giovedì 30 settembre 2010

Davanti a uno dei pochi negozi di Hebron rimasti aperti che espone il bollino del boicottaggio delle colonie

Appunti di viaggio incontro con N.Hammad e l'Unione Generale delle Donne Palestinesi

Per mezzogiorno abbiamo appuntamento con Nemer Hammad il consigliere di Abu Mazen che ci fa trovare anche un buffet, molto apprezzato specie per i dolci. La cucina palestinese, che già conoscevo per le molte cene organizzate durante le varie iniziative, mi piace molto ed essendo parecchio calorica, rischia di farmi acquistare qualche chilo specie se continuo a mangiare a quattro palmenti.
Nemer Hammad non ha bisogno di traduzione, parla in italiano perché in Italia ha vissuto per 30 anni con la carica di rappresentante dell’OLP. Fa un discorso abbastanza pragmatico - non bisogna puntare a raggiungere obiettivi impossibili, ma restare sul terreno pratico di ciò che si può fare -. Riguardo alla svolta di Oslo sostiene che ci fu un cambiamento rispetto al rifiuto di un riconoscimento reciproco. Quindi non lo considera un errore (questa è invece la mia convinzione) . Ritiene che il problema principale che ha complicato il processo di pace siano stati gli insediamenti e la politica israeliana delle “concessioni” per esempio per quanto riguarda i prigionieri. Sull’Intifada dice che è stata dannosa sia per il numero degli attentati, sia perché ha scatenato il campo estremista in Israele, cosa assolutamente vera, ma l’Intifada scoppiò appunto per il fallimento e le conseguenze degli accordi di Oslo.
Poi parla delle difficoltà rispetto a possibili negoziati. “Questo governo (israeliano) non ha accettato né la road map, né altro, Obama prima ha detto di voler fermare gli insediamenti e dopo che non sapeva quante difficoltà comportasse. In seguito la nuova formula americana è stata avvicinare le posizioni tramite un mediatore, abbiamo già avuto 16 incontri senza ottenere nessuna risposta. Abbiamo preparato un documento su tutte le questioni: acqua, frontiere, sicurezza, confini. Nessuna risposta da Israele. Gli americani hanno detto - giacchè la mediazione non è servita, tornate a negoziare direttamente con Israele - ma Netanjau dice che Gerusalemme è ebraica, se andiamo oggi a negoziare accettiamo questa posizione”.
Questo mi trova totalmente d’accordo. Poi parla dell’incontro avuto con Berlusconi e Blayr e della loro garanzia di mediazione: “Noi non ne siamo sicuri” dice e lo credo bene! Infine passa a parlare di Gaza” la situazione di Gaza ci mette in difficoltà, la divisione dà forza agli israeliani. Si sente la mancanza del ruolo internazionale. Ma non voglio usare un linguaggio di disperazione, vogliamo educare i giovani alla coesistenza e alla pace, l’importante è che il nostro popolo rimanga sulla sua terra”
Blanca chiede “come viene posto il problema del diritto al ritorno dei profughi nel processo di pace?”
Ancora una volta Nemer Hammad si dimostra pragmatico “Non possono tornare cinque milioni di profughi, è una fantasia. Secondo un punto dell’iniziativa araba si può trovare una soluzione negoziale con Israele per far tornare 50-70mila persone come riunificazione delle famiglie.”
Patrizia domanda se Fatah ha preso in considerazione l’ipotesi di un governo unico binazionale. La risposta:
“Siamo ancora per la posizione dei due stati, ma non come lo vedono gli israeliani. Lo stato palestinese deve nascere in tutta la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, ci deve essere un’area di rispetto, occorre impedire qualunque violenza sia nella società palestinese che dentro Israele. Se gli israeliani non accetteranno questa soluzione entro 10 anni allora vedremo, siamo per due stati ma non escludiamo in futuro l’ipotesi di uno stato unico”.
Dopo il pranzo, le foto di rito e i saluti torniamo alla MLR, abbiamo qualche ora libera prima delle 18 quando verranno a incontrarci due rappresentanti dell’”Unione Generale delle Donne Palestinesi”.
Parlando con le due signore scopro che una, Sawsan Saleh, è la madre di Ruba, una mia giovane amica palestinese che vive a Roma, ora ricordo anche che qualche anno fa dietro suggerimento di Ruba le avevo scritto per avere informazioni perché stavo scrivendo un libro sull’attivismo delle donne palestinesi.
L’unione delle donne palestinesi è la più vecchia associazione popolare di massa, è stata fondata ufficialmente nel 1965 un anno dopo l’OLP e ne fa parte. “Non diciamo di rappresentare tutte le donne palestinesi, o le piccole associazioni, ma siamo la parte maggioritaria”dice Rima Nazal direttrice mondiale dell’associazione che è anche una scrittrice. A livello sociale l’associazione ha l’obiettivo di aiutare le donne palestinesi a conquistare i loro diritti. A livello legale sono riuscite a bloccare qualche articolo di legge punitivo rispetto alle donne e a fare applicare la legge che punisce il delitto d’onore. “Abbiamo partecipato alla campagna di boicottaggio dei prodotti delle colonie, appoggiamo la risoluzione 13-25 a favore della partecipazione delle donne nei negoziati internazionali”.
Dopo parla Sawsan Saleh e dice “La vostra partecipazione (anche attraverso il progetto adozioni che aiuta i bambini e le famiglie a resistere) alla nostra sofferenza ci dà speranza, abbiamo ancora bisogno del vostro aiuto per fare in modo che le donne siano presenti nei luoghi importanti dove si decide la politica palestinese. Attualmente abbiamo 5 ministre, 3 provengono dal movimento popolare. Come movimento delle donne abbiamo temuto di subire la sorte delle donne algerine. (Le donne algerine parteciparono in prima linea alla lotta di liberazione, ma una volta conquistata l’indipendenza furono “rimandate a casa”.) Lavoriamo in condizioni difficili.” Ci parla poi di come è articolata l’associazione sul territorio. Sono presenti oltre che in Palestina nelle città, villaggi e campi profughi, anche all’estero in Canada, Inghilterra e USA e c’è una forte partecipazione in Siria, Libano e Egitto. Attualmente però sono concentrate sulla Cisgiordania e Gaza. A Gaza Hamas ha chiuso le loro sezioni. “Un obiettivo importante è che la nostra associazione abbia un ruolo nella lotta di liberazione nazionale, per noi è importante conservare ciò che abbiamo ottenuto in passato” Prosegue Sawsan.
L’associazione ha dato molta importanza fin dall’inizio alle relazioni internazionali, sono rappresentate nell’”Unione Donne Arabe” e nella “Federazione Democratica Mondiale delle donne”, dove un’attivista dell’associazione è vice-presidente. “Vogliamo far conoscere la situazione delle donne palestinesi a tutto il mondo - afferma Sawsan - “scambiarci esperienze con donne di altri paesi e realtà”. Resto delusa quando rispondendo a una domanda dice che non hanno nessun rapporto con le donne israeliane, nemmeno con Bat-Shalom e Jerusalem-link un’associazione di donne palestinesi e israeliane. Li hanno con israeliani individualmente non come organizzazioni.
I rapporti tra le donne palestinesi e israeliane sono diventati difficili dopo “Piombo fuso”, come era avvenuto dopo la seconda Intifada.
“Lavoriamo per il libero pensiero” dice Rima, si lamenta degli effetti negativi portati dalla religione nella società palestinese grazie ad Hamas. Delle proibizioni di questi ultimi, come l’obbligo del velo per le bambine e la divisione tra maschi e femmine negli asili nido o la proibizione per le donne di andare al mare, pur se vestite. In seguito leggerò che ha proibito alle donne anche di fumare il narghilè in pubblico, cosa che è sempre stata nella tradizione, ma pare che queste non lo abbiano preso in considerazione e continuano a fumare tranquillamente. Non bastasse l’occupazione, l’impoverimento, la chiusura, l’assedio ci mancava la religione a rendere ancora più scuro il quadro dell’oppressione.
Si parla poi del boicottaggio e qui veniamo informati che l’associazione boicotta non solo i prodotti delle colonie ma anche quelli israeliani, che le donne sono state sempre attive in questa lotta anche se ci sono difficoltà perché l’economia palestinese dipende da quella israeliana, tuttavia la campagna è appoggiata in pieno dalle masse popolari. Chiedo se il loro rapporto con le istituzioni le limita nelle decisionalità. Risponde di no, anzi questo aiuta ad arrivare più facilmente alle donne della diaspora e ad avere più risonanza, del resto l’associazione non ha una linea politica definita, ma è un compromesso tra le varie posizioni.
Alla fine dell’incontro raggiungiamo il V piano dove c’è il ristorante, un caffè insieme prima di separarci.
La sera dopo cena con Federica e altri ci fermiamo nella camera di Yousef che ha la televisione accesa perché vuole farci vedere un servizio sulla nostra delegazione. Il servizio, che è già andato in onda nel pomeriggio, però non viene ripetuto, in compenso vediamo che ci sono stati incidenti a Burin un villaggio vicino Nablus. Una ventina di coloni hanno aggredito tre contadini e li hanno mandati all’ospedale poi hanno bruciato i campi. Si vedevano le fiamme correre giù per le colline. Il giorno prima erano entrati a Nablus gettando pietre sulle macchine palestinesi, erano un centinaio protetti dall’esercito che ha poi deviato il traffico allungando il percorso. L’attacco si è ripetuto ancora nella notte.
La mattina Diab, un nostro giovane amico di Nablus che vive a Roma e che abbiamo ritrovato a Ramallah, ci aveva raccontato che mentre era in macchina con dei parenti i soldati, mitra alla mano, li avevano fermati e fatti scendere con maniere tuttaltro che gentili. Sua cugina aveva previsto che sarebbe successo qualcosa quando ha notato che la città si svuotava di poliziotti palestinesi, era un segnale che stavano entrando i soldati israeliani.
Dalla terrazza della mia camera stanotte guardo Ramallah illuminata. A destra un campo profughi, è inserito nel tessuto urbano e non si nota subito, arrivano le voci dei bambini che giocano, si capisce dalle case più basse e povere dalle strade più strette e chiuse e da una bandiera palestinese dipinta su un muro. I campi profughi sono pieni di murales, ora lo è anche il muro, enorme e triste tavolozza dove si sono esercitati non solo i palestinesi, ma gente di tutto il mondo, compresi diversi artisti. A Kalandia sul muro c’è il ritratto di Marwan Barghuti sotto la scritta che chiede la sua liberazione, il deputato palestinese di Fatah letteralmente rapito dalla sua casa nel 2002 e a cui Israele ha dato cinque ergastoli. A sinistra sulla collina si vedono le luci dell’insediamento.
In Israele un rabbino dice che bisognerebbe uccidere tutti i non-ebrei, cioè palestinesi e questo pomeriggio un enorme aquilone nero su cui era disegnato un maghen david ha sorvolato il tetto della Mezzaluna Rossa. La normalizzazione è interrotta da continui episodi del genere. Una normalità apparente. Nablus l’altro giorno ci era parsa una città normale e tranquilla ma non è così, la normalità voluta dagli israeliani e supportata dall’ANP è quella di dover accettare come quotidianità spari e soprusi di ogni genere, che agli occhi distratti di chi passa senza farci caso sembra tranquillità. Ma qui quelli che altrove potrebbero esser fuochi d’artificio sono spari veri e malgrado tutto sembri tranquillo si sentono di continuo nella stessa Ramallah. Il consigliere di Abu Mazen dice che non c’è niente da fare, che ci sono situazioni peggiori di quelle delle famiglie di Sheik Jarrah e parla di stato palestinese come obiettivo pragmatico, ma molto di là da venire. L’immagine dell’impotenza.

