martedì 30 settembre 2014

TRIBUNALE RUSSEL SULLA PALESTINA

TRIBUNALE RUSSELL SULLA PALESTINA, SESSIONE STRAORDINARIA SU GAZA, BRUXELLES 24 E 25 SETTEMBRE 2014

Il Tribunale Russell sulla Palestina, coraggiosa iniziativa di denuncia e cultura politica, è stato creato in risposta ad un appello di Ken Coates (Presidente della Bertrand Russell Peace Foundation), Nurit Peled (Israeli, Premio Sakharov per la libertà di parola 2001) e Leila Shahid (Delegata generale della Palestina presso la Unione Europea). La responsabilità dell'organizzazione del Tribunale Russell sulla Palestina è del Comitato organizzativo internazionale, i cui componenti sono: Ken Coates, Pierre Galand, Stéphane Hessel (morto nel 2013), Marcel-Francis Kahn, Robert Kissous, François Maspero, Paulette Pierson-Mathy, Bernard Ravenel and Brahim Senouci. Ha svolto le sue sessioni tra il 2010 e il 2014 a Barcellona, Londra, Città del Capo, New York, Bruxelles (sessione conclusiva e sessione straordinaria su Gaza). Per saperne di più www.russelltribunalonpalestine.com. (Conclusioni generali anche in italiano).

Sommario delle testimonianze
La giornata del 24 è stata dedicata all'ascolto dei testimoni da parte della giuria. Quella del 25 ad una conferenza stampa pubblica sui risultati e ad un incontro al parlamento europeo. Sono state due giornate utili ed emozionanti: utili per la quantità di informazioni e conoscenze; emozionanti per la partecipazione appassionata delle testimonianze

Dopo l'apertura di Pierre Galand, coordinatore dell'iniziativa del Tribunale Russell sulla Palestina, ha introdotto il giurato John Dugard ,già relatore speciale delle NU per i diritti umani nei territori palestinesi: “questa sessione sarà centrata sui fatti relativi alla operazione Protective Edge. Ascolteremeo le prove della uccisione di oltre 2000 palestinesi, il 70% civili, del ferimento di molte migliaia, dei grandi danni alla proprietà. Ascolteremo anche prove sulle armi usate; testimonianze sulla sofferenza della popolazione e sulle intenzioni degli attaccanti. Ma tutto questo sarà nel contesto del diritto internazionale. Le nostre procedure prevedono che fatto e diritto interagiscano.”
Ha poi dettagliato i caratteri della occupazione israeliana di Gaza, dal 1967, quando ne vennero cacciati gli egiziani, e anche dopo il ritiro del 2005. Ha inoltre parlato dell'assedio come punizione collettiva a partire dal 2006, anno della elezione di Hamas, come rafforzamento della occupazione, misure di autodifesa. Ha parlato dei missili di Hamas come strumenti di resistenza, non di terrorismo. Ha sottolineato il dovere di israeliani e palestinesi di rispettare il diritto umanitario internazionale per la protezione della popolazione civile. Evidenziando la sproporzione tra le vittime dei due lati, ha sottolineato che Israele si è reso responsabili di crimini di guerra secondo il diritto internazionale consuetudinario, con l'attacco a civili e a infrastrutture. E si è anche reso responsabile di crimini contro l'umanità, con assassinii e sterminio su larga scala. Ha richiamato la questione, controversa, di una possibile definizione di genocidio – in termini giuridici e secondo la convenzione internazionale delle NU sul genocidio del 1948 – in quanto si sia verificata la intenzione di distruggere in tutto o in parte una popolazione, non una parte politica. Ha richiamato la necessità che l'Autorità Nazionale palestinese ratifichi lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale per l'esercizio della giurisdizione internazionale.
Ha infine richiamato la responsabilità di paesi terzi e in particolare degli Stati Uniti, in quanto finanziatori di Israele (8,5 milioni di dollari al giorno) e fornitori di armi e assistenza militare.

Paul Behrens, professore di diritto penale all'Università di Edimburgo ed esperto in materia di genocidio, ha insistito sulla necessità di analizzare la questione da un punto di vista giuridico , differenziandolo da quello sociale. Ha anche sottolineato l'importanza di considerare la gravità dell'incitamento al genocidio e l'importanza di tutte le prove relative ad azioni e espressioni verbali atte a indurre e incoraggiare la distruzione di civili e loro abitazioni.

Sul tema delle armi utilizzate si è soffermato il colonnello in pensione Desmond Travers, dall'esercito irlandese, partecipante a forze di peace keeping, tra gli autori del rapporto Goldstone, in seguito alla operazione “Piombo fuso” 2008/9. Tornato da una settimana da Gaza, ha fatto una ampia disamina di tutte le armi utilizzate (prodotte negli Stati Uniti e in Israele) e si è soffermato anche sulla analisi delle “dottrine” alla base dell'azione dell'esercito israeliano. In particolare la dottrina Dahiya, nata nella guerra contro il Libano del 2006, dal nome di un villaggio che venne raso al suolo con lo sterminio della sua popolazione, significativa della teorizzazione dell'uso sproporzionato della forza contro i civili; citata la direttiva Hannibal, nata nel 1986, sempre rimasta segreta, ad indicare l'autorizzazione ad usare qualsiasi mezzo, per impedire che uno o più soldati vengano fatti prigionieri, anche se questo provoca il loro ferimento o mette in pericolo la loro vita: questo per l'assoluto rifiuto di negoziare con “i terroristi”.

Tra le testimonianze più emozionanti sono state sicuramente quelle di giornalisti: David Sheen. originario di Toronto, vive a Dimona, in Israele, giornalista e regista, ha parlato soprattutto dell'incitamento all'uccisione e distruzione dei palestinesi nel discorso pubblico israeliano, del razzismo e odio che attraversano l'opinione pubblica, e che rappresentano un incitamento chiaro al genocidio. Ha mostrato e raccontato una lunga serie di espressioni usate da capi religiosi ed esponenti politici, richiamandosi talvolta alla fraseologia biblica, dall'incitamento all'uccisione di massa alle giustificazioni per l'uccisione di bambini alle dichiarazioni di orgoglio di essere razzisti.

Eran Efrat, già sergente dell'esercito israeliano, poi capo ricerca dell'organizzazione “Breaking the silence” (soldati israeliani veterani impegnati nella denuncia delle condizioni dei territori palestinesi occupati), tra i primi ad aver denunciato l'uso del fosforo bianco nella operazione “Piombo fuso”, ha a lungo parlato del massacro operato nel villaggio di Shuja'iyya e della sua totale distruzione con massicci bombardamenti. “Un vero e proprio attacco di vendetta, dato che la resistenza aveva ucciso 7 soldati israeliani...il punto non sono le regole di ingaggio o simili...il punto è che come palestinese non devi alzare la testa....Ogni volta è peggio, e succederà ancora...il diritto alla resistenza non è riconosciuto, sei un terrorista e basta....”

Mohammed Omer, giornalista palestinese del campo profughi di Rafah. Sempre vissuto a Gaza, ha esordito mostrando una foto di un ragazzino in ospedale ed ha proseguito con tre casi sconvolgenti. L'esecuzione sommaria di Mohammed Tawfik Qudeh, 65 anni, ucciso di fronte alla sua famiglia, mentre chiedeva “per favore non mi sparare”; il caso di un religioso della moschea di Khuza costretto a spogliarsi nudo di fronte a tutti; picchiato e interrogato su dove si trovino i missili; quella del dott. Kamal Qudeh, di una clinica privata, a cui hanno detto di evacuare in pochi minuti e – dice – “siamo stati costretti a portare i corpi sulle nostre spalle”. E, racconta, tutti hanno denunciato l'assenza della Croce rossa internazionale. E l'argentino Estrella, della giuria, commenta che sarebbe necessario un Tribunale Russell sulla stampa per il suo comportamento!

Mads Gilbert è un chirurgo norvegese, dal 1981 lavora con palestinesi, ed era a Gaza durante la guerra. Abbiamo potuto leggere una sua disperata lettera aperta sui massacri di cui è stato testimone, sul collasso delle strutture ospedaliere. E di questo parla, come, dopo di lui, Mohammed Abou Arab, un chirurgo palestinese, che risiede e lavora in Norvegia. Hanno lavorato prevalentemente nell'ospedale Al Shifa.
Il sistema sanitario era già in ginocchio a causa dell'assedio, e i lavoratori senza stipendio a causa del blocco posto dagli Stati Uniti sui conti di Hamas. Era invece un sistema eccellente, il cui personale continua a lavorare indefessamente, senza paga e senza orario. Loro sono gli “eroi”. Questa volta è peggiore delle altre – dice Mads Gilbert – la politica coloniale israeliana volta a cacciare la popolazione palestinese dalla sua terra, è stata più aggressiva di sempre, ha deliberatamente preso di mira ospedali, cliniche, ambulanze, distruggendo il 60% del sistema sanitario. L'impunità di Israele è la grande sfida di fronte a tutti noi. Impressionante come i civili palestinesi siano stati usati come scudi umani. Ne siamo stati accusati noi, ma qui in ospedale mai visti soldati palestinesi, che del resto sarebbero stati allontanati. Mohammed Abou Arab aggiunge che nel personale ospedaliero ci sono stati 144 morti.
Paul Mason è un reporter britannico che racconta“i fatti separati dalle opinioni” come – dice - è nello stile britannico, chiarendo che i bombardamenti sulle case con famiglie, sui civili, sui centri dei rifugiati, non corrispondono ad alcuna esigenza militare. Uno tra gli esempi più evidente e terribile è stato il bombardamento di una scuola dell'UNRWA, con 21 morti.
Si sente circolare un discorso “genocida”, anche tra i palestinesi: “cercano di ucciderci tutti come se non ci fosse più spazio per entrambi sul pianeta”. Un ruolo importante in questo viene svolto dai social media che creano nelle menti la realtà.

Un altro giornalista, tedesco, studente di scienze politiche, Martin LeJeune, a Gaza durante l'attacco, già a bordo della nave “Stefano Chiarini” della seconda flottiglia per la libertà di Gaza nel 2011, comincia col mostrare alcune foto di fabbriche distrutte: carpenteria, fabbriche di dolci; e parla poi dei danni all'agricoltura, alla distruzione di aranceti. Difficile ricostruire, dice, dato che nessun indennizzo è previsto essendo Gaza considerata da Israele “entità ostile”

Ivan Karakashian, è coordinatore della unità per l'advocacy di Defense for Children International-Palestina, parla del grande trauma subito dai bambini, a cui è stato negato cibo e sonno, e sono stati usati come scudi umani dagli israeliani. Oltre 300000 bambini , secondo dati ONU, hanno bisogno di sostegno. E' vero che abbiamo tolto missili da una scuola, ma non c'erano rifugiati. I giovani sono oggetto di attacco, Israele percepisce lo spostamento delle giovani generazioni. La società civile deve reagire, dappertutto, anche negli Stati uniti che pongono sempre veto sulle condanne a Israele nelle Nazioni Unite e, lo apprendiamo adesso, hanno aumentato di 14 miliardi di dollari per i prossimi due anni, il bilancio per la difesa.

Proprio dagli Stati Uniti, prende la parola per la sua testimonianza, Max Blumenthal, giornalista , scrittore e blogger, produttore di cortometraggi (su You Tube), presente a Gaza durante l'attacco, per Mondoweiss. Mostra una mappa militare della zona, fatta da Israele, in collaborazione con Stati Uniti, dove si vede la buffer zone (zona cuscinetto) completamente distrutta. Parla del cecchinaggio contro ragazzi e delle 89 famiglie completamente distrutte; denuncia la deliberata scelta di ammassare civili e poi bombardare, come accaduto a Beit Hanoun.
Denuncia la campagna ad opera dei religiosi anche contro i militari palestinesi, che non sono nemici combattenti, ma blasfemi; c'è una completa disumanizzazione dei palestinesi, e anche questo è un aspetto “genocida”, e la società israeliana è pronta per questo...

