verso le 19.20 abbiamo saputo che Mostafa era appena morto. Domani andremo alla tenda del lutto per esprimere nuovamente solidarietà alla sua famiglia. Mostafa è stato ucciso da uno "sniper", un cecchino. Un cecchino che da una torre ha mirato alla sua testa ed ha sparato. Quanto successo è un altro crimine ingiustificabile ed inaccettabile. Ed inaccettabile è che passi sotto silenzio. I riflettori dei media si accendono su Gaza solo quando Israele scatena la guerra. Ma si spengono su questi episodi pressoché quotidiani. La sera del 21 novembre 2012, dopo gli otto giorni dell'ultima guerra, è iniziato il "cessate il fuoco". Ma da allora, attacchi israeliani via terra e via mare si sono susseguiti. L'ultimo ragazzo è stato ucciso tre giorni fa, l'11 gennaio, con un proiettile all'addome. Anwar Al Malouk aveva 19 anni. Qui l'elenco di tutte le violazioni del cessate il fuoco. Si tratta di tutti attacchi contro i civili di Gaza: http://ilblogdioliva.blogspot.co.il/2012/12/elenco-di-tutte-le-violazioni-del_21.html Mostafa è stato ucciso da un cecchino. Israele continua a operare impunito e a spezzare giovani vite. La mia speranza e quella del popolo palestinese è quella che al più presto istituzioni, governi, organizzazioni internazionali, denuncino questi crimini e agiscano perché Israele si fermi e che allo stesso tempo sia condannato per queste continue aggressioni contro il popolo palestinese, aggressioni che sono crimini contro l'umanità. A noi ed alla famiglia ora non ci resta che il dolore. L'ennesimo, soffocante dolore. Rosa Schiano 14 gennaio 2013

Sgomberata la Porta del Sole

Raid notturno: sgomberato Bab al Shams, 6 feriti Intorno a mezzanotte 600 agenti della polizia di frontiera sono entrati nel villaggio di tende eretto dai palestinesi due giorni fa e hanno arrestato tutti domenica 13 gennaio 2013 07:22 L'incursione israeliana a Bab al Shams Gerusalemme, 13 gennaio 2013, Nena News - E' finita come si aspettavano tutti. Circa 600 fra agenti della polizia di frontiera e soldati hanno atteso la notte e poi si sono lanciati in Bab al Shams, il villaggio di tende eretto da palestinesi e da attivisti internazionali due giorni fa sulle terre del corridoio E 1, a Est di Gerusalemme, dove Israele ha annunciato di voler costruire migliaia di case per coloni. Tutti gli attivisti sono stati arrestati, messi su autobus e portati in varie stazioni di polizia per essere interrogati e detenuti. Almeno sei palestinesi sono rimasti feriti ma la radio israeliana continua a ripetere che "non ci sarebbero state conseguenze per le persone". Secondo le ultime notizie tutti i palestinesi e internazionali sgomberati con la forza da Bab al Shams sono stati rilasciati questa mattina al posto di blocco di Kalandia, tra Gerusalemme e Ramallah, dove ora manifestano contro Israele e l'occupazione. Il premier israeliano Netanyahu ha voluto con grande determinazione questa evacuazione immediata del villaggio palestinese. Un trattamento che non e' certo riservato ai coloni israeliani che hanno occupato e ancora occupano illegalmente. anche per la normativa israeliana, oltre cento alture della Cisgiordania palestinese. La rimozione degli avamposti colonici avviene raramente e solo al termine di battaglie legali che talvolta durano anni. Nella maggior parte dei casi lo Stato di Israele alla fine riconosce queste occupazioni selvagge. Nena News -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