mercoledì 29 settembre 2010

L'AP continua a ballare alla musica di Israele

Mentre Israele uccide a Gaza giovane manifestante pacifico, arremba la barca Irene demolisce case aumenta gli insediamenti, l'AP si dedica a reprimere il suo popolo in particolare la sinistra del Fronte Popolare

Attivisti affrontano ampia attività repressiva dell’AP nella West Bank
di Nora Barrows-Friedman
 
“Le forze dell’Autorità Palestinese sono giunte nella tarda notte e hanno cominciato a sparare all’interno del campo,” ha raccontato Shihab. “Sono entrati sparando, comportandosi come fa l’esercito israeliano. Hanno voluto terrorizzare la gente. Tutti si sono riversati sulla via principale e hanno cominciato a tirare sassi, perché la gente pensava che quelli fossero israeliani, non forze dell’Autorità Palestinese.”
   
                                                                                               
Shihab che non vuol dire il suo cognome, è un portavoce del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (PFLP), un partito politico marxista-leninista, del campo profughi di Dheisheh nella zona meridionale di Bethlehem, nella West Bank occupata. Egli ha raccontato a Electronic Intifada che nelle ultime settimane i servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese stanno conducendo una campagna di intimidazioni e di violenza all’interno di Dheisheh, con la determinazione di distruggere quella che lui chiama “l’unità e il senso di comunità all’interno del campo.”
 Secondo Shihab, il 31 agosto, le forze dell’Autorità Palestinese hanno attaccato il campo nel tentativo di trovare un membro di Hamas, alcune ore dopo un attacco armato ad un’auto, condotto da attivisti di Hamas nei pressi di una colonia a Hebron, durante il quale erano rimasti uccisi quattro coloni israeliani. Sin da allora, membri del PFLP che erano intervenuti per negoziare con le forze dell’Autorità Palestinese per convincerli a cessare il loro attacco e lasciare il campo durante i successivi scontri avvenuti all’interno del campo, erano stati convocati alle stazioni di polizia dell’Autorità Palestinese e poi arrestati e cacciati in prigione. 
Shihab ha dichiarato. “L’Autorità Palestinese vuole difendere l’occupazione. Vogliono mostrare agli israeliani che sono in grado di tenere sotto controllo il popolo palestinese.” 
Electronic Intifada ha parlato con Shihab – e con gli altri abitanti del campo profughi di Dheisheh – il giorno dopo che le forze israeliane avevano compiuto l’esecuzione extra-giudiziaria di Ayad Asad Abu Shelbaya nel campo profughi di Nour al-Shams vicino alla città della West Bank occupata di Tulkarem, avvenuta il 17 settembre. L’organizzazione palestinese per il diritti umani Al-Haq contesta l’affermazione dell’esercito israeliano secondo la quale il rappresentante dell’ala armata del partito politico di Hamas, le Brigate Izzeddin al Qassam, aveva “assalito le forze israeliane.” Secondo Al-Haq, “Il sangue versato accanto al letto di [Abu Shelbaya] e schizzato sulla parete indica che gli era stato sparato vicino al letto….[quando era stato] affrontato da almeno cinque soldati israeliani, mentre stava dormendo da solo nella sua camera da letto” (“Assassinio mirato di un affiliato di Hamas a Tulkarem, 19 settembre 2010). 
Al-Haq riferisce che prima che venisse assassinato dai soldati israeliani, Abu Shelbaya era già nel mirino delle forze dell’Autorità Palestinese. “Conosciuto come affiliato ad Hamas, [Abu Shelbaya] era stato arrestato dall’esercito israeliano nel 2004 ed era stato tenuto in detenzione amministrativa per due anni e mezzo prima di essere accusato di essere membro di Hamas ed essere imprigionato per ulteriori sei mesi,” ha dichiarato Al-Haq. 
“Dopo il suo rilascio dalla prigione israeliana nel 2007, [Abu Shelbaya] era stato arrestato diverse volte e portato dentro essere interrogato dal Servizio Generale di Intelligence Palestinese (GI) e dalle agenzie di Sicurezza Preventiva (PS). La sua ultima convocazione da parte della Sicurezza Preventiva è avvenuta il 5 settembre 2010,” ha aggiunto Al-Haq. 
L’uccisione di Abu Shelbaya è stata condannata dal portavoce di Hamas a Gaza, Salah al-Bardawil, che ha detto essere l’assassinio un tentativo di “coprire i crimini” della ripresa dei negoziati tra Israele e l’Autorità Palestinese, con la mediazione degli Stati Uniti. Egli ha aggiunto essere l’assassinio “un piano per distogliere l’attenzione dalle concessioni che stavano facendo i negoziatori dell’Autorità Palestinese” (“Hamas: l’assassinio copre ‘i crimini dei colloqui di pace’, 17 settembre 2010). 
Inoltre, Abdul Rahman Zeidan, un rappresentante di Hamas che fa parte del Consiglio Legislativo Palestinese, era stato arrestato ieri, prima dell’alba, dopo che circa un centinaio di persone del Servizio di Sicurezza aveva circondato la sua casa. L’irruzione e l’arresto erano avvenute a seguito della sua dichiarazione pubblica di condanna dell’assassinio di Abu Shelbaya (“PCHR condanna l’assalto alla casa di un membro del PLC….”, Centro Palestinese per i Diritti Umani , 21 settembre 2010).
                                                                                             
Con i colloqui di pace, viene la repressione. 
La ripresa dei colloqui diretti, mediata dagli Stati Uniti, è ricominciata lo stesso giorno dell’attacco ai coloni vicino a Hebron, cui ha fatto seguito un’operazione similare il 1 settembre nei pressi della città di Ramallah, nella West Bank. Gli sviluppi delle operazioni politiche ed armate sono state accompagnate da un incremento delle campagne di arresti dell’Autorità Palestinese che, secondo Al-Haq, sono contraddistinte dall’essere “alimentate da opportunismo politico più che da problemi di sicurezza vera e propria” (“Servizi di Sicurezza Palestinesi stanno conducendo una campagna di arresti a sfondo politico,” 2 settembre 2010). 
In agosto, i partiti politici dissenzienti all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) hanno sottoscritto una dichiarazione con la quale si opponevano esplicitamente al Comitato Esecutivo dell’OLP e alla decisione unilaterale dell’Autorità Palestinese di approvare i colloqui diretti. In seguito a ciò, membri appartenenti ai ranghi di questi partiti politici dell’opposizione sono stati arrestati, incarcerati e soggetti a violente aggressioni da parte delle forze dell’Autorità Palestinese. 
Il 15 settembre, il Centro Palestinese per i Diritti Umani (PCHR) ha emesso una dichiarazione di richiamo per le manovre dell’Autorità Palestinese, affermando che gli arresti – e probabili maltrattamenti all’interno delle prigioni dell’Autorità Palestinese – costituiscono una violazione delle proprie leggi contro gli arresti politici (“Continuano gli arresti politici nella West Bank,” 15 settembre 2010). 
“Secondo le indagini svolte dal PCHR, alla vigilia e durante i giorni dell’ Eid al-Fitr [la festa che segna la fine del mese di Ramadan], servizi di sicurezza palestinesi, in particolar modo il Servizio di Sicurezza Preventiva (PSS) e il Servizio Generale di Intelligence (GIS), sostenuti dal Servizio di Sicurezza Nazionale, hanno ripreso le campagne di arresti aventi come obiettivo attivisti e membri di Hamas a Hebron,” ha dichiarato il PCHR. “Durante gli ultimi tre giorni, il PCHR è riuscito a esaminare e a documentare le incarcerazioni di circa sessanta civili fatte dal PSS e dal GIS. La nuova campagna di arresti ha avuto come obiettivo commercianti, studenti, professori universitari, impiegati, muezzin, professionisti di diversi campi, insegnanti e attivisti di organizzazioni caritatevoli.” 
L’agenzia di stampa palestinese Ma’an ha riferito che da 1 settembre sono stati arrestati ed incarcerati dall’Autorità Palestinese fino a 750 membri di Hamas, comprese una ventina di persone poste sotto custodia nelle prime ore di lunedì mattina, 20 settembre (Hamas: PA incarcera 20 affiliati,” 20 settembre 2010).
 