Agnès Bertrand-Sanz è la direttrice dell'Ufficio medio oriente all'Aprodev, associazione di organizzazioni europee per lo sviluppo, protestanti, anglicane e ortodosse
Denuncia la ipocrisia della politica della Unione Europea, sempre dipendente da quella USA, e la necessità assoluta di trovare il modo di richiamare le istituzioni europee alle loro responsabilità. La UE ha seppellito il rapporto Goldstone, recentemente si è espressa contro la commissione di inchiesta a Gaza votata dal Consiglio diritti umani dell'ONU; ha fatto pressioni sulla ANP perché non adisse alla Corte Penale internazionale, “negativo per i negoziati di pace”! Le vittime vogliono giustizia: invito a ANP ad adire alla Corte Penale internazionale.

Michael Deas, coordinatore del Comitato Nazionale Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni in Europa. Illustra con precisione il senso e le ragioni della campagna, lanciata dai palestinesi, ben presto diventata internazionale, BDS, uno strumento fondamentale per colpire l'impunità israeliana e coinvolgere le società civili. Denuncia il doppio standard usato dalla UE nei confronti di Israele, a cui vengono mantenuti e accresciuti i privilegi, in campo economico e militare. Invita a sostenere con forza la richiesta di embargo militare su Israele e la sospensione dell'accordo di associazione UE-Israele.

A cura di Alessandra Mecozzi 30 settembre 2014

TRIBUNALE RUSSEL SULLA PALESTINA

TRIBUNALE RUSSELL SULLA PALESTINA, SESSIONE STRAORDINARIA SU GAZA, BRUXELLES 24 E 25 SETTEMBRE 2014

Il Tribunale Russell sulla Palestina, coraggiosa iniziativa di denuncia e cultura politica, è stato creato in risposta ad un appello di Ken Coates (Presidente della Bertrand Russell Peace Foundation), Nurit Peled (Israeli, Premio Sakharov per la libertà di parola 2001) e Leila Shahid (Delegata generale della Palestina presso la Unione Europea). La responsabilità dell'organizzazione del Tribunale Russell sulla Palestina è del Comitato organizzativo internazionale, i cui componenti sono: Ken Coates, Pierre Galand, Stéphane Hessel (morto nel 2013), Marcel-Francis Kahn, Robert Kissous, François Maspero, Paulette Pierson-Mathy, Bernard Ravenel and Brahim Senouci. Ha svolto le sue sessioni tra il 2010 e il 2014 a Barcellona, Londra, Città del Capo, New York, Bruxelles (sessione conclusiva e sessione straordinaria su Gaza). Per saperne di più www.russelltribunalonpalestine.com. (Conclusioni generali anche in italiano).

Sommario delle testimonianze
La giornata del 24 è stata dedicata all'ascolto dei testimoni da parte della giuria. Quella del 25 ad una conferenza stampa pubblica sui risultati e ad un incontro al parlamento europeo. Sono state due giornate utili ed emozionanti: utili per la quantità di informazioni e conoscenze; emozionanti per la partecipazione appassionata delle testimonianze

Dopo l'apertura di Pierre Galand, coordinatore dell'iniziativa del Tribunale Russell sulla Palestina, ha introdotto il giurato John Dugard ,già relatore speciale delle NU per i diritti umani nei territori palestinesi: “questa sessione sarà centrata sui fatti relativi alla operazione Protective Edge. Ascolteremeo le prove della uccisione di oltre 2000 palestinesi, il 70% civili, del ferimento di molte migliaia, dei grandi danni alla proprietà. Ascolteremo anche prove sulle armi usate; testimonianze sulla sofferenza della popolazione e sulle intenzioni degli attaccanti. Ma tutto questo sarà nel contesto del diritto internazionale. Le nostre procedure prevedono che fatto e diritto interagiscano.”
Ha poi dettagliato i caratteri della occupazione israeliana di Gaza, dal 1967, quando ne vennero cacciati gli egiziani, e anche dopo il ritiro del 2005. Ha inoltre parlato dell'assedio come punizione collettiva a partire dal 2006, anno della elezione di Hamas, come rafforzamento della occupazione, misure di autodifesa. Ha parlato dei missili di Hamas come strumenti di resistenza, non di terrorismo. Ha sottolineato il dovere di israeliani e palestinesi di rispettare il diritto umanitario internazionale per la protezione della popolazione civile. Evidenziando la sproporzione tra le vittime dei due lati, ha sottolineato che Israele si è reso responsabili di crimini di guerra secondo il diritto internazionale consuetudinario, con l'attacco a civili e a infrastrutture. E si è anche reso responsabile di crimini contro l'umanità, con assassinii e sterminio su larga scala. Ha richiamato la questione, controversa, di una possibile definizione di genocidio – in termini giuridici e secondo la convenzione internazionale delle NU sul genocidio del 1948 – in quanto si sia verificata la intenzione di distruggere in tutto o in parte una popolazione, non una parte politica. Ha richiamato la necessità che l'Autorità Nazionale palestinese ratifichi lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale per l'esercizio della giurisdizione internazionale.
Ha infine richiamato la responsabilità di paesi terzi e in particolare degli Stati Uniti, in quanto finanziatori di Israele (8,5 milioni di dollari al giorno) e fornitori di armi e assistenza militare.

Paul Behrens, professore di diritto penale all'Università di Edimburgo ed esperto in materia di genocidio, ha insistito sulla necessità di analizzare la questione da un punto di vista giuridico , differenziandolo da quello sociale. Ha anche sottolineato l'importanza di considerare la gravità dell'incitamento al genocidio e l'importanza di tutte le prove relative ad azioni e espressioni verbali atte a indurre e incoraggiare la distruzione di civili e loro abitazioni.

Sul tema delle armi utilizzate si è soffermato il colonnello in pensione Desmond Travers, dall'esercito irlandese, partecipante a forze di peace keeping, tra gli autori del rapporto Goldstone, in seguito alla operazione “Piombo fuso” 2008/9. Tornato da una settimana da Gaza, ha fatto una ampia disamina di tutte le armi utilizzate (prodotte negli Stati Uniti e in Israele) e si è soffermato anche sulla analisi delle “dottrine” alla base dell'azione dell'esercito israeliano. In particolare la dottrina Dahiya, nata nella guerra contro il Libano del 2006, dal nome di un villaggio che venne raso al suolo con lo sterminio della sua popolazione, significativa della teorizzazione dell'uso sproporzionato della forza contro i civili; citata la direttiva Hannibal, nata nel 1986, sempre rimasta segreta, ad indicare l'autorizzazione ad usare qualsiasi mezzo, per impedire che uno o più soldati vengano fatti prigionieri, anche se questo provoca il loro ferimento o mette in pericolo la loro vita: questo per l'assoluto rifiuto di negoziare con “i terroristi”.

Tra le testimonianze più emozionanti sono state sicuramente quelle di giornalisti: David Sheen. originario di Toronto, vive a Dimona, in Israele, giornalista e regista, ha parlato soprattutto dell'incitamento all'uccisione e distruzione dei palestinesi nel discorso pubblico israeliano, del razzismo e odio che attraversano l'opinione pubblica, e che rappresentano un incitamento chiaro al genocidio. Ha mostrato e raccontato una lunga serie di espressioni usate da capi religiosi ed esponenti politici, richiamandosi talvolta alla fraseologia biblica, dall'incitamento all'uccisione di massa alle giustificazioni per l'uccisione di bambini alle dichiarazioni di orgoglio di essere razzisti.

Eran Efrat, già sergente dell'esercito israeliano, poi capo ricerca dell'organizzazione “Breaking the silence” (soldati israeliani veterani impegnati nella denuncia delle condizioni dei territori palestinesi occupati), tra i primi ad aver denunciato l'uso del fosforo bianco nella operazione “Piombo fuso”, ha a lungo parlato del massacro operato nel villaggio di Shuja'iyya e della sua totale distruzione con massicci bombardamenti. “Un vero e proprio attacco di vendetta, dato che la resistenza aveva ucciso 7 soldati israeliani...il punto non sono le regole di ingaggio o simili...il punto è che come palestinese non devi alzare la testa....Ogni volta è peggio, e succederà ancora...il diritto alla resistenza non è riconosciuto, sei un terrorista e basta....”

Mohammed Omer, giornalista palestinese del campo profughi di Rafah. Sempre vissuto a Gaza, ha esordito mostrando una foto di un ragazzino in ospedale ed ha proseguito con tre casi sconvolgenti. L'esecuzione sommaria di Mohammed Tawfik Qudeh, 65 anni, ucciso di fronte alla sua famiglia, mentre chiedeva “per favore non mi sparare”; il caso di un religioso della moschea di Khuza costretto a spogliarsi nudo di fronte a tutti; picchiato e interrogato su dove si trovino i missili; quella del dott. Kamal Qudeh, di una clinica privata, a cui hanno detto di evacuare in pochi minuti e – dice – “siamo stati costretti a portare i corpi sulle nostre spalle”. E, racconta, tutti hanno denunciato l'assenza della Croce rossa internazionale. E l'argentino Estrella, della giuria, commenta che sarebbe necessario un Tribunale Russell sulla stampa per il suo comportamento!

Mads Gilbert è un chirurgo norvegese, dal 1981 lavora con palestinesi, ed era a Gaza durante la guerra. Abbiamo potuto leggere una sua disperata lettera aperta sui massacri di cui è stato testimone, sul collasso delle strutture ospedaliere. E di questo parla, come, dopo di lui, Mohammed Abou Arab, un chirurgo palestinese, che risiede e lavora in Norvegia. Hanno lavorato prevalentemente nell'ospedale Al Shifa.
Il sistema sanitario era già in ginocchio a causa dell'assedio, e i lavoratori senza stipendio a causa del blocco posto dagli Stati Uniti sui conti di Hamas. Era invece un sistema eccellente, il cui personale continua a lavorare indefessamente, senza paga e senza orario. Loro sono gli “eroi”. Questa volta è peggiore delle altre – dice Mads Gilbert – la politica coloniale israeliana volta a cacciare la popolazione palestinese dalla sua terra, è stata più aggressiva di sempre, ha deliberatamente preso di mira ospedali, cliniche, ambulanze, distruggendo il 60% del sistema sanitario. L'impunità di Israele è la grande sfida di fronte a tutti noi. Impressionante come i civili palestinesi siano stati usati come scudi umani. Ne siamo stati accusati noi, ma qui in ospedale mai visti soldati palestinesi, che del resto sarebbero stati allontanati. Mohammed Abou Arab aggiunge che nel personale ospedaliero ci sono stati 144 morti.
Paul Mason è un reporter britannico che racconta“i fatti separati dalle opinioni” come – dice - è nello stile britannico, chiarendo che i bombardamenti sulle case con famiglie, sui civili, sui centri dei rifugiati, non corrispondono ad alcuna esigenza militare. Uno tra gli esempi più evidente e terribile è stato il bombardamento di una scuola dell'UNRWA, con 21 morti.
Si sente circolare un discorso “genocida”, anche tra i palestinesi: “cercano di ucciderci tutti come se non ci fosse più spazio per entrambi sul pianeta”. Un ruolo importante in questo viene svolto dai social media che creano nelle menti la realtà.