sabato 12 gennaio 2013

Straordinaria azione dei Comitati popolari

Straordinaria azione dei Comitati popolari per la resistenza nonviolenta palestinese. Oltre 200 palestinesi di vari distretti hanno fondato un nuovo villaggio nella zona E1 che hanno chiamato "Porta al Sole", a Gerusalemme est. Hanno sistemato tende e posto tutte le attrezzature necessarie per un soggiorno nella zona fino a quando il paese sarà costruito. In una dichiarazione rilasciata da loro, gli attivisti hanno scritto: "Noi figli della Palestina, provenienti da tutte le parti della patria, dichiariamo la creazione del villaggio Porta del Sole,come scelta del popolo palestinese e senza il permesso dell'occupazione israeliana. Non abbiamo bisogno del permesso di nessuno perché questa è la nostra terra e nostro il diritto di costruire e rimanere su di essa. Abbiamo deciso di stabilire il nostro villaggio su questa cosiddetta zona E1 in cui l'occupazione ha annunciato di voler costruire 4.000 unità abitative, perché non resteremo in silenzio per l'insediamento e la colonizzazione continua della nostra terra. Noi crediamo nell'azione e nella resistenza nonviolenta e siamo sicuri che il nostro villaggio si sostengano con forza fino a quando i legittimi proprietari valere i propri diritti alla loro terra. Gli attivisti dicono che il nome del villaggio è stato ispirato dal libro del romanziere libanese Elias Khoury" Porta del Sole ", che racconta la storia della Palestina. "Porta Il nostro sole è la porta verso la liberazione e la fermezza,"si dice nella dichiarazione letta. "E 'la nostra porta a Gerusalemme è la nostra porta per tornare", sostenendo che Israele ha imposto per decenni fatti sul terreno, tutto a fronte del silenzio internazionale. "È il momento di cambiare le regole del gioco, noi siamo i legittimi proprietari della terra e noi imponiamo i nostri fatti sul terreno. Gli "abitanti del villaggio" hanno invitato tutti i settori del popolo di aderire e partecipare agli eventi e le attività che si svolgeranno nel villaggio nel corso dei prossimi giorni tra serate culturali, film e sessioni di discussione. Qui sotto le dichiarazioni di Abdallah Abu Rahme,coordinatore dei Comitati Popolari per la resistenza nonviolenta palestinese che sarà con noi in Italia dal 20 al 28 Gennaio . giorno 21 roma - 22 Firenze . 23 Pisa - 24 Genova - 25 Como - 26 e 27 Val di Susa. Palestinian activists set-up protest tents in E1 settlement area Published today (updated) 11/01/2013 17:12 People from villages in the occupied West Bank near Jerusalem pitched tents on Friday on the land Israel has earmarked for a new urban settlement, looking to preserve the area for an independent Palestinian state. (Reuters/Ammar Awad) BETHLEHEM (Ma'an) -- Hundreds of Palestinian activists set up protest tents on Friday in the controversial E1 corridor area near Jerusalem as part of the non-violent resistance movement against Israel's occupation, a local group said. Said Abdullah Abu Rahma, the coordinator of the Popular Committee against the Wall and Settlements in Bilin, told Ma'an that Palestinian activists had set up the village of Bab al-Shams, or 'Gate of the Sun', in protest against Israeli settlements. "We will not be silent while settlements and the colonization of our land continues, and confirm that the village will endure until the rightful owners of the land are installed," Abu Rahma said. Over 25 tents and a medical clinic have been set-up in the E1 area by protestors from all over the West Bank. The name of the village was inspired by Lebanese author Elias Khoury's novel, which tells the story of Palestinian refugees in Lebanon. "Israel has imposed facts on the ground for decades amid the silence of the international community, and the time has come to change the rules of the game, we are owners of this land and we will impose the reality on the ground," Abu Rahma said. Although there was no immediate response from the Israeli authorities, police and soldiers in the past have moved quickly to shut down any such spontaneous Palestinian camps In December, Israel announced plans to build some 3,000 settler homes in the E1 corridor near Jerusalem, drawing widespread international condemnation. Britain, France and several other European countries summoned Israeli envoys to protest the plan, while President Mahmoud Abbas called the E1 area "a red line that cannot be crossed." Construction in E1 would divide the West Bank and make the creation of a contiguous Palestinian state - as envisaged by the internationally backed two-state solution to the Palestinian-Israeli conflict - almost impossible. Settlement building is illegal under international law.

domenica 6 gennaio 2013

ANP: Non ci sono soldi per presentarsi alla Corte Internazionale

Dopo l'annuncio dell'OLP, Ramallah frena: la crisi economica impedirebbe al neonato Stato di Palestina di trascinare Israele di fronte alla giustizia internazionale. dalla redazione Roma, 4 gennaio 2013, Nena News - L'Organizzazione per la Liberazione della Palestina annuncia il ricorso alla giustizia internazionale contro i crimini israeliani, ma la crisi finanziaria in cui sta affondando l'Autorità Palestinese potrebbe rappresentare un serio ostacolo. euforia All'annuncio di ieri dell'OLP segue a ruota l'ANP: l'esperto legale del presidente Abbas, Hassan al-Ouri, punta il dito contro la mancanza di fondi, un gap che impedirebbe a Ramallah di trascinare Israele di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia. Dal 29 novembre, quando l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto la Palestina come Stato non membro, l'Autorità Palestinese sta seriamente pensando di rivolgersi alla comunità internazionale al fine di accusare ufficialmente Israele di crimini di guerra e crimini contro l'umanità, perpetrati contro i Territori Occupati. Dall'altra parte, però, pesa su Ramallah una grave crisi economica dovuta al calo dei finanziamenti da parte dei governi esteri e al congelamento del trasferimento delle tasse palestinesi da parte israeliana. Mancanze a cui si aggiunge un'atavica dipendenza dell'economia palestinese da quella dell'occupante, che rende Ramallah incapace di creare un proprio mercato interno. Mancato controllo delle risorse naturali, non contiguità del territorio, impossibilità di gestire import e export e di sganciarsi dal mercato del lavoro israeliano, eccessiva dipendenza dai finanziamenti esterni e dai progetti milionari delle Ong internazionali: questi i fattori che negli anni hanno annichilito l'economia palestinese, incapace di coprire i 3.7 miliardi di dollari del budget annuale interno. E oggi la crisi potrebbe intaccare le chance palestinesi di fronte alla comunità internazionale: secondo al-Ouri, le iniziative volte a partecipare alle istituzioni internazionali e ad entrare di diritto nei corpi di giustizia internazionale costerebbero troppo. Un prezzo che in questo momento l'ANP non può permettersi. Solo ieri l'OLP aveva annunciato l'intenzione di presentarsi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per chiedere di votare una risoluzione contro l'espansione coloniale israeliana in Cisgiordania. Ma non solo: l'obiettivo finale è accedere ai trattati internazionali e alla Corte di Giustizia, unico modo - secondo l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina - per fermare le politiche israeliane, volte a rendere impossibile nella pratica la creazione di uno Stato palestinese. Nena News