PFLP UN OBIETTIVO SPECIALE

Tuttavia, già nel campo di Dheisheh, Shihab ha affermato che il PFLP è stato l’obiettivo principale degli attacchi politici, lontano dai riflettori dei media costituito dalle irruzioni nei confronti di Hamas. 
Il PFLP all’interno del campo profughi di Dheisheh è stato storicamente una forza politica centrale. Prima e durante la prima Intifada palestinese alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, il partito politico era popolare presso la generazione dei giovani del campo che mostravano interesse per la sua visione rivoluzionaria riguardo la Palestina e il suo sostegno alla lotta armata. Il PFLP rappresentava la principale voce di dissenso durante l’iniziativa del defunto Presidente dell’OLP Yasser Arafat per una soluzione a due-stati, a metà degli anni ’70, e ancora durante gli accordi di Oslo nel 1993, ai quali il partito si oppose strenuamente. 
Anche se la sua popolarità nella vecchia generazione è diminuita negli ultimi dieci anni, molti giovani all’interno del campo sono nuovamente attratti dalla piattaforma antimperialista del partito, abbracciando i suoi principi di progresso e di laicità. 
Fuori dal campo, i precedenti e gli attuali leader del PFLP sono stati attaccati di recente. Nel 2001, all’inizio della seconda Intifada palestinese, le forze israeliane avevano assassinato Abu Ali Mustafa, co-fondatore del PFLP e comandante militare nei territori della West Bank occupata. Poco dopo, il Segretario Generale del PFLP, Ahnad Sa’adat, era stato incarcerato per quattro anni dall’Autorità Palestinese, prima di diventarne il successore dopo che Mustafa era stato assassinato,. Nel 2006, mentre era ancora in un carcere dell’Autorità Palestinese, Sa’adat era stato rapito da forze israeliane che avevano preso d’assalto la prigione, ed egli è tuttora in un carcere militare israeliano. 
Attivisti di base del PFLP e coloro che risultano sospetti di affiliazione al partito sono stati soggetti ad arresto e a incarcerazione ad opera di Israele, e di recente, dell’Autorità Palestinese. Le autorità israeliane hanno impedito all’attuale candidato sindaco di Ramallah e membro del Consiglio Legislativo Palestinese per il PFLP, Khalida Jarrar, di uscire dalla West Bank occupata per essere sottoposta a trattamenti medici urgenti (“Funzionario UE: Israele nega a legislatore l’accesso all’ospedale,” Ma’an, 20 settembre 2010). 
Secondo Shihab a Dheisheh, “Dopo l’irruzione dell’AP nel campo [il 31 agosto], nostri membri hanno cominciato a ricevere dalla polizia dell’AP avvisi di comparizione perché si presentino alla locale stazione di polizia. Ventisei persone hanno ricevuto le citazioni, ma solo 13 si sono recate alla stazione di polizia. All’istante, tutte e 13 le persone sono state arrestate e cacciate in prigione per 15 giorni. L’Autorità Palestinese ha dichiarato che dopo che saranno trascorsi i 15 giorni, ha l’intenzione di tradurli davanti a un tribunale militare speciale palestinese – la qual cosa dimostra che ciò è connesso con la politica, e non ha nulla a che fare con l’aver tirato sassi alle forze dell’AP.” 
Shihab ha aggiunto che dozzine e più di membri del PFLP sono stati convocati alla locale stazione di polizia, ma i dirigenti del partito hanno detto ai loro affiliati di “distruggere le citazioni” e di non presentarsi alla stazione di polizia, per evitare in tal modo la loro incarcerazione. La maggior parte dei convocati hanno tra i 20 e i 35 anni, ha assicurato Shihab, e nessuno ha avuto la possibilità fino ad ora di fare visita ai detenuti. 
Sin da quando sono ripresi i negoziati diretti all’inizio di questo mese, le forze dell’Autorità palestinese hanno pattugliato l’interno del campo, coprendo di vernice le frasi scritte contro i colloqui e qualsiasi cosa fosse firmata da Hamas. Un giovane abitante di Dheisheh ha raccontato a Electronic Intifada che non appena gli slogan venivano coperti di vernice, durante la notte, giovani appartenenti ad Hamas o al PFLP rifacevano sulla parete le scritte con lo spray. 
Ata Mena, fondatore all’interno di Dheisheh della stazione radio al-Wahada (“Unità”) Voice, ha raccontato che la storica opposizione del PFLP ai negoziati con il governo occupante israeliano, unita alla repressione in corso delle forze dell’AP dentro il campo, ha acuito la rabbia crescente e la sfiducia nei confronti dell’Autorità Palestinese.
“L’AP pensa che se può controllare alcuni gruppi all’interno del campo, allora è in grado di controllare l’intero campo,” è stata l’espressione di Mena. 
“Dheisheh era qui prima dell’Autorità Palestinese,” ha aggiunto Mena. “La gente di tutte le fazioni politiche – Fatah, Hamas, PFLP, DFLP [il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina], indipendenti – tutt’insieme hanno lanciato sassi alle forze dell’AP. Esse non sono in grado di rompere l’unità che c’è all’interno del campo…L’AP non ha alcun interesse a farsi rappresentante dei profughi qui, ma, comunque, la gente sta riorganizzando la propria resistenza.” 
Tuttavia, Shihab ha aggiunto che gli attivisti sono stati costretti alla clandestinità, a ricordo del tempo durante la prima intifada in cui la repressione israeliana dei movimenti di resistenza era giunta al suo culmine. 
“Questo non è solo un attacco contro Dheisheh; questo sta avvenendo dappertutto nella West Bank,” ha detto. “L’AP sta cercando di aggredire le comunità più forti – la gente dei campi profughi. L’esercito israeliano ha cercato di assalire i campi profughi proprio per questo motivo. Nelle invasioni del 2002 qui a Bethlehem, le loro prime operazioni si svolsero contro i campi profughi, in quanto i campi profughi rappresentavano la prima linea di difesa contro gli attacchi israeliani.” 
Unità sotto attacco. 
“Oggi l’AP sta usando la stessa strategia,” ha affermato Shihab. “Se riesci a distruggere l’unità all’interno dei campi, sei in grado di controllare un ampio strato della popolazione. I campi profughi sono molto importanti per la comunità palestinese e per la cultura palestinese. Una delle cose più importanti nei negoziati stessi consiste nel distruggere l’unità del popolo in generale – l’AP e Israele non possono avere un’opposizione compatta. In tal modo, se si distrugge l’unità all’interno dei campi profughi – quando è divisa – la gente accetterà questi accordi. Questo è ciò che stanno cercando di fare al momento.” 
“Questo è lo stato attuale della politica interna palestinese,” ha rimarcato Shihab. “Rappresenta la politica sotto [il Ten.Gen. statunitense Kheith] Dayton. Dayton è venuto e ha elaborato le nuove strategie per l’Autorità Palestinese. Gli interessi americani ed europei hanno sostenuto ciò che sta avvenendo nell’AP. Prima di Dayton, la situazione era completamente diversa, e ora c’è un clima di paura e di intimidazione. La gente ha paura di esprimersi contro le iniziative dell’AP.” 
Sotto l’egida del Gruppo di Coordinamento per la Sicurezza degli Stati Uniti, Dayton ha addestrato ed equipaggiato le forze di sicurezza dell’AP secondo un programma di contro- insurrezione fin da quando ebbe inizio il suo contratto nel dicembre 2005 – prima che il partito di Hamas eletto prendesse il potere a Gaza. “L’esercito di Dayton,” com’è conosciuto tra i palestinesi, è stato integrato specificatamente nel quadro degli Stati Uniti e di Israele allo scopo di “prevenire una presa di potere di Hamas nella West Bank” (“Una ricetta per la guerra civile”, Al-Jazeera English, 8 febbraio 2010). 
Shihab ha sostenuto che l’attuale responsabilità del PFLP sta nel proteggere tutti coloro che fanno parte della comunità del campo profughi di Dheisheh. “Noi operiamo nel rispetto della cultura dei profughi, e ci sosteniamo l’un l’altro indipendentemente dal credo politico o dall’appartenenza,” ha dichiarato. “Dov’era la Sicurezza dell’AP di cui parlano, quando è stato assassinato a Tulkarem [il leader delle Brigate di Izzeddin al-Qassam] Iyad Asad Abu Shelbaya ad opera delle forze israeliane? Nella nostra comunità tutti sono consapevoli che la loro versione della sicurezza equivale alla sicurezza dell’occupazione, non alla sicurezza dei palestinesi. Dov’è la sicurezza per difenderci?” 
Ha aggiunto,”dove stava l’AP un mese fa, quando l’esercito israeliano entrò nel campo per distruggere delle case? Dove stanno ogni notte quando [l’esercito israeliano] viene per arrestare delle persone?” Prendendo un sorso di caffè, Shihab ha dichiarato,”Non riusciranno mai a distruggere l’unità all’interno del campo. Noi resteremo uniti.” 
Nora Barrows-Friedman è una giornalista indipendente pluri-premiata che scrive per The Electronic Intifada, Inter Press Service, Truthout e altri siti. Regolarmente invia articoli dalla Palestina, dove gestisce anche laboratori multi-mediali per giovani nel campo profughi di Dheisheh, nella West Bank occupata 
(tradotto da mariano mingarelli)
 

campo profughi di Dheisheh scritta contro l'AP

Nave ebraica: attivisti massacrati di botte, arrestati e deportati. Gli israeliani si sono accaniti particolarmente su Yonatan Shapira

NAVE EBRAICA AD ASHDOD, AL VIA DEPORTAZIONI
I passeggeri della "Irene" sono stati ammanettati dopo arrembaggio. I pacifisti israeliani sono in carcere a Ashdod, quelli stranieri a Holon e verranno deportati al piu' presto. Guarda video abbordaggio diffuso da sito Haaretz

Gaza, 28 settembre 2010, Nena News – Si e’ concluso come molti aveva previsto il tentativo della nave ebraica “Irene” di raggiungere Gaza city e di portare aiuti e solidarieta’ politica alla popolazione palestinese sotto un duro embargo israeliano. L’imbarcazione, piccola e a vela, e’ stata abbordata dalla Marina militare israeliana e portata al porto di Ashdod. In precedenza una unita’ da guerra aveva intimato alla nave pacifista di cambiare rotta ma passeggeri ed equipaggio hanno deciso di continuare il loro tragitto.

Un portavoce militare israeliano ha detto che l’abbordaggio dell’Irene e’ avvenuto in modo pacifico e che non si sono registrati problemi a bordo e atti di resistenza attiva da parte dei passeggeri, in tutto dieci. La portavoce della spedizione pacifista contro il blocco di Gaza, Miri Weingarten, tuttavia non ha potuto confermare la versione delle forze armate israeliane. “Non abbiamo piu’ avuto notizie da coloro che sono a bordo dell’Irene – ha detto Weingarten a Nena News – i telefoni cellulari e satellitari sono stati sequestrati e spenti. Sappiamo solo che i soldati hanno ammanettato tutti i passeggeri e i membri dell’equipaggi. Non abbiamo altre informazioni”.

Questo pomeriggio la professoressa Nurit Peled Elhanan, nota pacifista israeliana e moglie di uno dei passeggeri, Rami Elhanan (la coppia ha perduto una figlia nel 1997 in un attentato suicida palestinese) ha riferito a Nena News che i passeggeri con cittadinanza israeliana sono detenuti nel carcere di Ashdod e dovrebbero essere liberati entro questa sera. Gli altri con cittadinanza straniera, portati in una prigione a Holon, verranno deportati al piu’ presto. Verranno imbarcati su aeroplani diretti verso i paesi di provenienza.