Un altro giornalista, tedesco, studente di scienze politiche, Martin LeJeune, a Gaza durante l'attacco, già a bordo della nave “Stefano Chiarini” della seconda flottiglia per la libertà di Gaza nel 2011, comincia col mostrare alcune foto di fabbriche distrutte: carpenteria, fabbriche di dolci; e parla poi dei danni all'agricoltura, alla distruzione di aranceti. Difficile ricostruire, dice, dato che nessun indennizzo è previsto essendo Gaza considerata da Israele “entità ostile”

Ivan Karakashian, è coordinatore della unità per l'advocacy di Defense for Children International-Palestina, parla del grande trauma subito dai bambini, a cui è stato negato cibo e sonno, e sono stati usati come scudi umani dagli israeliani. Oltre 300000 bambini , secondo dati ONU, hanno bisogno di sostegno. E' vero che abbiamo tolto missili da una scuola, ma non c'erano rifugiati. I giovani sono oggetto di attacco, Israele percepisce lo spostamento delle giovani generazioni. La società civile deve reagire, dappertutto, anche negli Stati uniti che pongono sempre veto sulle condanne a Israele nelle Nazioni Unite e, lo apprendiamo adesso, hanno aumentato di 14 miliardi di dollari per i prossimi due anni, il bilancio per la difesa.

Proprio dagli Stati Uniti, prende la parola per la sua testimonianza, Max Blumenthal, giornalista , scrittore e blogger, produttore di cortometraggi (su You Tube), presente a Gaza durante l'attacco, per Mondoweiss. Mostra una mappa militare della zona, fatta da Israele, in collaborazione con Stati Uniti, dove si vede la buffer zone (zona cuscinetto) completamente distrutta. Parla del cecchinaggio contro ragazzi e delle 89 famiglie completamente distrutte; denuncia la deliberata scelta di ammassare civili e poi bombardare, come accaduto a Beit Hanoun.
Denuncia la campagna ad opera dei religiosi anche contro i militari palestinesi, che non sono nemici combattenti, ma blasfemi; c'è una completa disumanizzazione dei palestinesi, e anche questo è un aspetto “genocida”, e la società israeliana è pronta per questo...

Agnès Bertrand-Sanz è la direttrice dell'Ufficio medio oriente all'Aprodev, associazione di organizzazioni europee per lo sviluppo, protestanti, anglicane e ortodosse
Denuncia la ipocrisia della politica della Unione Europea, sempre dipendente da quella USA, e la necessità assoluta di trovare il modo di richiamare le istituzioni europee alle loro responsabilità. La UE ha seppellito il rapporto Goldstone, recentemente si è espressa contro la commissione di inchiesta a Gaza votata dal Consiglio diritti umani dell'ONU; ha fatto pressioni sulla ANP perché non adisse alla Corte Penale internazionale, “negativo per i negoziati di pace”! Le vittime vogliono giustizia: invito a ANP ad adire alla Corte Penale internazionale.

Michael Deas, coordinatore del Comitato Nazionale Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni in Europa. Illustra con precisione il senso e le ragioni della campagna, lanciata dai palestinesi, ben presto diventata internazionale, BDS, uno strumento fondamentale per colpire l'impunità israeliana e coinvolgere le società civili. Denuncia il doppio standard usato dalla UE nei confronti di Israele, a cui vengono mantenuti e accresciuti i privilegi, in campo economico e militare. Invita a sostenere con forza la richiesta di embargo militare su Israele e la sospensione dell'accordo di associazione UE-Israele.

A cura di Alessandra Mecozzi 30 settembre 2014

TRIBUNALE RUSSEL SULLA PALESTINA

TRIBUNALE RUSSELL SULLA PALESTINA, SESSIONE STRAORDINARIA SU GAZA, BRUXELLES 24 E 25 SETTEMBRE 2014

Il Tribunale Russell sulla Palestina, coraggiosa iniziativa di denuncia e cultura politica, è stato creato in risposta ad un appello di Ken Coates (Presidente della Bertrand Russell Peace Foundation), Nurit Peled (Israeli, Premio Sakharov per la libertà di parola 2001) e Leila Shahid (Delegata generale della Palestina presso la Unione Europea). La responsabilità dell'organizzazione del Tribunale Russell sulla Palestina è del Comitato organizzativo internazionale, i cui componenti sono: Ken Coates, Pierre Galand, Stéphane Hessel (morto nel 2013), Marcel-Francis Kahn, Robert Kissous, François Maspero, Paulette Pierson-Mathy, Bernard Ravenel and Brahim Senouci. Ha svolto le sue sessioni tra il 2010 e il 2014 a Barcellona, Londra, Città del Capo, New York, Bruxelles (sessione conclusiva e sessione straordinaria su Gaza). Per saperne di più www.russelltribunalonpalestine.com. (Conclusioni generali anche in italiano).

Sommario delle testimonianze
La giornata del 24 è stata dedicata all'ascolto dei testimoni da parte della giuria. Quella del 25 ad una conferenza stampa pubblica sui risultati e ad un incontro al parlamento europeo. Sono state due giornate utili ed emozionanti: utili per la quantità di informazioni e conoscenze; emozionanti per la partecipazione appassionata delle testimonianze

Dopo l'apertura di Pierre Galand, coordinatore dell'iniziativa del Tribunale Russell sulla Palestina, ha introdotto il giurato John Dugard ,già relatore speciale delle NU per i diritti umani nei territori palestinesi: “questa sessione sarà centrata sui fatti relativi alla operazione Protective Edge. Ascolteremeo le prove della uccisione di oltre 2000 palestinesi, il 70% civili, del ferimento di molte migliaia, dei grandi danni alla proprietà. Ascolteremo anche prove sulle armi usate; testimonianze sulla sofferenza della popolazione e sulle intenzioni degli attaccanti. Ma tutto questo sarà nel contesto del diritto internazionale. Le nostre procedure prevedono che fatto e diritto interagiscano.”
Ha poi dettagliato i caratteri della occupazione israeliana di Gaza, dal 1967, quando ne vennero cacciati gli egiziani, e anche dopo il ritiro del 2005. Ha inoltre parlato dell'assedio come punizione collettiva a partire dal 2006, anno della elezione di Hamas, come rafforzamento della occupazione, misure di autodifesa. Ha parlato dei missili di Hamas come strumenti di resistenza, non di terrorismo. Ha sottolineato il dovere di israeliani e palestinesi di rispettare il diritto umanitario internazionale per la protezione della popolazione civile. Evidenziando la sproporzione tra le vittime dei due lati, ha sottolineato che Israele si è reso responsabili di crimini di guerra secondo il diritto internazionale consuetudinario, con l'attacco a civili e a infrastrutture. E si è anche reso responsabile di crimini contro l'umanità, con assassinii e sterminio su larga scala. Ha richiamato la questione, controversa, di una possibile definizione di genocidio – in termini giuridici e secondo la convenzione internazionale delle NU sul genocidio del 1948 – in quanto si sia verificata la intenzione di distruggere in tutto o in parte una popolazione, non una parte politica. Ha richiamato la necessità che l'Autorità Nazionale palestinese ratifichi lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale per l'esercizio della giurisdizione internazionale.
Ha infine richiamato la responsabilità di paesi terzi e in particolare degli Stati Uniti, in quanto finanziatori di Israele (8,5 milioni di dollari al giorno) e fornitori di armi e assistenza militare.

Paul Behrens, professore di diritto penale all'Università di Edimburgo ed esperto in materia di genocidio, ha insistito sulla necessità di analizzare la questione da un punto di vista giuridico , differenziandolo da quello sociale. Ha anche sottolineato l'importanza di considerare la gravità dell'incitamento al genocidio e l'importanza di tutte le prove relative ad azioni e espressioni verbali atte a indurre e incoraggiare la distruzione di civili e loro abitazioni.

Sul tema delle armi utilizzate si è soffermato il colonnello in pensione Desmond Travers, dall'esercito irlandese, partecipante a forze di peace keeping, tra gli autori del rapporto Goldstone, in seguito alla operazione “Piombo fuso” 2008/9. Tornato da una settimana da Gaza, ha fatto una ampia disamina di tutte le armi utilizzate (prodotte negli Stati Uniti e in Israele) e si è soffermato anche sulla analisi delle “dottrine” alla base dell'azione dell'esercito israeliano. In particolare la dottrina Dahiya, nata nella guerra contro il Libano del 2006, dal nome di un villaggio che venne raso al suolo con lo sterminio della sua popolazione, significativa della teorizzazione dell'uso sproporzionato della forza contro i civili; citata la direttiva Hannibal, nata nel 1986, sempre rimasta segreta, ad indicare l'autorizzazione ad usare qualsiasi mezzo, per impedire che uno o più soldati vengano fatti prigionieri, anche se questo provoca il loro ferimento o mette in pericolo la loro vita: questo per l'assoluto rifiuto di negoziare con “i terroristi”.

Tra le testimonianze più emozionanti sono state sicuramente quelle di giornalisti: David Sheen. originario di Toronto, vive a Dimona, in Israele, giornalista e regista, ha parlato soprattutto dell'incitamento all'uccisione e distruzione dei palestinesi nel discorso pubblico israeliano, del razzismo e odio che attraversano l'opinione pubblica, e che rappresentano un incitamento chiaro al genocidio. Ha mostrato e raccontato una lunga serie di espressioni usate da capi religiosi ed esponenti politici, richiamandosi talvolta alla fraseologia biblica, dall'incitamento all'uccisione di massa alle giustificazioni per l'uccisione di bambini alle dichiarazioni di orgoglio di essere razzisti.

Eran Efrat, già sergente dell'esercito israeliano, poi capo ricerca dell'organizzazione “Breaking the silence” (soldati israeliani veterani impegnati nella denuncia delle condizioni dei territori palestinesi occupati), tra i primi ad aver denunciato l'uso del fosforo bianco nella operazione “Piombo fuso”, ha a lungo parlato del massacro operato nel villaggio di Shuja'iyya e della sua totale distruzione con massicci bombardamenti. “Un vero e proprio attacco di vendetta, dato che la resistenza aveva ucciso 7 soldati israeliani...il punto non sono le regole di ingaggio o simili...il punto è che come palestinese non devi alzare la testa....Ogni volta è peggio, e succederà ancora...il diritto alla resistenza non è riconosciuto, sei un terrorista e basta....”

Mohammed Omer, giornalista palestinese del campo profughi di Rafah. Sempre vissuto a Gaza, ha esordito mostrando una foto di un ragazzino in ospedale ed ha proseguito con tre casi sconvolgenti. L'esecuzione sommaria di Mohammed Tawfik Qudeh, 65 anni, ucciso di fronte alla sua famiglia, mentre chiedeva “per favore non mi sparare”; il caso di un religioso della moschea di Khuza costretto a spogliarsi nudo di fronte a tutti; picchiato e interrogato su dove si trovino i missili; quella del dott. Kamal Qudeh, di una clinica privata, a cui hanno detto di evacuare in pochi minuti e – dice – “siamo stati costretti a portare i corpi sulle nostre spalle”. E, racconta, tutti hanno denunciato l'assenza della Croce rossa internazionale. E l'argentino Estrella, della giuria, commenta che sarebbe necessario un Tribunale Russell sulla stampa per il suo comportamento!