Richard Kuper dei “Jews for Justice for Palestinians”, uno dei promotori della nave ebraica, ha dichiarato che l’azione israeliana dimostra “che il governo Netanyahu non vuole la pace. La sorte subita da questa barca simboleggia il destino delle speranze di pace in questa regione”. Kuper ha chiesto il sostegno della comunita’ internazionale in favore della nave “Irene” e del messaggio di protesta di cui è portatrice.

Lo scorso 31 maggio sei navi della Freedom Flotilla dirette a Gaza vennero bloccate in acque internazionali dalla Marina militare israeliana. In quell’occasione commando israeliani uccisero nove passeggeri della nave turca «Mavi Marmara» scatenando una grave crisi internazionale e una bufera nelle relazioni tra Tel Aviv e Ankara. Dopo qualche giorno venne fermata, stavolta senza uso della forza, la nave “Rachel Corrie” ugualmente diretta a Gaza.

L’”Irene” partita domenica dal porto nordcipriota di Famagosta, era stata circondata questa mattina da unita’ da guerra israeliane a circa 30 km dalla Striscia di Gaza. Ad attenderla a Gaza city c’era l’Ong palestinese «Gaza Community Mental Health Programme», diretta dal dottor Eyad Sarraj. Tra i passeggeri, una decina in tutto, vi sono anche un sopravvissuto all’Olocausto, Reuven Moshkovitz, di 82 anni, e Carole Angier stimata biografa di Primo Levi. A «guidare» il gruppo pacifista ebraico è statoYonatan Shapira, un ex pilota di elicotteri dell’aviazione israeliana nonché uno dei refusenik più noti. Prima della partenza i partecipanti hanno spiegato che uno degli obiettivi della missione pacifista e’ quello di dimostrare che non tutti gli ebrei e gli israeliani condividono le politiche dei governi israeliani contro i palestinesi.(red) Nena News

martedì 28 settembre 2010

Abbordata Irene la nave ebraica

LA NAVE EBRAICA ABBORDATA E PORTATA AD ASHDOD
Per Israele tutto si e' svolto "pacificamente" ma la portavoce della nave ebraica ha riferito che tutti i passeggeri sono stati ammanettati e di loro non sono note le condizioni. Guarda video abbordaggio diffuso da sito Haaretz

Gaza, 28 settembre 2010, Nena News – Si e’ conclusa come molti aveva previsto il tentativo della nave ebraica “Irene” di raggiungere Gaza city e di portare aiuti e solidarieta’ politica alla popolazione palestinese sotto un duro embargo israeliano. L’imbarcazione, piccola e a vela, e’ stata abbordata dalla Marina militare israeliana e portata al porto di Ashdod. In precedenza una unita’ da guerra aveva intimato alla nave pacifista di cambiare rotta ma passeggeri ed equipaggio hanno deciso di continuare il loro tragitto.

Un portavoce militare israeliano ha detto che l’abbordaggio dell’Irene e’ avvenuto in modo pacifico e che non si sono registrati problemi a bordo e atti di resistenza attiva da parte dei passeggeri, in tutto dieci. La portavoce della spedizione pacifista contro il blocco di Gaza, Miri Weingarten, tuttavia non ha potuto confermare la versione delle forze armate israeliane. “Non abbiamo piu’ avuto notizie da coloro che sono a bordo dell’Irene – ha detto Weingarten a Nena News – i telefoni cellulari e satellitari sono stati sequestrati e spenti. Sappiamo solo che i soldati hanno ammanettato tutti i passeggeri e i membri dell’equipaggi. Non abbiamo altre informazioni”.

Richard Kuper dei “Jews for Justice for Palestinians” promotori della nave ebraica ha dichiarato da Londra che l’azione israeliana dimostra “che il governo Netanyahu non vuole parlare di pace. La sorte subita da questa barca simboleggia il destino delle speranze di pace in questa regione” Kuper ha chiesto il sostegno della comunita’ internazionale in favore della nave “Irene” e del messaggio di protesta di cui è portatrice.

Lo scorso 31 maggio sei navi della Freedom Flotilla dirette a Gaza vennero bloccate in acque internazionali dalla Marina militare israeliana. In quell’occasione commando israeliani uccisero nove passeggeri della nave turca «Mavi Marmara» scatenando una grave crisi internazionale e una bufera nelle relazioni tra Tel Aviv e Ankara. Dopo qualche giorno venne fermata, stavolta senza uso della forza, la nave “Rachel Corrie” ugualmente diretta a Gaza.

L’”Irene” partita domenica dal porto nordcipriota di Famagosta, era stata circondata questa mattina da unita’ da guerra israeliane a circa 30 km dalla Striscia di Gaza. Ad attenderla a Gaza city c’era l’Ong palestinese «Gaza Community Mental Health Programme», diretta dal dottor Eyad Sarraj. Tra i passeggeri, una decina in tutto, vi sono Rami Elhanan, un israeliano che ha perso la figlia in un attentato suicida a Gerusalemme nel 1997 – «Quel milione e mezzo di palestinesi di Gaza sono vittime come lo sono io» aveva dichiarato domenica Elhanan ai giornalisti prima di salire a bordo – un sopravvissuto all’Olocausto, Reuven Moshkovitz, di 82 anni, e Carole Angier stimata biografa di Primo Levi. A «guidare» il gruppo pacifista ebraico è stato Yonatan Shapira, un ex pilota di elicotteri dell’aviazione israeliana nonché uno dei refusenik più noti. Prima della partenza i partecipanti hanno spiegato che uno degli obiettivi della missione pacifista e’ quello di dimostrare che non tutti gli ebrei e gli israeliani condividono le politiche dei governi israeliani contro i palestinesi.(red) Nena News

Irene la nave ebraica

lunedì 27 settembre 2010

Israele può

ISRAELE HA DIRITTO DI AVERE ATOMICHE SENZA TRATTATI E SENZA ISPETTORI

LO STABILISCE LO STESSO OIEA CHE UN GIORNO SI E L'ALTRO PURE BACCHETTA

L'IRAN PERCHE NON TUTTO E NON SEMPRE E’ CHIARO NEI SITI CHE ISPEZIONA...





UNA DECISIONE PERICOLOSA...

di Elson Concepcion Perez per Granma, 24.9.10



L'Organismo Internazionale dell'Energia Atomica (OIEA), riunito a Vienna, ha appena ceduto alle pressioni di USA e Unione Europea bocciando la proposta di risoluzione dei Paesi arabi e di altri del Terzo Mondo che mirava a imporre a Israele di aderire al Trattato di Non Proliferazione armi nucleari (TNP) ed esprimeva preoccupazione per le sue capacità nucleari.



Con 51 voti contrari, 46 a favore e 23 astensioni, il documento che era stato proposto da 18 Paesi è stato respinto dal plenario della 54ma Conferenza Generale del OIEA: senz'altro è una decisione pericolosa.



Prima del voto, gli USA avevano inviato in visita in diversi Paesi del Medio Oriente Gary Seymour, il principale consigliere su temi nucleari dell’amministrazione Obama. Il suo compito era convincere gli arabi a non presentare la proposta, cosa che evidentemente non ha ottenuto, ma comunque ha potuto contare sul voto sempre fedele dei Paesi europei.



L'argomento usato da Washington non avrebbe potuto essere meno credibile:

con tale ingiunzione a Israele, si metterebbe in pericolo il processo delle negoziazioni con i Palestinesi.



E' fin troppo evidente l'intenzione di Washington di appoggiare ancora una volta Israele, Paese con circa 400 bombe nucleari che non firma il Trattato di Non Proliferazione e non permette la visita degli ispettori dello stesso Organismo dell'ONU.



Come accettare inoltre che gli USA dicano che l'imposizione a Israele sarebbe in contraddizione con l'universale desiderio di un Medio Oriente libero da armi nucleari?



Mentre succedeva questo a Vienna, il giornale Jerusalem Post riferiva che il premier israeliano Netanyahu non ha cambiato la sua intenzione di non prorogare la moratoria alla costruzione di colonie.

Questa domenica, 26 settembre, scade la moratoria e senza proroga i coloni potranno cominciare subito la costruzione di 2.066 nuovi insediamenti sulle terre occupate e sottratte ai Palestinesi.





traduzione e sottolineature di AsiCubaUmbria asicubaumbria@libero.it

domenica 26 settembre 2010

Nuova vittima innocente della violenzsa israeliana a Gerusalemme

GERUSALEMME EST, BIMBO PALESTINESE SOFFOCATO DAI LACRIMOGENI
Aveva 14 mesi e viveva nel quartiere di Issawiyeh, alle pendici del Monte degli Ulivi, dove ieri sera sono divampati scontri tra giovani palestinesi e polizia.

Gerusalemme, 25 settembre 2010, Nena News – Aveva 14 mesi il bimbo che la scorsa notte, hanno riferito i suoi genitori, è morto soffocato dai gas lacrimogeni sparati dalla polizia israeliana durante scontri con giovani palestinesi avvenuti nel sobborgo arabo di Issawiyeh, alle pendici del Monte degli Ulivi nella zona Est di Gerusalemme. Altri scontri violenti sono avvenuti a Ras al Amud.

E’ il secondo palestinese morto in queste ultimi giorni dopo Samer Sarhan, 35 anni, padre di cinque figli, ucciso mercoledì scorso all’alba da un vigilante israeliano di guardia ai coloni ebrei insediatisi, spesso con la forza, nel quartiere palestinese di Silwan, sotto le mura antiche di Gerusalemme. Nuovi incidenti si sono avuti proprio a Silwan, con una ragazza palestinese di 14 anni, Aiya Abu Malayah, che è rimasta ferita assieme ad una donna di 40 anni. Rimane peraltro in ospedale, in condizioni molto gravi, uno dei palestinesi rimasti feriti mercoledì.

La polizia israeliana ha detto di non aver ricevuto alcuna richiesta di soccorso dalla famiglia del bimbo palestinese morto, del quale non è stata ancora rivelata l’idendità. La cosa tuttavia non è insolita poiché i palestinesi in genere chiedono soccorso medico alle proprie strutture sanitarie a Gerusalemme Est, come l’ospedale Al Makassed al Monte degli Ulivi, e non a quelle israeliane. E’ da considerare inoltre che le ambulanze israeliane non entrano in buona parte del settore arabo di Gerusalemme senza la scorta della polizia o della guardia di frontiera.(red) Nena News

Incontro con l'Unione Generale delle donne palestinesi a Ramallah

sabato 25 settembre 2010

Appunti di viaggio - Un giorno a Ramallah

26 luglio 2010 Ramallah

Oggi restiamo tutto il giorno a Ramallah, questo è confortante perché i giorni passati sono stati molto intensi e siamo un po’ provati. Solo Yousef non mostra segni di stanchezza e continua a spronare tutto il gruppo perché si sbrighi a correre da un incontro all’altro, così il ritornello di questi giorni è stato il suo “Yalla yalla” .
La mattina siamo andati a trovare un’associazione internazionale di difesa dei bambini che opera a Ramallah: “Defence for children International”, c’è anche una giovane volontaria italiana che son convinta di aver già visto a Roma. Il movimento ha 40 sedi in tutto il mondo che cooperano tra loro. Ogni sede sviluppa la sua attività secondo le esigenze del paese in cui si trova. Alcune di queste sedi lavorano con i bambini di strada, qui si concentrano sul sostegno e la difesa legale dei bambini incarcerati. “Tendiamo a elevare il livello di coscienza di chi lavora con i bambini, collaboriamo con il Ministero delle attività sociale e dell’istruzione, registriamo tutte le violazioni israeliane dei diritti dei bambini. Durante l’incursione su Gaza l’associazione ha registrato 350 casi di bambini uccisi e ciò solo durante i 22 giorni della guerra” ci dice Ayed Abu Eqtaish, coordinatore per la sezione Palestina. “Israele ha firmato tutti i trattati sui diritti dei bambini, ma non li applica per quelli palestinesi”.
Ci parla poi della terribile situazione dei bambini in carcere. Israele incarcera 700 bambini all’anno, la legge militare li considera imputabili a 12 anni e maggiorenni a 16. Vengono arrestati dopo mezzanotte, l’invasione avviene con un numero sproporzionato di soldati che circondano la casa, fanno un gran baccano e distruggono i mobili. Dopo l’arresto il ragazzino viene ammanettato e bendato, poi buttato sulla jeep per portarlo all’interrogatorio. Durante il trasporto può essere sottoposto a maltrattamenti per “prepararlo” all’interrogatorio in modo che quando arriva è già terrorizzato. Né il ragazzo né la famiglia vengono informati sui motivi dell’arresto, l’interrogatorio avviene in isolamento. Quando il bambino viene portato davanti alla corte spesso l’interprete non traduce correttamente. Forme di tortura vengono esercitate sui bambini, tra cui quella psicologica di minacce alla famiglia o di violenza sessuale, oppure il bambino viene picchiato selvaggiamente e per fargli confessare reati immaginari viene poi minacciato di maggiore violenza, in questo modo si ottengono le confessioni che lo accuseranno. Gli avvocati in genere cercano di fare accordi con il giudice per fare in modo che i minori restino in carcere il meno possibile, le assoluzioni sono escluse. Quasi tutti i casi vengono trattati dalle corti militari, le prigioni sono in territorio israeliano e quindi gli avvocati della Cisgiordania non possono accedervi. L’associazione con i suoi avvocati difende 700 bambini all’anno. Per quanto riguarda la detenzione amministrativa ci sono bambini che sono rimasti in carcere anche due anni. In altri casi dopo aver scontato la pena il ragazzo viene ancora fermato in detenzione amministrativa, con la scusa di aver fatto qualcosa durante la prigionia. Durante il fermo il bambino non può vedere la famiglia, solo dopo che è stato tradotto in prigione la famiglia può visitarlo, ma solo i parenti di primo grado e anche così non è garantito perché ci vogliono 3 mesi per ottenere il permesso e se i carcerieri lo decidono può esser sospeso per punizione. Insomma un vero sequestro di persona con maltrattamenti su minori. Tutti i trattati sulla difesa dell’infanzia qui sono carta straccia.
“All’interno della prigione poi”- prosegue Ayed - “la vita del bambino è insostenibile, rinchiuso per 21 ore al giorno, visite brevi e incerte, il cibo è scarso e di pessima qualità, vige il “sistema della cantina”. I familiari depositano soldi sul conto della “cantina” perché ci sono state malattie contratte per la cattiva qualità del cibo, chi soldi non ne ha si deve accontentare e subire le conseguenze. Prima permettevano alla MLR di far entrare dei dolci durante le feste, ora non più. L’amministrazione fornisce un materasso, il resto è a carico della famiglia. Durante la prigionia non viene impartita nessun tipo di istruzione, tranne in due prigioni dove è però pessima per qualità e durata. Le conseguenze sui bambini di questi trattamenti sono devastanti. Se trascorrono un lungo periodo in prigione possono ammalarsi per il cibo o per la negligenza sanitaria, psicologicamente le reazioni dei bambini sono varie, alcuni si isolano, tutti subiscono traumi di diversa gravità a seconda di come sono andati il processo e l’interrogatorio, o del tempo passato in carcere o derivanti dalle diverse situazioni dei bambini. In genere nessun bambino si rende conto del suo trauma, se interrogato dice che sta bene ma le famiglie la pensano diversamente.
“Le persone devono abituarsi a non avere diritti e ciò deve essere normale” conclude Ayed.

Sheik Jarrah i residenti cacciati dalla loro casa sotto la tenda raccontano la loro storia alla delegazione

venerdì 24 settembre 2010

Sheik Jarrah i residenti cacciati dalla loro casa sotto la tenda raccontano la loro storia alla delegazione

Appunti di viaggio - Sheik Jarrah

Il sole sta tramontando e salutiamo i deputati per riuscire ad andare a Sheik Jarrah prima di cena. Su 28 famiglie di questo quartiere pende il decreto di espulsione. Finora ne sono state espulse sei. Sono famiglie che si stabilirono qui dopo essere state espulse nel ‘48. Il governo giordano aveva dato loro delle tende e poi ci fu un accordo tra il governo giordano e l’UNWRA per costruite le case, che l’UNWRA costruì nel 56. La scusa degli israeliani per le espulsioni è che lì c’è la tomba di Rachele. Kifah ci parla della prima famiglia che è stata espulsa, il marito è morto d’infarto per lo stress, loro sono rimasti un po’ nella tenda, poi la zona dove c’era la casa è diventata una discarica.
Andiamo a trovare delle famiglie evacuate che vivono nella tenda. Entriamo in un giardinetto, c’è una casa che però è sigillata e davanti alla casa è stata posta una tenda dove ora vivono. Tra gruppi di bambini che giocano ci sediamo sul bordo di un muretto e loro ci raccontano la loro storia. Parla prima un uomo, dice che le famiglie sono composte da 37 persone di cui 13 bambini dai 3 ai 13 anni. “Quando ci hanno evacuato, il 2 agosto del 2009, tutta questa zona è stata dichiarata zona militare chiusa. Sono venuti armati da capo a piedi, non hanno guardato né i bambini, né in che stato erano le persone, erano le 5 del mattino. Ci hanno buttato fuori con la forza, hanno buttato fuori la nostra roba e distrutto tutto ciò che era rimasto in casa. Subito dopo i coloni israeliani hanno introdotto i loro mobili. Durante tutta l’operazione la zona era circondata dai soldati, siamo usciti tra gli strilli e i pianti dei bambini. Dopo abbiamo messo la tenda davanti a casa per restare. I coloni e la polizia hanno portato via la tenda per 17 volte e noi altrettante volte l’abbiamo rimessa. Loro pensano che la tenda è il simbolo della nostra resistenza, ma non abbiamo alternativa, questa è la nostra casa. L’anno scorso era Ramadan e stavamo nella tenda, tra poco sarà di nuovo Ramadan. La questione non riguarda solo noi, ma tutti i palestinesi di Gerusalemme.”
Ci dicono che ricevono molta solidarietà dagli attivisti israeliani che manifestano sia a Tel Aviv che con loro cercando di impedire le demolizioni e le evacuazioni, la sera spesso cenano insieme davanti alla tenda.
Il quartiere di Sheik-Jarrah è diventato un simbolo di resistenza, da mesi si svolgono manifestazioni settimanali organizzate dagli abitanti sfrattati assieme ad attivisti israeliani e internazionali nel piccolo parco del quartiere. Gli attivisti indossano magliette bianche e nere con la scritta “Liberate Sheik-Jarrah”. C‘è sempre anche una piccola band musicale che si è formata al seguito delle manifestazioni e che è presente anche nelle proteste dei villaggi contro il muro.
Dopo parla un altro uomo, è il padrone della casa sigillata che è decorata con delle bandierine israeliane. Ce la mostra, dice “Mi sono presentato tre volte al comune per chiedere il permesso di costruire una casa qui e viverci, ma ogni volta rifiutavano di ricevere la richiesta (perché non vogliono che ci sia un documento che la attesti). Ho costruito la casa senza permesso, come tutti, (i permessi per costruire non vengono mai dati ai palestinesi). Il governo giordano mi ha dato il permesso di costruire la mia casa (si riferisce all’accordo del ‘56) ma gli israeliani vogliono cacciarmi e togliermi terra e casa. Nel 2000 ho costruito questa casa e ora non posso neppure entrarci dentro. Il giudice israeliano è venuto a chiudere la casa e ha portato le chiavi con se tenendole per 10 anni. Durante questi anni ho pagato una multa per aver costruito senza permesso. Il 3 novembre del 2009 il tribunale ha emesso la sentenza e hanno dato le chiavi ai coloni. Erano più di 70 protetti dall’esercito, hanno distrutto i mobili e li hanno buttati fuori. Abbiamo fatto una denuncia e ci hanno dato ragione, ma poi una seconda sentenza ha deciso che la precedente (non dare le chiavi ai coloni) era sbagliata. Il 29 il giudice ha dato di nuovo la casa ai coloni. Abbiamo un certificato che dimostra che questa terra è nostra (dove è costruita la casa) il certificato è rafforzato da 13 documenti che si trovano in Turchia (che è il catasto palestinese) la terra è nostra, ma la casa è dei coloni. Quando abbiamo consegnato la certificazione che abbiamo preso in Turchia, ci hanno detto che avevamo presentato il documento in ritardo. Gli israeliani dicono “queste case sono nostre” ma le case sono state costruite nel ‘56 quando loro erano dall’altra parte della città. Israele sta anticipando il futuro, sta liberando dai palestinesi quella che vogliono sia la loro capitale. A Silwan ci sono 88 case a minaccia di demolizione, sono case del ‘48 e dicono che non hanno i permessi”. Poi ci parla di Ilan Pappe, “lui ha a disposizione una documentazione e può scrivere anche meglio dei palestinesi. Leggetelo. La mia famiglia era di Haifa e abbiamo avuto amici ebrei fino al Sionismo. Ogni settimana si svolge una manifestazione qui e vi partecipano degli israeliani che solidarizzano con noi, ogni settimana aumentano un po’ di più, capiscono la nostra situazione perché non sono sionisti. Lavoriamo insieme per far cessare questi comportamenti”.
Parla anche una giovane donna e anche lei racconta di come sono entrati i coloni e hanno buttato in strada le loro cose, “ma prima” dice “hanno preso la cioccolata dal frigorifero e banchettavano davanti ai bambini.”
Quando abbiamo salutato le famiglie di Sheik Jarrah si era fatto davvero tardi ed eravamo tutti stanchi, qualcuno si è arreso e ha preso l’autobus per Ramallah. I più però volevano restare e cercare un ristorante. La mia proposta di comprare un panino e passeggiare per Gerusalemme di notte è stata subito bocciata clamorosamente, c’era però il problema del ritorno. Noi progettavamo di prendere un taxi, qui costano pochissimo, ma Kifah ci ha detto che dopo le undici i taxi non circolavano più. Non si sapeva come fare e Kifah ha proposto di far venire l’autobus di linea alle 11 davanti al ristorante quando avremmo presumibilmente finito di mangiare. Sembra incredibile, ma è andata proprio così. Abbiamo trovato un ristorante di nostro gusto e ordinato. Qui sono velocissimi, non accade mai come in Italia di dover aspettare per mangiare, sicché non abbiamo tempi morti. A un certo punto della cena decidiamo di alzare i calici di vino e gridare “Palestina libera”. Dopo la nostra uscita c’è stato un attimo di perplesso silenzio, poi sono scrosciati applausi fragorosi da tutti i presenti, clienti e personale.