Mads Gilbert è un chirurgo norvegese, dal 1981 lavora con palestinesi, ed era a Gaza durante la guerra. Abbiamo potuto leggere una sua disperata lettera aperta sui massacri di cui è stato testimone, sul collasso delle strutture ospedaliere. E di questo parla, come, dopo di lui, Mohammed Abou Arab, un chirurgo palestinese, che risiede e lavora in Norvegia. Hanno lavorato prevalentemente nell'ospedale Al Shifa.
Il sistema sanitario era già in ginocchio a causa dell'assedio, e i lavoratori senza stipendio a causa del blocco posto dagli Stati Uniti sui conti di Hamas. Era invece un sistema eccellente, il cui personale continua a lavorare indefessamente, senza paga e senza orario. Loro sono gli “eroi”. Questa volta è peggiore delle altre – dice Mads Gilbert – la politica coloniale israeliana volta a cacciare la popolazione palestinese dalla sua terra, è stata più aggressiva di sempre, ha deliberatamente preso di mira ospedali, cliniche, ambulanze, distruggendo il 60% del sistema sanitario. L'impunità di Israele è la grande sfida di fronte a tutti noi. Impressionante come i civili palestinesi siano stati usati come scudi umani. Ne siamo stati accusati noi, ma qui in ospedale mai visti soldati palestinesi, che del resto sarebbero stati allontanati. Mohammed Abou Arab aggiunge che nel personale ospedaliero ci sono stati 144 morti.
Paul Mason è un reporter britannico che racconta“i fatti separati dalle opinioni” come – dice - è nello stile britannico, chiarendo che i bombardamenti sulle case con famiglie, sui civili, sui centri dei rifugiati, non corrispondono ad alcuna esigenza militare. Uno tra gli esempi più evidente e terribile è stato il bombardamento di una scuola dell'UNRWA, con 21 morti.
Si sente circolare un discorso “genocida”, anche tra i palestinesi: “cercano di ucciderci tutti come se non ci fosse più spazio per entrambi sul pianeta”. Un ruolo importante in questo viene svolto dai social media che creano nelle menti la realtà.

Un altro giornalista, tedesco, studente di scienze politiche, Martin LeJeune, a Gaza durante l'attacco, già a bordo della nave “Stefano Chiarini” della seconda flottiglia per la libertà di Gaza nel 2011, comincia col mostrare alcune foto di fabbriche distrutte: carpenteria, fabbriche di dolci; e parla poi dei danni all'agricoltura, alla distruzione di aranceti. Difficile ricostruire, dice, dato che nessun indennizzo è previsto essendo Gaza considerata da Israele “entità ostile”

Ivan Karakashian, è coordinatore della unità per l'advocacy di Defense for Children International-Palestina, parla del grande trauma subito dai bambini, a cui è stato negato cibo e sonno, e sono stati usati come scudi umani dagli israeliani. Oltre 300000 bambini , secondo dati ONU, hanno bisogno di sostegno. E' vero che abbiamo tolto missili da una scuola, ma non c'erano rifugiati. I giovani sono oggetto di attacco, Israele percepisce lo spostamento delle giovani generazioni. La società civile deve reagire, dappertutto, anche negli Stati uniti che pongono sempre veto sulle condanne a Israele nelle Nazioni Unite e, lo apprendiamo adesso, hanno aumentato di 14 miliardi di dollari per i prossimi due anni, il bilancio per la difesa.

Proprio dagli Stati Uniti, prende la parola per la sua testimonianza, Max Blumenthal, giornalista , scrittore e blogger, produttore di cortometraggi (su You Tube), presente a Gaza durante l'attacco, per Mondoweiss. Mostra una mappa militare della zona, fatta da Israele, in collaborazione con Stati Uniti, dove si vede la buffer zone (zona cuscinetto) completamente distrutta. Parla del cecchinaggio contro ragazzi e delle 89 famiglie completamente distrutte; denuncia la deliberata scelta di ammassare civili e poi bombardare, come accaduto a Beit Hanoun.
Denuncia la campagna ad opera dei religiosi anche contro i militari palestinesi, che non sono nemici combattenti, ma blasfemi; c'è una completa disumanizzazione dei palestinesi, e anche questo è un aspetto “genocida”, e la società israeliana è pronta per questo...

Agnès Bertrand-Sanz è la direttrice dell'Ufficio medio oriente all'Aprodev, associazione di organizzazioni europee per lo sviluppo, protestanti, anglicane e ortodosse
Denuncia la ipocrisia della politica della Unione Europea, sempre dipendente da quella USA, e la necessità assoluta di trovare il modo di richiamare le istituzioni europee alle loro responsabilità. La UE ha seppellito il rapporto Goldstone, recentemente si è espressa contro la commissione di inchiesta a Gaza votata dal Consiglio diritti umani dell'ONU; ha fatto pressioni sulla ANP perché non adisse alla Corte Penale internazionale, “negativo per i negoziati di pace”! Le vittime vogliono giustizia: invito a ANP ad adire alla Corte Penale internazionale.

Michael Deas, coordinatore del Comitato Nazionale Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni in Europa. Illustra con precisione il senso e le ragioni della campagna, lanciata dai palestinesi, ben presto diventata internazionale, BDS, uno strumento fondamentale per colpire l'impunità israeliana e coinvolgere le società civili. Denuncia il doppio standard usato dalla UE nei confronti di Israele, a cui vengono mantenuti e accresciuti i privilegi, in campo economico e militare. Invita a sostenere con forza la richiesta di embargo militare su Israele e la sospensione dell'accordo di associazione UE-Israele.

A cura di Alessandra Mecozzi 30 settembre 2014

sabato 27 settembre 2014

L'IGNOBEL PER LA PACE


Il riarmo nucleare del Premio Nobel per la pace
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27 set 2014
nucleare, Obama, Usa
by Redazione

E’ stato appena realizzato a Kansas City un nuovo enorme impianto, più grande del Pentagono, dove migliaia di addetti, dotati di futuristiche tecnologie, «modernizzano» le armi nucleari, testandole con avanzati sistemi che non richiedono esplosioni sotterranee



di Manlio Dinucci

Roma, 27 settembre 2014, Nena News – Cinque anni fa, nell’ottobre 2009, il presidente Barack Obama fu insignito del Premio Nobel per la Pace in base alla «sua visione di un mondo libero dalle armi nucleari, e al lavoro da lui svolto in tal senso, che ha potentemente stimolato il disarmo». Motivazione che appare ancora più grottesca alla luce di quanto documenta oggi un ampio servizio del New York Times: «L’amministrazione Obama sta investendo decine di miliardi di dollari nella modernizzazione e ricostruzione dell’arsenale nucleare e degli impianti nucleari statunitensi». A tale scopo è stato appena realizzato a Kansas City un nuovo enorme impianto, più grande del Pentagono, dove migliaia di addetti, dotati di futuristiche tecnologie, «modernizzano» le armi nucleari, testandole con avanzati sistemi che non richiedono esplosioni sotterranee. L’impianto di Kansas City fa parte di un «complesso nazionale in espansione per la fabbricazione di testate nucleari», composto da otto maggiori impianti e laboratori con un personale di oltre 40mila specialisti. A Los Alamos (New Mexico) è iniziata la costruzione di un nuovo grande impianto per la produzione di plutonio per le testate nucleari, a Oak Ridge (Tennessee) se ne sta realizzando un altro per produrre uranio arricchito ad uso militare. I lavori sono stati però rallentati dal fatto che il costo del progetto di Los Alamos è lievitato in dieci anni da 660 milioni a 5,8 miliardi di dollari, quello di Oak Ridge da 6,5 a 19 miliardi.

L’amministrazione Obama ha presentato complessivamente 57 progetti di upgrade di impianti nucleari militari, 21 dei quali sono stati approvati dall’Ufficio governativo di contabilità, mentre 36 sono in attesa di approvazione. Il costo stimato è allo stato attuale di 355 miliardi di dollari in dieci anni. Ma è solo la punta dell’iceberg. Al costo degli impianti si aggiunge quello dei nuovi vettori nucleari.

Il piano presentato dall’amministrazione Obama al Pentagono prevede la costruzione di 12 nuovi sottomarini da attacco nucleare (ciascuno in grado di lanciare, con 24 missili balistici, fino a 200 testate nucleari su altrettanti obiettivi), altri 100 bombardieri strategici (ciascuno armato di circa 20 missili o bombe nucleari) e 400 missili balistici intercontinentali con base a terra (ciascuno con una testata nucleare di grande potenza, ma sempre armabile di testate multiple indipendenti).

Viene così avviato dall’amministrazione Obama un nuovo programma di armamento nucleare che, secondo un recente studio del Monterey Institute, verrà a costare (al valore attuale del dollaro) circa 1000 miliardi di dollari, culminando come spesa nel periodo 2024-2029. Essa si inserisce nella spesa militare generale degli Stati uniti, composta dal bilancio del Pentagono (640 miliardi di dollari nel 2013), cui si aggiungono altre voci di carattere militare (la spesa per le armi nucleari, ad esempio, è iscritta nel bilancio del Dipartimento dell’Energia), portando il totale a quasi 1000 miliardi di dollari annui, corrispondenti nel bilancio federale a circa un dollaro su quattro speso a scopo militare. L’accelerazione della corsa agli armamenti nucleari, impressa dall’amministrazione Obama, vanifica di fatto i limitati passi sulla via del disarmo stabiliti col nuovo trattato Start, firmato a Praga da Stati uniti e Russia nel 2010 (v. il manifesto del 1° aprile 2010). Sia la Russia che la Cina accelereranno il potenziamento delle loro forze nucleari, attuando contromisure per neutralizzare lo «scudo anti-missili» che gli Usa stanno realizzando per acquisire la capacità di lanciare un first strike nucleare e non essere colpiti dalla rappresaglia.

Viene coinvolta direttamente nel processo di «ammodernamento» delle forze nucleari Usa anche l’Italia: le 70-90 bombe nucleari statunitensi B-61, stoccate ad Aviano e Ghedi-Torre, vengono trasformate da bombe a caduta libera in bombe «intelligenti» a guida di precisione, ciascuna con una potenza di 50 kiloton (circa il quadruplo della bomba di Hiroshima), particolarmente adatte ai nuovi caccia Usa F-35 che l’Italia si è impegnata ad acquistare. Ma di tutto questo, nei talk show, non si parla. Nena News
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venerdì 26 settembre 2014

Israele accelera le demolizioni di case dei Beduini




26 set 2014
Amministrazione civile Cisgiordania, beduini
by Redazione

L’area selezionata, appartenente a Gerusalemme Est, è stata prescelta per l’espansione della colonia di Ma’aleh Adumim.



di Amira Hass* Haaretz

Roma, 26 settembre 2014, Nena News – L’Amministrazione Civile della Cisgiordania (l’istituzione israeliana che sovrintende all’occupazione, n.d.t.) da aprile ha impresso un’accelerazione alle demolizioni dei fabbricati dei Beduini nella zona E-1 di Gerusalemme Est. L’area è stata prescelta per espandere la colonia di Ma’aleh Adumim. Il numero di tali demolizioni nei primi otto mesi del 2014 è stato più alto in confronto a qualunque altro periodo degli ultimi cinque anni, come pure di conseguenza il numero di persone che hanno perso la loro casa, secondo quanto riportato dall’indagine dell’Associazione dell’ Agenzia per lo Sviluppo sulla base dei dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie.

Sebbene le demolizioni siano state eseguite solamente in quattro degli otto mesi complessivi (marzo, aprile, maggio e agosto), in quei mesi sono stati rasi al suolo nell’area E-1 più fabbricati (35) in confronto a tutto il 2013 (21). Conseguentemente il numero delle persone senza casa è salito da 57 [nel 2013] a 156 [negli 8 mesi del 2014]. L’aumento spropositato del numero di persone che sono state private della propria casa a causa delle demolizioni nei primi 8 mesi del 2014 confrontato con il numero di edifici rasi al suolo segnala che la maggior parte delle strutture distrutte quest’anno erano residenziali e non per il bestiame o per altri usi.