Olivo di 2000 anni piantato all'ingresso di Kalkylia come simbolo di resistenza

Esecuzioni sommarie

ONU: RAID SU FREEDOM FLOTILLA “BRUTALE”
Le uccisioni dei 9 civili sulla Mavi Marmara sono paragonibili alle “esecuzioni sommarie”: denunciano gli esperti ONU nel rapporto di 56 pagine che indaga sul sanguinoso assalto al convoglio umanitario.

Ramallah 23 settembre 2010 red Nena News – E’ stato presentato ieri il rapporto redatto dai tre esperti del Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite, per indagare sul sanguinoso attacco della marina militare israeliana al convoglio umanitario della Freedom Flotilla, attacco che all’alba del 31 maggio scorso ha causato la morte di 9 persone (8 di nazionalita’ turca e un turco-americano) e il ferimento di molti altri civili, sulla Mavi Marmara e sulle altre 5 imbarcazioni che componevano il convoglio. Gli esperti ONU dicono con chiarezza che l’atto compiuto da Israele rappresenta una violazione del diritto internazionale: il blocco navale applicato da Israele al territorio palestinese e’ di per se’ una chiara violazione della legalita’ internazionale, data l’emergenza umanitaria in cui Israele costringe un milione e mezzo di palestinesi della Striscia di Gaza. Quindi il raid sugli attivisti e’ stato un atto “brutale e sproporzionato”.

Mentre le prime 20 pagine del documento illustrano le implicazioni legali delle azioni commesse da Israele, con chiari riferimenti al diritto internazionale e marittimo e a quanto definito dagli Accordi di Oslo, le 36 pagine finali riportano testimonianze degli attivisti presenti sulle navi e dell’equipaggio. Con una chiara ed esplicita condanna delle uccisioni dei 9 civili della Mavi Marmara, uccisioni che gli esperti ONU definiscono paragonabili alle “esecuzioni sommarie”. L’attacco israeliano prosegue il documento, rappresenta l’uso di “un’inaccetabile livello di brutalita’” e quindi “non puo’ essere giustificato (…) ne’ con la questione della sicurezza ne’ per altre ragioni e costituisce una grave violazione della legislazione che regolamenta i diritti umani.”

Il gruppo di esperti ha anche sottolineato che l’assedio di Gaza e’ “intollerabile e inaccettabile nel 21esimo secolo”.

Il rapporto, redatto dall’ex giudice per crimini di Guerra Desmond de Silva, il giudice Karl T.Hudson-Phyllips e un’avvocato malese attiva in difesa dei diritti delle donne, Mary Shanthi Dairiam, sara’ sottoposto ufficialmente al Consiglio Diritti Umani lunedi.

Immediate le risposte ufficiali del Ministero della Difesa israeliana secondo cui, il Consiglio ONU per i Diritti Umani sarebbe un organo che utillizza “un approccio parziale, politicizzato e estremista”. Del resto Israele ha sempre premuto con forza per accantonare l’inchiesta internazionale votata a giugno dale Nazioni Unite e si e’ opposto in ogni modo a collaborare con un’indagine indipendente. Continuando a sostenere la tesi della “legittima difesa” contro “la resistenza violenta di fanatici estremisti” accompagnata da una vergognosa campagna mediatica, arrivando anche a diffondere video e fotografie con immagini truccate. E quando alla fine Israele ha accolto la commissione di inchiesta ONU, per la prima volta riunita a New York lo scorso 9 agosto, lo ha fatto solo per le pressioni dell’Unione Europea, dell’ONU e della Turchia, e perche’ si tratta di un panel tutt’altro che imparziale, formato dell’ex primo ministro della Nuova Zelanda Palmer, e l’ex presidenete colombiano Uribe (amico di Israele). Fin dall’inizio Netanyahu ha ripetuto un ‘no’ secco a far deporre i militari israeliani davanti alla commissione. (Nena News)

giovedì 23 settembre 2010

Gerusalemme: non bastano le demolizioni ora i cittadini palestinesi vengono anche assassinati dalle guardie degli usurpatori

GERUSALEMME: SILWAN, GUARDIANO ISRAELIANO SPARA E UCCIDE UN PALESTINESE
L'agente della sicurezza dei coloni afferma di aver aperto il fuoco per «legittima difesa» ma i palestinesi lo smentiscono categoricamente. Scontri violenti tra polizia e dimostranti, anche sulla Spianata delle moschee. Almeno cinque feriti, uno è in fin di vita

Gerusalemme, 22 settembre 2010, Nena News – Copertoni bruciati, lanci di sassi, strade bloccate, giovani con il volto coperto dalla kefiah. Scene di Intifada che si sono riviste questa mattina a Silwan, ai piedi della città vecchia di Gerusalemme Est, dopo l’uccisione all’alba da parte di una guardia privata israeliana di un palestinese di 35 anni, Samer Sarhan. In migliaia questo pomeriggio hanno partecipato ai suoi funerali.

L’accaduto ribadisce l’impossibilità di una convivenza tra i palestinesi e gli occupanti, i coloni israeliani, che si sono insediati in quella zona per portare portare avanti, con l’appoggio del comune, il loro progetto di «parco archeologico» in quella che considerano la biblica «Città di Re Davide», anche se ciò dovesse comportare la demolizione di decine di case palestinesi. Il guardiano israeliano sostiene di essere «caduto in una imboscata», di essersi ritrovato circondato da tre palestinesi armati di coltelli. Sentendosi «in pericolo di vita», ha aggiunto, è stato costretto ad aprire il fuoco. Ma i palestinesi lo smentiscono categoricamente, parlano di «omicidio» e lo accusano di aver sparato senza motivo perchè ha equivocato l’atteggiamento di Sarhan che procedeva nella sua direzione.

Dopo l’uccisione sono esplosi gli scontri più gravi registrati in questi ultimi anni a Gerusalemme, che poco alla volta da Silwan si sono spostati all’interno della citta’ vecchia, in particolare dell’area intorno alla Spianata delle Moschee dove reparti scelti della polizia sono entrati per fermare un gruppo di giovani che, in segno di protesta per l’uccisione di Sarhan, lanciava sassi verso il Muro del Pianto ebraico. Una jeep della polizia e’ stata data alle fiamme. Il sito del quotidiano Haaretz riferisce inoltre che un israeliano sarebbe stato accoltellato da palestinesi nei pressi del Monte degli Ulivi. Tra i feriti palestinesi uno e’ in fin di vita, secondo alcune fonti sarebbe clinicamente morto dopo essere stato colpito alla testa da un proiettile.

A Silwan già nei mesi scorsi i palestinesi avevano reagito con rabbia ad alcune sortite dei coloni. La situazione nel quartiere palestinese rimane molto tesa anche se gli scontri più violenti sono cessati. La polizia presidia Silwan con centinaia di agenti dei reparti antisommossa mentre un elicottero dall’alto sorveglia i movimenti della popolazione palestinese. (red) Nena News