In tutta la zona C- la parte della Cisgiordania sotto il pieno controllo di Israele, in base agli accordi di Oslo – l’Amministrazione Civile ha fatto demolire 346 fabbricati in questi otto mesi [del 2014], lasciando 668 Palestinesi senza casa. In tutto il 2013, 565 demolizioni hanno prodotto 805 Palestinesi senza casa. Le uniche demolizioni avvenute finora questo mese sono successe l’8 settembre, quando l’Amministrazione Civile ha decretato l’abbattimento di tre case e di un recinto per le pecore a Khan al – Ahmar, un accampamento beduino vicino a Ma’aleh Adumim.

Vi abitava una famiglia composta da 14 persone, compresi otto bambini. Per la quarta volta in tre anni le case della famiglia sono state demolite, dato che si trovavano all’interno di un’area utilizzata dall’esercito israeliano per le esercitazioni di tiro. La famiglia, come la maggior parte dei Beduini [che si trovano] nella stessa situazione, è disposta a rischiare ripetute demolizioni piuttosto che lasciare l’area dove vive, in quanto vivono dell’allevamento delle pecore e delle capre e di lavori saltuari nelle comunità vicine.

L’agenzia palestinese di informazione Ma’an ha anche riferito che giovedì scorso [il 18 di settembre, n.d.t.] gli ispettori dell’Amministrazione Civile, accompagnati da decine di soldati, da un bulldozer e un elicottero, hanno fotografato tutti i fabbricati di diverse comunità beduine vicino a Azariyeh e Abu Dis e hanno distrutto qualche recinzione. I rappresentanti dei Beduini pensano che le demolizioni siano recentemente aumentate perché il piano dell’Amministrazione Civile per sistemarli in un nuovo e definitivo villaggio a nord di Gerico sta andando avanti e che l’Agenzia spera di esercitare una pressione per indurli ad accettare il trasferimento. Il progetto prevede di spostare migliaia di Beduini da 23 comunità di Gerusalemme Est e ricollocarli nel nuovo paese, Talet Nueima, insieme agli appartenenti ad altre tribù beduine. Il loro trasferimento permetterebbe l’espansione di diversi insediamenti ebraici.

L’Amministrazione Civile rifiuta di concedere ai Beduini permessi di costruire nelle comunità dove attualmente vivono o di collegare queste comunità alle infrastrutture necessarie, anche se hanno vissuto in questa zona fin dagli anni cinquanta. Nel frattempo la loro mobilità si è ridotta sensibilmente a causa della costruzione di colonie e di strade e del fatto che alcune zone sono state dichiarate poligoni militari o riserve naturali.

Nel corso degli ultimi 20 anni, i Beduini hanno ripetutamente presentato ricorso all’Alta Corte di Giustizia contro le demolizioni. Dato che la Corte non ha mai emesso sentenze relative all’illegalità in linea di principio delle demolizioni come sostenuto nei loro reclami, le ha più volte proibite per il fatto che i Beduini non avevano altro posto dove vivere. La costruzione di Talet Nueima, anche se i Beduini hanno già dichiarato di esserne contrari, permetterà alle autorità di affermare che hanno un qualche altro posto dove vivere.

L’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che assiste i rifugiati palestinesi, domenica scorsa ha chiesto urgentemente ai paesi donatori che finanziano l’Autorità Palestinese di opporsi più fermamente al piano di trasferimento. La maggior parte dei Beduini sono stati espulsi dal Neghev nel 1948 e di conseguenza sono registrati come rifugiati. Il commissario generale dell’UNRWA Pierre Krahenbuhl ha detto che il piano potrebbe considerarsi un caso di trasferimento forzoso, quindi in violazione del diritto internazionale e permetterebbe anche ulteriori costruzioni di colonie, minando perciò la possibilità della soluzione a due Stati. Nena News

*Traduzione di Carlo Tagliacozzo
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martedì 23 settembre 2014

Palestina Report di Operazione Colomba

Palestina/Israele
Contesto Generale
Il mese di Agosto è stato segnato dal proseguimento dell'operazione militare israeliana "Protective
Edge", con pesanti bombardamenti su Gaza, alternati a fasi di tregua e ripresa delle ostilità, fino al
temporaneo cessate il fuoco raggiunto il 26 Agosto: l'inizio delle trattative definitive è infatti
rimandato di un mese. Al momento è stato aperto un valico per lasciare passare gli aiuti umanitari e
il materiale necessario per avviare la ricostruzione di Gaza. Sono inoltre state riaperte per 6 miglia,
rispetto alle precedenti 3 miglia, le acque marine territoriali di Gaza. Ricordiamo che secondo il
diritto internazionale le libere acque territoriali dovrebbero arrivare sino alle 20 miglia.
Soltanto tra un mese, a trattative avviate, sarà possibile capire se e quanto l'oppressione e
l'embargo su Gaza saranno effettivamente allentati.
Il dissenso nei confronti dell'operazione militare “protective Edge” registrato in molte parti del
mondo si è manifestato anche in Cisgiordania, dove sono state fatte diverse manifestazioni in
solidarietà con Gaza e contro l'occupazione Israeliana.
Come detto da Francesco Rocca, capo della Cri (Croce rossa italiana), la guerra ha portato una
gravissima crisi umanitaria: “Non ho mai visto nulla di simile. La distruzione di alcune zone della
Striscia di Gaza, come Beit Hanoun, dove sono appena stato (…), è tutto raso al suolo. Ero venuto
qui anche nel 2008, alla fine dell’Operazione militare israeliana Piombo fuso. Niente a che vedere,
questa volta è molto, molto peggio”.
I morti totali sono almeno 2.140 palestinesi, di cui 514 bambini. Cinque le vittime civili israeliane,
incluso un bambino, e 64 i soldati morti. Israele ha distrutto almeno 17.000 abitazioni, lasciando
circa un terzo del 1.800.000 abitanti palestinesi di Gaza senza una casa. Israele ha devastato le
infrastrutture di Gaza, danneggiando e distruggendo molti ospedali, scuole, fabbriche ed impianti di
produzione elettrica, tutti presi di mira e distrutti.
Nonostante la fine dell'operazione militare israeliana e il prossimo inizio dei negoziati, l'embargo su
Gaza e l'occupazione della Cisgiordania continuano.
Condivisione e Lavoro
Il mese di Agosto è stato segnato da numerosi accompagnamenti coi pastori nelle loro terre vicino
alle colonie o agli avamposti israeliani, dove molto spesso sono stati scacciati o hanno subito
pressioni da coloni e militari.
• NOTIZIE DAI PROGETTI •
OPERAZIONE COLOMBA • REPORT / AGOSTO 2014 4
Abbiamo accompagnato quasi ogni giorno i pastori di Tuba nella valle di Umm Zeituna, vicino ai
cow barns di Ma'on, perché proprio in questa zona i coloni e il responsabile della sicurezza della
colonia sono usciti con frequenza a scacciare e a intimidire i palestinesi. Anche i volontari di
Operazione Colomba sono stati minacciati una volta dai coloni durante le attività
d'accompagnamento dei pastori.
Nelle occasioni in cui non sono personalmente usciti i coloni questi hanno comunque chiamato i
soldati per scacciare i palestinesi dalla vallata.
I pastori nondimeno rimangono determinati ad andare nella loro terra a rivendicare la legittima
proprietà dei terreni nonostante le incessanti intimidazioni.
L'impropria collaborazione tra soldati e coloni si è resa evidente anche nell'area della collina di
Khelly, vicino all'ingresso della colonia di Ma'On: qui due ragazzi palestinesi hanno subito minacce
da parte dei soldati per diversi giorni.
In un'occasione uno dei militari li ha anche controllati tenendoli sotto mira con il mirino del proprio
M16 invece che con il binocolo d'ordinanza.
Il giorno 18 di Agosto, a seguito della chiamata di un colono, sono arrivate su questa stessa zona 2
camionette dell'esercito, 2 della polizia, 1 della DCO ed anche il responsabile della sicurezza della
colonia: i due ragazzi sono infine stati arrestati dalla polizia dopo più di 3 ore di discussione. Da
notare che sia polizia che esercito si sono rifiutati di mostrare le mappe territoriali in cui sarebbero
indicate le zone nelle quali viene vietato ai pastori di pascolare le loro greggi sebbene in terra
palestinese.
I due ragazzi sono stati trattenuti in detenzione amministrativa alla stazione di polizia di Kyriat
Arba, senza prove né accuse per 5 ore circa; rilasciati poi nella notte dopo aver subito un
interrogatorio, intimiditi, a digiuno e dopo essere stati picchiati.
Anche a Qawawis i pastori palestinesi sono stati intimiditi dai coloni e dall'esercito nell'accesso alla
loro terra: l'esercito li ha minacciati di arresto e gli stessi coloni in diversi momenti si sono mostrati
armati davanti a loro. Tramite l'utilizzo di videocamere, in possesso agli stessi palestinesi, sono
riusciti a far rientrare i coloni. Inoltre grazie alla presenza internazionale i pastori hanno potuto
spingersi sempre un po' più avanti sulla propria terra.
Da segnalare in particolare la presenza continua di un pastore colono di Havat Ma'On che porta le
sue pecore a pascolare sulla vetta di Old Havat Ma'On, in terra palestinese, dopo avervi costruito
una recinzione illegale.
Anche in questo mese diversi sono stati i check-point sulla strada in direzione di Al Birke: in uno di
questi un palestinese è stato deliberatamente colpito e accecato con dello spray urticante. La
polizia ha poi sequestrato il trattore con cui trasportava la cisterna piena d'acqua.
• NOTIZIE DAI PROGETTI •
OPERAZIONE COLOMBA • REPORT / AGOSTO 2014 5
A Susiya l'asilo, che di fatto è un semplice caravan, ha rischiato la demolizione: dopo una trattativa
e una discussione è stato spostato dalla cima della collina alla valle sottostante. I palestinesi infatti
non hanno diritto, secondo la legge dell'occupazione, a costruire sulle vette.
La scuola è ricominciata da pochi giorni, e come da 10 anni a questa parte, i bambini di Tuba e
Maghayir al Abeed vengono accompagnati da una scorta militare fino al villaggio di At-Twuani,
attraverso la colonia di Ma'on e l'avamposto di Havat Ma'on.
Fin dai primi giorni la scorta si è mostrata negligente nel proprio compito, intimidendo e urlando ai
bambini e arrivando spesso in ritardo. Il terzo giorno non si è presentata affatto, costringendo i
bambini a fare una strada più lunga e insicura, accompagnati dai volontari internazionali.
Da subito avvocati e internazionali hanno fatto molta pressione affinché la scorta svolgesse il
proprio compito diligentemente e soprattutto affinché rispettasse la direttiva della Knesset (il
parlamento israeliano) che prevede una scorta militare di almeno due soldati a piedi e una jeep che
accompagna i bambini dei villaggi di Tuba e Maghayir al Abeed, per proteggere la loro incolumità
nel tragitto da e per la scuola, assicurando loro così il diritto all'istruzione.
Per concludere riportiamo una frase di un palestinese che vive in quest'area e che ci ha molto
ispirato in queste giornate di attesa della scorta: “Abbiamo il diritto di esistere, abbiamo il diritto di
resistere”.
R-Esistere
La parte di agosto sulla r-esistenza abbiamo deciso di dedicarla al nostro compagno Jean Emile, che
troppo presto ci ha lasciato. La sua assenza ha segnato profondamente i nostri giorni. Di grande
aiuto ci sono state le sue stesse parole, che ci hanno guidato nei momenti bui. Vogliamo qui
riportare uno dei suoi scritti più belli e profondi.
"Sono poche le persone che ritengono di non essere buone, ma se imparassimo il dolore che può
creare anche il nostro semplice esistere forse incominceremmo a dare più valore e peso alla nostra
libertà. Se c'è una cosa che sto imparando in questa fiera di paure, ideologie, fanatismi e belle
parole -che a volte sembrano perfette per un museo dell'orrore e dell'idiozia umana- è che la Libertà
è un dovere. Libertà di pensiero, di pensare senza nascondersi dietro ad una rispettabile
convenienza sociale, un ordine ricevuto, una legge democratica, un dogma di fede assorbito
acriticamente o un frettoloso quanto devastante “Non mi riguarda”. Liberi nonostante le crisi della
nostra fallace e preziosa umanità, liberi di seguire la propria coscienza distinguendo la pigrizia di
questa dalla fiducia nell'altro, liberi di essere sereni e impegnati anche di fronte al nostro errore."

lunedì 22 settembre 2014

RICOSTRUZIONE DI GAZA

Onore alle vittime: evitare di ripetere gli errori del passato nella ricostruzione di Gaza
Di Omar Shaban
Agosto 2014

Al Shabaka

Sommario
Per quanto sconvolgenti siano stati gli orrori della guerra che Israele ha scatenato nella Striscia di Gaza dal 7 luglio, la dimensione dei danni rischia di essere ancora più spaventosa. Una conferenza dei donatori per Gaza è prevista per settembre in Norvegia, ma se i donatori e l’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah adotteranno lo stesso approccio per la ricostruzione che hanno seguito dopo le scorse due guerre, le sofferenze di Gaza continueranno immutate. In questa sintesi politica, l’editorialista di Al-Shabaka Omar Shaban descrive le dimensioni della distruzione e spiega perché la ricostruzione sarà più difficile questa volta. Egli illustra gli errori che sono stati fatti nelle precedenti richieste dei donatori e negli sforzi della ricostruzione e sostiene che questi possono – e devono- essere evitati.