martedì 21 settembre 2010

Gerusalemme, l'interno della sede della comunità africana

25 luglio 2010 Gerusalemme

25 luglio 2010
Gerusalemme
La mattina partiamo con l’autobus di linea che effettivamente ci aspetta davanti alla sede della MLR. Quando arriviamo a Kalandia l’autobus si ferma e sale a bordo un soldato armato di mitra, sembra di essere in un film della seconda guerra mondiale. Tiriamo fuori i passaporti. Dopo il controllo scendiamo e prendiamo un altro pullman con targa gialla che percorrendo la strada dei coloni ci porta direttamente a Gerusalemme. La situazione di Gerusalemme est sotto il tiro della colonizzazione selvaggia è sempre più tragica. Il quartiere di Beit Hanina è separato dal muro dal centro della città, a Silwan,4) che gli israeliani sostengono essere la città di Davide, gli scavi archeologici fanno crollare le case palestinesi, a Sheik-Jarrah stanno espropriando 28 famiglie del quartiere delle loro case.
Alla porta di Damasco abbiamo appuntamento con Abir, non quella che ci ha accompagnato e invitato a pranzo a Betlemme, che è una giovane donna sui 30-35 anni molto carina senza velo, questa Abir che ci farà da guida a Gerusalemme, è una ragazza più giovane, con l’ijab e una enorme collana di ambra che il mio occhio di orefice non manca di apprezzare. Alla porta di Damasco ci sono soldati armati di mitra. Entrando ci troviamo direttamente nel suk. Con Abir che si dimostra una guida molto efficiente percorriamo la via Dolorosa che è poi la via del mercato. Incontriamo sul cammino una chiesa copta di cui ci racconta tutto, poi percorrendo misteriose stradine ci ritroviamo nella piazza del Santo Sepolcro. Alla Natività non mi interessava entrare ma qui entro volentieri. L’interno è enorme, scendiamo e saliamo in continuazione. Abir ci spiega tutto delle molte confessioni cristiane qui rappresentate. Ci dice che secondo una tradizione di Gerusalemme cristiani e musulmani si scambiano visite nei rispettivi templi durante le feste degli uni e degli altri. Non per nulla Gerusalemme era la città della pace (e della convivenza) prima dell’occupazione. Bassam aggiunge che le chiavi del Santo Sepolcro sono tenute in custodia da due famiglie musulmane che hanno il compito di aprire i portoni, questo per avere un custode super partes onde evitare eventuali dispute tra le varie confessioni cristiane spesso litigiose. La visita del Santo Sepolcro ci tiene occupati fino all’ora di pranzo, mangiamo un panino, cioè pane arabo e falaffel in un ristorante sulla via Dolorosa che è piuttosto caro, ma intanto ci riposiamo. Quando riprendiamo un po’ di vigore proseguiamo la nostra visita diretti alla spianata delle moschee. Nel duomo della roccia non si può entrare, ma tutto quello che c’è fuori è immensamente bello. Per arrivare alla spianata bisogna passare nella piazza del muro del pianto. Mentre scendiamo le scale per accedere alla piazza una donna, che sembrava essere lì apposta, mi dice di coprirmi le spalle. Capisco che i credenti vogliano che la gente entri nei loro templi con le spalle coperte, col cappello o senza cappello, con le scarpe o senza scarpe, ma qui siamo in un luogo pubblico e stiamo andando in una piazza! E’ tutto requisito, santificato e consacrato. Tiro fuori dalla borsa un foulard e lo metto intorno alle spalle ma fa un caldo infernale e nella piazza me lo tolgo di nuovo, un’altra donna spuntata non so da dove mi fa cenno di coprirmi. Il muro occidentale non mi attrae per niente e anzi non vedo l’ora di allontanarmene. Dieci anni fa ci avrei sicuramente messo un biglietto nelle fenditure e avrei recitato una preghiera. Ora vi avverto un senso di sopraffazione, di violenza e provo un misto di repulsione e di estraneità.
Entrare sulla spianata delle moschee non è una faccenda semplice, come in tutti i posti in cui i luoghi sacri ebraici e musulmani sono contigui, l’esercito ha un controllo oppressivo e minaccioso. Chiediamo informazione proprio a loro e ci danno un’indicazione sbagliata, poiché è già successo precedentemente a qualcuno del gruppo quando ci troviamo davanti a una porta chiusa non ci fidiamo e chiediamo nuovamente informazioni, finalmente imbocchiamo la strada giusta e facciamo la fila per il controllo dei passaporti e delle borse. Per la strada opposta passano famiglie di haredim, il padre con un vestito nero il figlio (piccolo) vestito allo stesso modo del padre, entrambi con i peot, i riccioli laterali, vanno al muro del pianto.
Questi luoghi non mancano di emozionarmi per la loro bellezza. Prima di salire alla spianata vediamo un gruppo di uomini che si trattengono al fresco forse stanno pregando, ma Bassam ci spiega che si tratta di un Mastabah (cerchio). Sono persone che si trattengono alla Moschea organizzando gruppi di studio a rotazione, questo per essere sempre presenti e poter difendere la moschea. Penso che la cosa sia rimasta più che altro come una tradizione, non si vede infatti che potrebbe fare un gruppetto di persone disarmate.
Dal basso vediamo La moschea della roccia che si erge in tutta la sua maestosa bellezza e cominciamo a fotografarla, quando saliamo la scala e raggiungiamo la spianata restiamo senza fiato. La spianata è immensa, vorrei andare dappertutto e catturo con gli occhi gli archi, i giardini sottostanti, la chiesa russa, un gioiello, che vedo brillare tra i cipressi e che mi dicono essere la chiesa dove la madre di Gesù salì al cielo. Fa molto caldo e mi prende una mezza insolazione, per fortuna dappertutto per la spianata ci sono fontanelle e vado a lavarmi la faccia e bagnarmi la testa che il cappello ormai non protegge più.
Gli archeologi israeliani fin dal ‘67 hanno cominciato a fare scavi sotto la spianata delle Moschee e con il tunnel che passa sotto la moschea da una parte all’altra c’è il serio pericolo di crolli. Non posso credere che si possa essere così ottusi da mettere a rischio una meraviglia simile, al di là delle questioni di fede, però l’odio rende ottusi e certi fanatici vorrebbero radere al suolo la spianata con tutto quel che c’è per fare il “Secondo tempio”.
Per uscire facciamo una strada diversa, non dobbiamo più passare dal check point, ma sbuchiamo direttamente nel suk. Proprio all’uscita della moschea siamo colpiti da un’insegna posta sul frontone di un seminterrato, c’è scritto qualcosa come “Comunità africana di Gerusalemme”. Ci fermiamo per saperne di più, un giovane ci invita ad entrare. L’interno sembrerebbe quello di un centro culturale. Mentre siamo seduti al fresco il giovane ci spiega che si tratta di una comunità proveniente per lo più da Sudan, Ciad e Nigeria di 450 persone. “Siamo palestinesi di origine africana” dice “abbiamo abitudini, religione, storia che ci avvicinano e ci sentiamo parte di questo paese, del resto - ci ricorda - lo stesso tessuto sociale di Gerusalemme è misto. Abbiamo un sentimento per l’Africa, ma ci sentiamo palestinesi.” Ci spiega che la presenza africana a Gerusalemme risale all’epoca della conquista islamica, allora erano soprattutto pellegrini. Un’altra immigrazione c’è stata prima della fondazione dello stato di Israele. In passato erano i guardiani della Moschea, venivano chiamati “i vicini”. Nel ‘48 e nel ‘67 hanno subito l’occupazione e le espulsioni da parte di Israele. “Noi facciamo parte del tessuto sociale palestinese, siamo sempre stati in prima fila negli scontri, abbiamo partecipato a tutte le lotte fin dal ’67. Abbiamo avuto martiri e prigionieri. Nella seconda Intifada il primo martire di Gerusalemme apparteneva alla nostra comunità.” Gli chiediamo se per quanto riguarda il matrimonio con ragazze o ragazzi palestinesi hanno avuto problemi di discriminazione. Ci spiega che qui in Palestina il valore essenziale si dà alla terra, quando è in gioco il matrimonio decide la quantità di terra posseduta, che conferisce lo stato sociale, questa è l’unica discriminazione.
Usciamo e la maggior parte del gruppo continua a bighellonare per il suk, io preferisco fermarmi a un baretto all’entrata della porta di Damasco con Patrizia e Silvia, la moglie di un funzionario della MLR che è venuta con noi. E’ italiana ma parla in arabo, la prima volta che l’ho incontrata alla MLR qualche giorno fa mi sono spremuta le meningi per farmi uscire un bel “sabah al kerr” e lei ha risposto semplicemente ciao.
Più tardi ci raggiunge Kifah, Abir è andata via. Mentre guardo il panorama di antenne satellitari sopra Gerusalemme sento degli spari. Si sentono molto vicini e si capisce che non sono fuochi d’artificio. Vedo che Kifah è molto tranquilla e allegra come se non li sentisse. Gli spari si succedono in continuità. Chiedo a Silvia di domandarne l’origine a Kifah. Lei risponde che sono i soldati che sparano per pura intimidazione. Resto un po’ perplessa, Kifah alza le spalle, aggiunge che qui è normale.
Ogni tanto arriva qualcuno dal suk per mostrare un acquisto, il barista aggiunge un tavolo poi lo toglie poi arriva altra gente, lui non sa se aggiungere o togliere tavoli, va un po’ in confusione e forse ci manda al diavolo. Quando siamo tutti riuniti andiamo al quartiere di Sheik Jarrah guidati da Kifah.
Prima di Sheik Jarrah decidiamo di andare a portare la nostra solidarietà a quattro deputati del consiglio legislativo palestinese in sciopero della fame. Nel 2006 sono stati eletti come rappresentanti per la zona di Gerusalemme poi dopo quattro mesi dalle elezioni un decreto israeliano ha imposto loro di dimettersi pena il ritiro della carta d’identità, la carta azzurra di Gerusalemme, e l’arresto. Avevano 30 giorni per dare una risposta ma prima dello scadere del termine erano stati arrestati assieme a altri deputati. Restarono in prigione 3-4 anni lontano dalle famiglie e nell’impossibilità di lavorare. Dopo il rilascio dal carcere avevano 30 giorni per lasciare Gerusalemme altrimenti la loro presenza sarebbe risultata illegale. Due di loro sono usciti dal carcere il 2 giugno, il 3 avevano già l’ordine di lasciare la città. Andiamo alla sede della CRI che li sta ospitando, ci ricevono in giardino dove sono disposte delle sedie in circolo. Ci presentiamo e Patrizia esprime a nome di tutti la nostra solidarietà, discorso che viene tradotto da Bassam. “Quando abbiamo visto che facevano sul serio abbiamo deciso di fare questa protesta e non usciremo da qui senza una soluzione” ci dice uno dei deputati, la motivazione con la quale Israele vuole espellerli è che…non sono fedeli allo stato ebraico. I deputati sono rimasti in tre, uno è già stato riarrestato. “Tutto il mondo riconosce che Gerusalemme è occupata e quindi dovrebbe vigere la Convenzione di Ginevra secondo cui nessuno può essere deportato dalla propria abitazione” ci dice un altro deputato. “Chiediamo al mondo di imporre a Israele la cancellazione delle leggi contro di noi, speriamo che la pressione internazionale possa servire. I nostri avi sono nati qui e vogliamo continuare a viverci, siamo padri di famiglia, vorremmo stare con le nostre famiglie in santa pace.”
Il figlio di sei anni di uno di loro aveva deciso di non uscire più di casa finché non sarebbe tornato il padre, ora vive con lui alla CRI.
“I nostri figli hanno paura, specie di notte, che l’esercito entri in casa. (Il fratello di uno di loro è stato arrestato perché gli somigliava ). Non possiamo uscire di qui senza essere arrestati, stiamo facendo appello a tutte le forze democratiche. Se viene applicata questa legge migliaia di palestinesi subiranno la stessa sorte, abbiamo sentito di una lista di 318 persone che saranno espulse, per Gerusalemme è la terza Nakba. E’ in corso l’ebraicizzazione della città, 10mila bambini potranno essere cacciati raggiunti i 16 anni. Un bambino di 13 anni è stato appena liberato dal carcere e espulso. Chiediamo ai nostri amici di far pressione sui loro governi, vogliamo vivere liberi sulla nostra terra.”
Chiediamo loro se hanno ricevuto espressioni di solidarietà da parlamentari dei paesi europei. Rispondono di si, hanno ricevuto molte lettere di solidarietà dall’Europa, parlamentari inglesi, francesi, spagnoli. Hanno scritto loro anche l’ambasciatore egiziano, giordano e turco e perfino Jimmy Carter che ha condannato questa legge che viola il diritto internazionale. La delegazione inglese, un rappresentante della UE e dell’ONU e il segretario generale della Lega Araba hanno chiesto di riunire il consiglio dell’ONU per esaminare questo caso. Ma soprattutto hanno ricevuto la solidarietà della gente e molte delegazioni sono venute dalle città palestinesi. “E’ stato un grande momento di unità e da questa mobilitazione è nato il “Comitato Nazionale contro la deportazione”.
Politicamente i deputati appartengono all’area di Hamas, ma questo, rispetto al sopruso, è secondario. “Siamo prima di tutto palestinesi” dicono, “se ora tocca a noi domani toccherà ad altri palestinesi di Gerusalemme, stiamo difendendo il diritto di tutti.”