Perché questa guerra è molto peggiore
La Striscia di Gaza- uno dei luoghi più densamente abitati al mondo- ha subito tre guerre in soli sette anni. Peraltro la terza guerra è risultata peggiore delle due precedenti: il brutale attacco israeliano di 22 giorni nel 2008-09 e quello di otto giorni nel 2012, per quanto siano stati terribili, e lo dico in base alla mia personale esperienza in quanto persona che ha cercato di sopravvivere ad essi. Al 10 agosto nell’attuale guerra gli attacchi israeliani dall’aria, da terra e dal mare hanno ucciso 1.914 palestinesi e ne hanno feriti 9.861, in base a quanto affermato dal ministero palestinese della Salute, rispetto ai 1.4000 uccisi nel 2008-09. Le Nazioni Unite hanno stimato che fino ad ora il 73% dei morti nell’attuale attacco erano civili, compresi 448 bambini. Molti dei feriti hanno ricevuto danni gravissimi e non potranno riprendersi completamente, rimanendo del tutto o parzialmente disabili.
Ma questa guerra non è peggiore solo perché il numero di morti è maggiore; è peggio perché questa volta sarà molto più difficile la ricostruzione. La distruzione è cumulativa: si aggiunge alle distruzioni delle due precedenti guerre di Israele contro Gaza, molte delle quali non sono state superate. Per fare solo un esempio: 500 famiglie stanno ancora aspettando la ricostruzione delle loro case demolite. In più, la maggior parte dei danni significativi alle infrastrutture e ai pozzi d’acqua non sono stati riparati. Si stima che la sola guerra del 2008-09 abbia causato circa 1.7 miliardi di dollari di danni materiali a fattorie, fabbriche, servizi ed edifici pubblici, strade, reti elettriche ed idriche, impianti fognari e reti telefoniche.
Questa volta è ancora più grave perché Gaza sta affrontando le peggiori condizioni economiche, politiche e sociali da decenni. Il blocco imposto da Israele contro la Striscia di Gaza nel giugno del 2007 è stato solo lievemente attenuato all’inizio del giugno 2010. Poco dopo l’attacco omicida contro la Freedom Flottilla per Gaza il 31 maggio 2010, la pressione internazionale ha obbligato il governo di Benjamin Netanyahu ad aumentare il numero ed il volume dei beni ammessi nella fascia costiera.
Inoltre, i crescenti sforzi egiziani di distruggere i tunnel, che sono iniziati durante il governo del presidente Mohammed Morsi e notevolmente incrementati dopo la destituzione del presidente, ha privato le autorità di Hamas a Gaza di una fonte vitale di risorse e forniture di materie prime così come di beni intermedi e di prodotti finiti. Questa situazione ha reso estremamente difficile per il governo di Hamas pagare i salari ai suoi 50.000 dipendenti, molti dei quali attualmente non hanno ricevuto lo stipendio da parecchi mesi.
Allo stesso modo, nonostante la firma il 23 aprile 2014 di un accordo di riconciliazione, il recente governo di unità nazionale ha realizzato molto poco per affrontare le necessità immediate di Gaza. Per esempio, non ha pagato i salari dei dipendenti pubblici che sono stipendiati da Hamas, portando il governo di unità su un terreno ancora più precario nel mezzo di una crisi [sempre] più grave. Ciò è largamente imputabile al rifiuto israeliano di riconoscere [questo governo] o di permettere ai suoi membri di muoversi liberamente tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania.

Una stima preliminare dei danni
Le dimensioni delle distruzioni dell’estate 2014 possono essere valutate dalle seguenti stime preliminari calcolate all’11 agosto. Queste indicano che:
1. Ottomilaottocento case sono state distrutte in modo irreparabile e 7.900 sono state parzialmente distrutte, soprattutto nelle zone di confine di Shuja’iyah a est di Gaza City, Beit Hanoun e Beit Lahiya a nord e Khuza’a, Abasan e Rafah a sud est della Striscia di Gaza.
2. Molte delle circa 475.000 persone obbligate a lasciare le proprie case e a rifugiarsi nelle strutture dell’UNRWA (United Nations Refugee and Works Agency) e nelle scuole statali, così come nei parchi e chiese non saranno in grado di ritornare alle loro abitazioni in quanto sono state rese inagibili. Queste persone non hanno perso solo le proprie case ma anche tutte le proprietà, compresi mobili, vestiti, automobili e documenti.
3. Depositi contenenti 300.000 litri di combustibile industriale destinati all’unica stazione di produzione dell’elettricità nella Striscia di Gaza sono stati distrutti e la centrale è stata messa fuori uso. Senza energia elettrica, le scorte di cibo vanno a male, la fornitura di acqua per le abitazioni è interrotta, gli scarichi fognari non possono essere trattati e gli ospedali sono obbligati a contare su generatori di elettricità poco sicuri. Oltretutto otto delle dieci linee elettriche che arrivano da Israele e che riforniscono la Striscia di Gaza sono state scollegate, facendo scendere la fornitura di elettricità importata da Israele dai 120 megawatt a meno di 30.1
4. L’enorme danno fatto alle infrastrutture, comprese strade, impianti elettrici ed idrici che sono stati distrutti, costituisce un potenziale disastro per l’ambiente e per la salute.
5. Dozzine di fabbriche e di aziende commerciali sono state distrutte, compresi negozi, stazioni di servizio e stabilimenti di calcestruzzo preconfezionato nell’area di confine e nella zona industriale di Beit Hanoun. Le forze armate israeliane hanno distrutto con i bulldozer migliaia di dunam [1 dunam= 1.000 mq.] di terra coltivata e serre nell’area di confine con il pretesto di colpire i tunnel.2
6. In base ai rapporti preliminari, anche molte istituzioni governative sono state colpite, compresi i ministeri delle Finanze, degli Interni e degli Affari Religiosi (awgaf), così come l’Amministrazione centrale del personale, oltre a dozzine di moschee. Nel corso degli eventi, documenti ufficiali e registrazioni, difficili o impossibili da recuperare, sono andati distrutti.3
Un bilancio completo sicuramente metterà in luce una dimensione ancora maggiore delle distruzioni. Gli sforzi di superare le conseguenze di questa guerra dovranno far fronte a parecchi ostacoli insormontabili.

Evitare gli errori del passato
La natura, le dimensioni e l’efficacia degli sforzi per la ricostruzione si baseranno sulle clausole di un accordo di tregua. Questo potrà spaziare da uno stop unilaterale di Israele alle sue operazioni militari, come ha fatto nel 2008-09, fino ad un rinnovo dell’accordo di cessate il fuoco concluso nel novembre 2012, che stabilì di alleggerire il blocco, di eliminare la zona cuscinetto lungo i confini tra Gaza e Israele e di estendere la zona di pesca da tre a sei miglia, con l’accordo di entrambe le parti per porre fine alle ostilità. Il governo israeliano ha applicato in parte queste condizioni per un tempo limitato. Il terzo e più positivo scenario è naturalmente la fine della guerra, il riconoscimento da parte di Israele del governo di unità [palestinese] e l’abolizione totale del blocco in preparazione di negoziati per una pace giusta e complessiva.
Molte domande sono sorte durante gli sforzi internazionali per la ricostruzione dopo un conflitto, nel momento in cui passano da un intervento [di ricostruzione] immediato a uno sviluppo complessivo e sostenibile. Per esempio, gli sforzi dovrebbero concentrarsi sulla ricostruzione e sulla ristrutturazione [degli edifici esistenti] o sulla costruzione [di edifici nuovi] e sullo sviluppo? Nel secondo dopoguerra, per esempio, in Giappone la questione era:” Ci dobbiamo concentrare nella ristrutturazione di quello che la guerra ha distrutto o nel costruire tutto dalle fondamenta? L’approccio corretto risiede nella combinazione efficace delle due alternative. Ma, al di la dell’esperienza internazionale, ci sono insegnamenti specifici da imparare dai precedenti interventi a Gaza, specialmente in quanto non hanno avuto successo nel rimettere in piedi Gaza, per usare un eufemismo.
Il più grave errore che i donatori hanno fatto nel passato è stato di escludere i rappresentanti di Gaza, incluso Hamas stesso, negli sforzi di ricostruzione. Questo è successo durante la conferenza dei donatori di Sharm al-Sheikh nel marzo 2009 per ricostruire Gaza dopo l’attacco israeliano del 2008-09.
Erano presenti i rappresentanti di 70 Stati e 16 organizzazioni regionali, ma le istituzioni di Gaza, compresi i dirigenti di Hamas, erano assenti. Inoltre, il fatto che il piano fosse presentato solo in inglese (la versione in arabo fu disponibile solo mesi dopo) sottolineò la scarsa importanza che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) attribuiva alla partecipazione della società civile nazionale, di istituzioni accademiche e non.
In quella conferenza l’ex primo ministro Salam Fayyad presentò un piano di 2.8 miliardi di dollari, ma più di metà di questo (il 52%) era destinato a finanziare il bilancio dell’ANP e a ridurne il deficit. Nei fatti, vennero assunti impegni per 4.48 miliardi di dollari- il 167% in più rispetto alle richieste dell’ANP-, un fatto raro nella storia delle donazioni. Ma l’attuale terribile situazione di Gaza, dove le infrastrutture e le persone soffrono ancora per i danni inflitti in quella guerra, solleva domande riguardo a se tali aiuti sono stati effettivamente ricevuti e se così [fosse], come e dove sono stati sborsati.
Infatti fino ad ora non esistono dati esaurienti che forniscano questa informazione. Coloro che sono sinceramente impegnati alla reale e duratura ricostruzione di Gaza, nell’attuale congiuntura dovrebbero porre queste domande, per evitare che la storia si ripeta.
Anche se Hamas non sarà presente alla conferenza dei donatori prevista per settembre in Norvegia – e non si prevede che verrà invitato, in base a fonti attendibili – ci sono altre istituzioni e voci da Gaza che potrebbero partecipare. Ciononostante, probabilmente Hamas sarà molto desideroso di fornire tutte le informazioni di cui l’ANP ha bisogno per fare la supervisione del processo di ricostruzione perché è interesse di Hamas farlo. Allo stesso tempo, Hamas vuole essere tenuto al corrente e coinvolto, anche se presumibilmente in secondo piano, in modo da garantire che la ricostruzione sia fatta correttamente. Ovviamente è anche desideroso di mostrare alla popolazione di Gaza che è partecipe del processo e di continuare a recuperare la propria popolarità.

Aiuti urgenti e necessità di sviluppo
In termini di aiuti urgenti alla popolazione, le necessità più impellenti sono le seguenti:

1. Riparare le reti idriche ed elettriche per garantire che i residenti di Gaza, soprattutto quelli più colpiti, abbiamo accesso a acqua sicura per prevenire gravi ripercussioni sulla salute pubblica
dovuti alla carenza di acqua potabile.

2. Riparare le linee elettriche che portano l’elettricità da Israele e cercare di aumentare l’importazione di corrente di 120 MW per ridurre la carenza a causa della chiusura dell’impianto locale di energia e per venire incontro ai bisogni attesi.

3. Importare e produrre in loco ripari prefabbricati che offrano un minimo di servizi di base per sistemare le migliaia di famiglie che hanno perso la casa durante la guerra e per riattivare l’economia. Questo sforzo dovrebbe includere sussidi economici per alcune di quelle famiglie perché affittino appartamenti nella Striscia di Gaza per alleggerire la pressione sociale e politica che si potrebbe accumulare se rimanessero senza un rifugio adeguato.

4. Aiutare il sistema sanitario a curare le migliaia di persone ferite durante la guerra. A causa delle molte strutture sanitarie parzialmente o totalmente distrutte, si avrà bisogno di ospedali da campo e di assistenza dall’estero. Dovrà essere prestata una speciale attenzione alle persone con disabilità e agli orfani che hanno perso le loro famiglie nella guerra.

5. Aumentare e sviluppare servizi di appoggio psicosociale per curare le decine di migliaia di cittadini, soprattutto bambini, che sono stati sottoposti a traumi psicosociali per aver perso le loro famiglie o per effetto della guerra stessa.

A medio termine, gli aiuti per lo sviluppo dovrebbero concentrarsi su:

1.Progetti ad alta intensità di lavoro negli ambiti abitativo, infrastrutturale, agricolo e peschiero per creare da subito lavoro e attività di sviluppo economico.

2. Coltivare le terre agricole nelle zone di confine per garantire che il settore agricolo contribuisca non solo alla creazione di lavoro ma anche all’approvvigionamento alimentare per la popolazione e fieno per il bestiame.

3. Ripulire alcune delle zone distrutte per permettere alle famiglie di tornare alle loro case, se abitabili, e per prevenire rischi per la salute nelle aree distrutte nei primi giorni della guerra.

4. Spazzare via e rimuovere i detriti dalle strade e dai luoghi pubblici per creare lavoro, incentivare le attività economiche e lottare contro la povertà e la miseria che molte famiglie hanno sofferto a causa della guerra e dell’attuale assedio.

Modi per far rivivere Gaza
Per ottenere quanto detto sopra, la comunità internazionale deve esercitare pressioni su Israele per mettere fine all’assedio e permettere l’entrata di materie prime a Gaza. Altrimenti Gaza nei prossimi anni sarà obbligata a vivere di aiuti.
Inoltre, come detto sopra, non si devono fare gli stessi errori. L’ANP così come i donatori internazionali e regionali dovrebbero consultarsi costantemente e regolarmente con i dirigenti di Hamas, le organizzazioni non governative, le associazioni di imprenditori e le università di Gaza per verificare i danni, progettare interventi e realizzarli. L’enfasi dovrebbe essere posta sul coinvolgimento ove possibile di imprese e istituzioni locali per ampliarlo il più possibile con lo scopo di garantire che la ricostruzione sia un processo nazionale piuttosto che internazionale e che la società palestinese riceva la maggior parte dei finanziamenti previsti.
C’è una necessità di coordinamento tra gli aiuti locali, regionali ed internazionali e le campagne per la raccolta fondi a favore di Gaza. Inoltre il lavoro sul terreno deve essere organizzato correttamente per evitare sovrapposizioni. Deve essere messo in atto un meccanismo trasparente di monitoraggio e accompagnamento di queste donazioni e [si devono] orientare i beneficiari perché vi abbiano accesso. Le iniziative dell’ente scelto per gestire questi fondi e le regole che dovrà applicare devono essere di dominio pubblico.
I palestinesi della diaspora potrebbero anche dimostrare di essere utili, contribuendo soprattutto con denaro e competenze, ma devono essere interpellati e coinvolti nel processo fin da subito. Il loro contributo e coinvolgimento non servirà solo a consolidare la riconciliazione tra Fatah e Hamas, ma anche ad aiutare a dare un senso e un obiettivo a coloro che, nella diaspora, sono pronti a offrire il proprio aiuto. Essi possono anche servire a creare vincoli più forti tra loro e le comunità ed istituzioni di Gaza.
E’ altrettanto importante discutere il modo di utilizzare i depositi accumulati nel settore bancario, ad esempio tutti quelli delle banche che operano nei Territori occupati palestinesi, i cui fondi hanno raggiunto gli 8 miliardi di dollari. Una possibilità è che l’ANP prenda prestiti da queste banche e li usi per contrarre e pagare mutui per fornire appartamenti a favore di famiglie che hanno perso la propria casa durante la guerra. Vale la pena di notare che, ad esempio, qualche migliaio di appartamenti, soprattutto a Gaza City, ma anche in altre parti di Gaza, rimangono vuoti perché non sono a prezzi accessibili. Un sistema di mutui può essere istituito per utilizzare questi depositi e risolvere la crisi abitativa. Su larga scala, strumenti di investimento riconosciuti a livello internazionale come il franchising, collaborazioni strategiche e jont ventures possono essere utilizzati, soprattutto nel campo dell’energia e dell’elettricità, nella costruzione di un porto e di un aeroporto e in progetti di sviluppo regionale.
Queste sono solo alcune delle modalità per aiutare a ripristinare una vita normale e la dignità per i palestinesi di Gaza. Nel 2012, l’ONU stimava che Gaza sarebbe diventata invivibile nel 2020 se fosse continuato l’attuale andamento; questo prima dell’ultimo attacco israeliano. Se il milione ottocentomila palestinesi di Gaza non saranno condannati ad un luogo invivibile, la corretta ricostruzione deve iniziare al più presto.


Omar Shaban è il fondatore e direttore dell PalThink di Studi Strategici di Gaza, un gruppo di studio indipendente senza affiliazioni politiche. E’ un analista di politica economica del Medio Oriente e uno scrittore e commentatore fisso per media arabi ed internazionali. Omar è il fondatore dei gruppi palestinesi di Amnesty International, [è] vice presidente del consiglio di amministrazione di Asala, un’associazione che promuove il microcredito per le donne e un membro dell’Istituto per la Buona Amministrazione.

Al-Shabaka, il network politico palestinese, è un’organizzazione indipendente, senza affiliazione partitica e no profit, il cui scopo è di sviluppare e alimentare un pubblico dibattito sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali. Le sintesi politiche di Al-Shabaka possono essere riprodotte con la debita attribuzione ad Al-Shabaka.
visita www.al-shabaka.org o contattaci via mail: contact@al-shabaka.org..





Note

1 Intervista dell’autore al direttore dell’autorità energetica per Gaza, agosto 2014
2 Intervista dell’autore al ministro dell’Agricoltura di Gaza, agosto 2014.
3 Rapporto per la stampa stilato dal ministero dell'informazione di Gaza, agosto 2014.

domenica 21 settembre 2014

Israele sempre più razzista

I TEENAGER ISRAELIANI: RAZZISTI E ORGOGLIOSI DI ESSERLO
 
Un libro che sta per uscire scopre che l’odio etnico è diventato un elemento basilare nella vita quotidiana dei giovani israeliani Di Or Kashti1
“Per me, personalmente, gli arabi sono qualcosa che non posso guardare e sopportare,” dice in un ebraico abominevole, una  ragazza israeliana del primo anno di una scuola superiore sita nella parte centrale del paese. “Sono terribilmente razzista. Vengo da una famiglia razzista. Se nell’esercito avrò l’occasione di uccidere uno loro, non ci penserò due volte. Sono pronta a uccidere qualcuno con le mie mani, e sarà un arabo. Nel corso della mia educazione ho imparato che ….la loro educazione consiste nell’essere terroristi, e non c’è fede in loro. Vivo in una zona di arabi e ogni giorno vedo questi ismaeliti che passano dalla stazione degli autobus e fischiano, e gli auguro la morte. “
Le osservazioni  della studentessa compaiono in un capitolo dedicato all’etnicità e al razzismo tra i giovani in un libro in via di pubblicazione: “Scene di vita scolastica” (in ebraico) scritto da IdanYaron e Yoram Harpaz. Il libro si basa su osservazioni antropologiche fatte dal Dottor Yaron, un sociologo, nel corso di tre anni, in una scuola superiore         nel centro di Israele – la scuola più nella media (?) che abbiamo
saputo trovare,” dice Harpaz, un professore di pedagogia (?).
Il libro si legge tutto d’un fiato, specialmente adesso in seguito alle aperte ostentazioni di razzismo e di odio verso l’Altro che sono state rivelate nel paese più o meno nel mese scorso. Forse “rivelate” non è la parola giusta, dato che indica sorpresa per l’intensità del fenomeno. Ma le descrizioni di Yaron di quello che ha visto a scuola, dimostrano che questo odio è un elemento quotidiano basilare  tra i giovani, e una componente chiave della loro identità. Yaron ritrae l’odio senza ottimismo o senza tentare per nulla di presentarlo come un segno di “unità” sociale. Quello che ha osservato è un odio senza filtro. Una conclusione che nasce dal testo è quanto poco il sistema dell’educazione è in grado di – o vuole - affrontare il problema del razzismo.
Non tutti gli educatori sono indifferenti o inefficaci. Naturalmente ci sono insegnanti e altri nel mondo dell’educazione che adottano un approccio diverso, che osano tentare di accettare un sistema. Però sono una minoranza. La logica interna del sistema opera in modo diverso.
Gran parte del capitolo sul razzismo ruota intorno alle lezioni della Bibbia in una classe del 9° grado, e il tema è la vendetta. “La lezione inizia e  gli esempi di vendetta presentati dagli studenti vengono scritti sulla lavagna,” l’insegnante ha detto a Yaron. Uno studente che si chiama Yoav “insiste che la vendetta è un’emozione importante. Utilizza il materiale che si sta studiando per insistere sul suo messaggio semi-nascosto: tutti gli arabi dovrebbero essere uccisi. La classe inizia ad agitarsi.      Cinque studenti sono d’accordo con Yoav e dicono apertamente: “Gli arabi dovrebbero essere uccisi.”
Uno studente riferisce che il giorno dello Shabbat aveva sentito dire nella sinagoga che “Aravin zeh erev rav” [“Gli arabi sono gentaglia”, facendo un gioco di parole], e anche Amalek(http://cabala.org/articoli/amalek.htm) e che c’è il comandamento di ucciderli tutti,” un riferimento al prototipo del nemico biblico dei Figli di Israele. Un altro studente dice che si vendicherebbe di chiunque abbia ucciso la sua famiglia, ma che non li ucciderebbe tutti.
“Alcuni degli altri studenti sono indignati per questa posizione più mite,” ha riferito l’insegnante. “Lo studente allora spiega che non prova alcun affetto per gli arabi e che non è una persona di sinistra.”
Un’altra studentessa, Michal, dice che è scioccata da quello che sta sentendo. Crede che il desiderio di vendetta servirà soltanto a fomentare un altri ciclo di azioni sanguinarie; aggiunge che non tutti gli arabi sono cattivi, e certamente non tutti meritano di morire. Dice: “Le persone che decretano il destino degli altri così facilmente non sono meritevoli di vita.”
Lo stesso Yoav sostiene di aver sentito Michal dire: “Peccato che  non sei stato ucciso in un attacco terrorista.”
“Tutti gli studenti cominciano a gridare,” dice l’insegnante, secondo Yaron. “Alcuni vengono insultati individualmente, altri sono furiosi e Michal si trova da sola ad assorbire tutto il “fuoco” – ‘Amante di  arabi’, ‘persona di sinistra.’ Cerco di fare calmare le acque. La classe è troppo sconvolta per passare a una storia biblica. Suona la campanella. Li lascio uscire e suggerisco che siano più tolleranti l’uno dell’altro.”
Nel corridoio, durante l’intervallo, l’insegnante nota che si è riunita una folla di studenti di tutte le classi del 9° grado?. Hanno formato una catena umana e stanno deridendo Michal: “Vergogna, vergogna, vergogna, gli arabi moriranno.” L’insegnante dice : “Ho riflettuto per 5 secondi se replicare o a proseguire lungo il corridoio. Alla fine ho fatto sciogliere il raduno?? e ho insistito che Michal mi accompagnasse in sala professori. Era in uno stato di shock, vacillando per la violenza  gli insulti,  mentre all’istante  le sono  spuntate  le lacrime.”
Sei studenti sono stati sospesi per due giorni. L’insegnante riferisce la sua conversazione con Michal:” Continua a essere laconica. Dice che succede sempre così. Le opinioni sono razziste e il suo solo rammarico è di esprimere apertamente le sue idee. Voglio solo abbracciarla e dirle che mi dispiace di averle causato questo trauma. Invidio il coraggio che ha di dire ad alta voce le cose che talvolta io non sono in grado di esprimere.”
Le persone di sinistra considerati ‘persone che odiano Israele’
Nel corso della sua ricerca, Yaron ha parlato con Michal e Yoav, con altri studenti della classe e con l’homeroom teacher ?  e con il preside. La molteplicità di versioni degli avvenimenti che emergono indicano una situazione di profondo conflitto e di mancanza di fiducia tra gli educatori e gli allievi. Ogni mondo funziona separatamente, con gli insegnanti esercitano poca se non nessuna influenza sui giovani. E’ difficile credere che la sospensione o la punizione inflitte ad alcuni studenti - per esempio, preparare una ricerca per le classi del 9° grado sull’argomento del razzismo – cambierebbe le opinioni di tutti.
Lo stesso vale per la dichiarazione inequivocabile del preside che “Non ci saranno commenti di tipo razzista nella nostra scuola.” Anche il tema che hanno chiesto a Michal di scrivere sull’argomento, è stato subito dimenticato. “L’intenzione era di dare il via a un programma educativo, ma nel frattempo è stato rimandato,” ammette l’homeroom teacher.
Tuttavia, un anno dopo, in quella scuola ci si ricordava ancora dell’incidente. La stesa studentessa che aveva detto a Yaron  che non ci avrebbe pensato due volte  se avesse avuto la possibilità “di ucciderne uno di loro” quando farà il servizio militare,  ha anche detto: “Appena ho sentito del litigio con quella ragazza di sinistra [Michal], ero pronta a tirarle un mattone e ad ammazzarla. Secondo me, tutti quelli di sinistra odiano Israele e personalmente lo trovo molto doloroso. Quelle persone non hanno posto nel nostro paese –sia gli arabi che la gente di sinistra.”
Chiunque immagini che questo sia un’esplosione locale e passeggera, si sbaglia. Come è accaduto nel caso della ragazza della scuola professionale della rete ORT, che all’inizio di quest’anno ha sostenuto che la sua insegnante aveva espresso “opinioni  di sinistra” in classe, anche questa volta uno studente ha riferito che aveva insultato e gridato a un insegnante che “giustificava gli arabi.” Gli studenti dicono che i gruppi di lavoro per combattere il razzismo che sono gestiti da un’organizzazione esterna, lasciano scarsa impressione. “Il razzismo fa parte della nostra vita, indipendentemente da quante persone dicano che è una brutta cosa,” ha detto uno studente.
Nella discussione conclusiva,  proprio in uno di questi gruppi di studio, il moderatore ha domandato agli studenti come pensavano che si possa sradicare il razzismo. “Sfoltendo” gli arabi,” è stata l’immediata risposta. “Voglio che andiate via da qui sapendo che il fenomeno esiste, che facciate auto-critica, e allora forse lo eviterete,” ha detto il moderatore. A queste parole uno studente ha replicato. “Il fatto di non essere razzisti ci renderà di sinistra.”
Il moderatore, in tono disperato: “Vorrei che aveste preso almeno una piccola cosa da questo gruppo di lavoro.” Uno studente replica alla sfida: “Che ognuno dovrebbe vivere come vuole, che se pensa di essere razzista, gli si permetta di pensare quello che vuole, e questo è tutto.”
Come aggiunta al razzismo e all’odio, le identità etniche: anche i Mizrahi (ebrei di paesi Mediorientali e Nordafricani) e gli Aschenaziti prosperano. Yoav crede che ci sia una “discriminazione tra Mizrahi e Ashchenaziti. Siamo stati puniti severamente per l’incidente [con Michal], ma se la cosa fosse stata al contrario, questo non sarebbe accaduto.” In seguito Yoav ha detto a Yaron che aveva trovato offensivo il modo di dire, “Che cosa è questo, un mercato?” perché tutta la sua famiglia lavora al mercato locale di prodotti agricoli.
“Il nostro tipo di commercio è esistito da quando esiste lo stato,” ha detto. “Sono orgoglioso di mio padre che è un uomo che lavora al mercato. Che cosa cercano di dire, che mio padre non è colto? Quando la gente dice qualcosa riguardo agli ‘arabi’, è considerata una generalizzazione, ma quando dicono ‘mercato’, allora va bene. Quando la gente dice ‘mercato’ in realtà parlano dei Mizrahi. Dobbiamo cambiare i pregiudizi sui Mizrahi. La gente dice che sono razzista, ma è proprio il contrario.”
“Non c’è alcuna discussione circa l’argomento del razzismo nella scuola e probabilmente non ci sarà,” afferma il preside. “Non siamo preparati per il processo profondo, a lungo termine che è necessario. Anche se sono costantemente consapevole del problema, è lungi dal venire trattato. Si origina a casa, in primo luogo, nella comunità e nella società e per noi è difficile affrontarlo. Si deve ricordare che un altro motivo per cui è difficile occuparsi del problema, è che esso esiste anche tra gli insegnanti. Argomenti come ‘dignità umana’ o ‘umanesimo’ sono in ogni caso considerati di sinistra, e chiunque li affronti è considerato infetto.”
 
Minaccia di rumore
Il professor Yoram Harpaz è libero docente (??) al Beit Berl Teachers College e direttore della rivista Hed Hahainuch, un importante periodico che si occupa di istruzione. Ricordando la recente promessa del Ministro dell’Educazione Shay Piron che le lezioni delle prime due settimane dell’imminente anno scolastico saranno dedicate agli “aspetti emotivi e sociali degli eventi di questa estate, ”comprese manifestazioni di razzismo e di istigazione,” Harpaz osserva che le scuole nella loro attuale struttura “non sono in grado di occuparsi della personalità ed identità razzista. (o di chi è razzista? MC).
Aggiunge: “Le scuole non sono attrezzate per questo. Possono soltanto impartire conoscenze ed abilità di base, farne materia di esame e valutare gli studenti. In effetti hanno difficoltà anche soltanto per fare questo. In classi di 40 studenti, con un curriculum rigido ed esami da dover fare, è impossibile impegnarsi in un’istruzione basata sui valori.”
Yaron, libero docente di sociologia all’Ashkelon Academic College, sottolinea quanto gli insegnanti e il preside  (e il sistema educativo in generale)  pensano sia importante attenersi ai programmi (?) e alla schedule  delle lezioni – due isole di calma in una realtà carica di rischi.
“Fare questo rende possibile che gli insegnanti non entrino in una sfera dinamica che obbliga alla franchezza  ed probabile che apra anche un vaso di Pandora,” osserva. “La maggiore minaccia per l’insegnante è che ci sia rumore – che qualcuno protesti, che scoppi una discussione, ecc. Quel pericolo incombe specialmente nel caso di argomenti che interessano i giovani, come: sessualità, etnicità, violenza e razzismo. Agli insegnanti mancano gli strumenti per far fronte a questi argomenti che quindi vengono “appaltati”, e questo serve soltanto a esautorare  ancora di più il personale preposto all’educazione.”
La richiesta di calma nelle scuole non è soltanto un fatto strumentale che deriva dalla difficoltà di mantenere l’ordine nella classe, ma c’è anche un aspetto ideologico. In generale c’è un’intera serie di argomenti che si raccomanda di non discutere in classe, come, per esempio, la Nabka ( o “catastrofe”, il termine usato dai palestinesi per denotare l’istituzione dello Stato di Israele), i diritti umani, e la moralità delle operazioni dell’esercito israeliano. Questo è stato uno dei motivi degli avvertimenti diffusi dall’Università di  Tel Aviv e dall’Università Ben-Gurion del Negev durante i combattimenti nella Striscia di Gaza riguardo ai “commenti estremi e offensivi.”
Harpaz: “A Israele, la nazione più politica che ci sia, l’educazione politica non è stata sviluppata come disciplina per mezzo della quale si insegna agli studenti come pensare in maniera critica circa gli atteggiamenti politici, o il fatto che quegli atteggiamenti dipendono sempre da un particolare punto di vista e da interessi legittimi.”
Che cosa si può fare, allora? Secondo Harpaz, la soluzione non si troverà con le discussioni tra l’homeroom teacher e gli studenti. E non è sufficiente una condanna, per quanto in ritardo, del ministro dell’istruzione. E’ necessario un cambiamento più radicale.
“I valori e gli atteggiamenti si acquisiscono durante un lungo processo di identificazione con ‘altre persone significative’, come gli insegnanti,” spiega Harpaz. “Questo significa che ogni aspetto delle scuole – modelli di insegnamento, metodi di valutazione, curriculi, la struttura fisica e il clima culturale – deve cambiare per diventare di gran lunga più dialogico?? e democratico.”
E ha ancora un’altra raccomandazione: non fuggire dai dilemmi politici e morali, o da possibili critiche. “I nostri leader sono tanto timorosi delle critiche, ma non capiscono che l’educazione critica è quella che produce legami stretti e premura verso gli altri. Ci arrabbiamo con le persone che amiamo.”

giovedì 18 settembre 2014

32esimo anniversario della strage di Sabra e Shatila


SABRA E SHATILA. “Ce lo dissero le mosche”


Nel 32esimo anniversario del massacro di Sabra e Shatila, vi riproponiamo l’articolo che scrisse all’epoca il giornalista Robert Fisk, tra i primi ad arrivare nei campi profughi palestinesi dopo il massacro.



sabra-et-shatila


di Robert Fisk – settembre 1982

Roma, 17 settembre 2014, Nena News – “Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.

Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.

All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.

Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.

Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»

Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.

Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.

Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?»

Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.

In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato.

Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.

Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.

Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.

Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte.»

Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo.

Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena.

Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.

Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro.

Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.

Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato.

Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.

Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.

Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.

Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.

I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.

Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.

Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile.

Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.

Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.

C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.

Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.

Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie.

Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.

C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due.

Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.
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