PRIGIONIERI

Traduco in italiano l'importante appello girato da Roberta Pasini e aggiungo una breve introduzione. Ritengo si debba e si possa coordinare a livello nazionale il 9 OTTOBRE 2010 (per esempio) azioni di protesta che tutti i comitati di ogni città potrebbero organizzare in sostegno di AHMAD SA'ADAT e di tutti i prigionieri politici palestinesi.

CHI E' AHMAD SAADAT?
Ahmad Sa'adat è nato nel 1954 presso Al Bireh. Figlio di profughi del 1948 originari di Dayr Tarif (vicino a Ramleh, bellissime valli della Galilea). Nel 1969 entrò formalmente a far parte del PFLP (Fronte di Liberazione Popolare della Palestina, partito di ispirazione Marxista). Arrestato nel 1969 (3 mesi) arrestato nel 1970 (28 mesi). Arrestato nel 1973 (10 mesi) nel 1975 (45 giorni). Arrestato nel 1976 (4 anni), nel 1989 (detenzione amministrativa, 9 mesi), nel 1992 (detenzione amministrativa, 13 mesi). Eletto leader del Fronte popolare per la West Bank nel 1994.

Arrestato dall'Autorità Palestinese nel 1996 durante la serie di retate a danno di membri del Fronte Popolare che seguirono l'attacco a coloni israeliani presso Beit el Surda l'11 Dicembre. Rilasciato il 27 Febbraio 1997 dopo uno sciopero della fame che lo condusse praticamente in fin di vita, l'Autorità Palestinese ebbe paura che potesse morire in prigione e che la cosa scatenasse rivolte in tutto il territorio. Dopo il rilascio trascorse diversi giorni in coma. Nel 2000 Abu Ali Mustafa succede a George Habash alla guida del partito PFLP. Il 27 Agosto 2001 Abu ALi Mustafa viene assassinato dagli israeliani con un'operazione di bombardamento mirato sul suo ufficio di Ramallah. Il 3 Ottobre 2001 Sa'adat succede ad Abu Ali Mustafa nella guida del partito. Dopo che 4 membri del PFLP uccidono il Ministro del Turismo Israeliano Rehavam Zeevi -conosciuto per il suo sostegno alle uccisioni mirate dei palestinesi e alla loro espulsione dalle proprie terre- Israele accusa Sa'adat di essere stato il mandante dell'omicidio. L'Autorità Palestinese sotto pressione Israeliana dichiara le brigate armate legate al Fronte Popolare fuori legge (Le Brigate Abu Ali Mustafa) e riesce ad arrestare Sa'adat con l'inganno di un incontro con il capo dell'intelligence dell'Autorità Tawfiq Tirawi presso un hotel di Ramallah. Grosse manifestazioni e scontri seguono l'arresto di Sa'adat in tutto il paese. In seguito la cellula delle Brigate Abu ALi Mustafa ritenuta responsabile dell'omicidio del MInistro Israeliano viene arrestata dall'Autorità Palestinese presso Nablus. Sono rinchiusi insieme a Sa'adat presso il Muqata, gli uffici amministrativi e rappresentativi dell'Autorità Palestinese presso Ramallah: è il 21 febbraio 2002. Dopo un mese, in marzo, scatta l'operazione militare israeliana chiamata Defensive Shield. Il Muqata viene severamente colpito ed Arafat è posto sotto assedio, è il 29 marzo 2002. Sa'adat e i 4 militanti del PFLP sono ugualmente sotto assedio negli stessi stabili, insieme ad Arafat. Iniziano trattative tra Autorità Palestinese ed Israele, Sa'adat ed i 5 combattenti del Fronte Popolare in questo contesto diventano chiaramente una preziosa merce di scambio. Il contenuto delle trattative non è mai stato reso pubblico, ma sembra ovvio da quanto accadde in seguito: il 1 maggio 2002 Sa'adat e i 4 combattenti vengono trasferiti presso una prigione a Gerico posta sotto tutela dalle forse britanniche e statunitensi. Il 2 maggio 2002 le forze militari israeliane abbandonano l'assedio alla Muqata ed Arafat ne esce indenne. Manifestazioni in tutto il paese.
I 4 membri delle brigate Abu ALi Mustafa erano stati processati da un tribunale miitare del PA all'interno del muqata prima del trasferimento presso Gerico. Furono giudicati colpevoli e condanati a 18 anni di prigione. Sa'adat vine definito da Arafat leader politico e non militare, per questo viene rinviato a giudizio presso un un tribunale civile palestinese. Viene giudicato dall'alta corte di giustizia a Gaza e non viene trovata nessun'evidenza di un suo coinvolgimento nell'attentato del Ministro del Turismo Israeliano. L'Alta Corte di Giustizia richiede il suo immediato rilascio. Non viene rilasciato, Israele minaccia di ucciderlo in caso ciò avvenga. Interviene a suo favore anche Amnesty Interational. 20 Agosto 2002, le forze armate israeliane trucidano il fratello più giovane di Sa'adat, presso la sua casa di Ramallah. La moglie di Sa'adat viene arrestata presso l'Allenby Bridge e le viene negato di recarsi al World SOcial Forum.

Il 14 marzo 2006 gli israeliani si impossessano della prigione di Gerico, (che ricordo era sotto tutela US e UK) trasferendo centinaia di prigionieri politici in Israele. Tra loro, chiaramente, Sa'adat che nel 2008 venne illeggittimamente condannato a 30 anni di prigione da una Corte Militare Israeliana.

Lettera spedita ai parlamentari italiani da Luisa Morgantini

Khalida Jarrar, deputata del Consiglio Legislativo Palestinese, è gravemente malata.

Il governo Israeliano le impedisce di uscire dal paese per sottoporsi a controlli medici.



È passato già un mese e mezzo da quando il medico di Khalida Jarrar, Parlamentare palestinese ed eletta nelle liste del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), le ha prescritto visite approfondite al cervello per i malori che accusa ormai da molto tempo. I primi esami medici che Khalida Jarrar ha effettuato presso gli ospedali dei Territori Palestinesi Occupati hanno dato esiti preoccupanti e per questa ragione, nel mese di Agosto, le sono stati prescritti esami più approfonditi. Le strutture mediche palestinesi non sono però sufficientemente attrezzate, ed a Khalida Jarrar è stato consigliato di recarsi ad Amman, in Giordania.



Nonostante i solleciti a partire il prima possibile per poter trovare la ragione del suo male, da oltre un mese e mezzo a Khalida Jarrar è impedito di recarsi all’estero, poiché considerata dai servizi segreti israeliani non come membro del Parlamento Palestinese, ma come “parte di un’organizzazione terroristica”. Il fatto che ad una parlamentare, eletta dalla popolazione palestinese, mai accusata ed estranea a qualsiasi fatto di sangue e violenza, venga negato il diritto alle cure mediche, rappresenta un atto gravissimo, che mostra soltanto una delle molte facce oscure e tragiche dell’Occupazione israeliana.





Il Ministero della Sanità Palestinese ha accettato di coprire le spese per i suoi esami medici, e i responsabili dell’amministrazione civile israeliana in Cisgiordania, interpellati dal legale di Jarrar, hanno affermato - con una lettera ufficiale datata 17 agosto 2010 – che “niente impedisce a Khalida Jarrar di recarsi all’estero”. Nonostante questo, lo scorso 30 agosto, quando la parlamentare si è recata al ponte di Allenby per raggiungere la Giordania, si è vista negare l’autorizzazione a lasciare il paese dall’esercito israeliano, per le ben note “ragioni di sicurezza”.



Sono certa che non vorrete restare in silenzio di fronte a questa disumanità e ingiustizia.



Vi prego di fare ogni sforzo e pressione necessaria perché sia impedito ad Israele di negare il diritto alla salute e alla vita della popolazione palestinese, e perché cessi l’occupazione militare israeliana.



E' pertanto necessario chiedere al governo italiano, al Parlamento e ministero degli Esteri italiano che ogni azione sia intrapresa nei confronti dell’autorità israeliana affinché Khalida Jarrar possa recarsi in Giordania ed accedere alle cure mediche di cui necessita.



Grazie per quanto vorrete fare. Resto in attesa di vostre comunicazioni e a vostra disposizione per ulteriori informazioni.

Cordialmente.



Luisa Morgantini

Già Vice Presidente del Parlamento Europeo

luisamorgantini@gmail.com

www.luisamorgantini.net

Tel. 348 3921465

Hebron - fu mercato

Israele deve restare l'unica potenza nucleare del medio Oriente per Obama e occidente

NUCLEARE: RESA DEI CONTI A VIENNA?
Alla conferenza dell’Aiea a Vienna i paesi arabi presenteranno una mozione per imporre a Israele l’adesione al Trattato di non proliferazione. Lo Stato ebraico è l’unico a possedere la bomba atomica nel Vicino Oriente. Barack Obama si oppone e spedisce in Austria il suo inviato speciale

Roma, 20 settembre 2010, Nena News – In agenda ci sono molti punti: elezione Stati membri, il Consiglio dei Governatori, il bilancio, la sicurezza nucleare, la cooperazione tecnica. Ma sarà il nucleare israeliano a tenere banco da oggi fino a venerdì durante la conferenza annuale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) che si è aperta questa mattina a Vienna.

Nonostante le forti pressioni americane, i paesi arabi sono (apparentemente) intenzionati ha presentare una mozione che invita lo Stato ebraico a dichiarare le armi nucleari in suo possesso e a ratificare il Trattato di non proliferazione (Tnp). Diversi rappresentanti arabi hanno già espresso nei giorni scorsi «forte delusione» per il rapporto annuale presentato all’inizio del mese dal direttore dell’Aiea, Yukiya Amano, che sorvola sulla presenza di un nutrito arsenale atomico in Israele mentre insiste sulla necessità di intensificare i controlli sulle produzioni nucleari dell’Iran (accusato da Usa e Israele si volersi dotare di ordigni atomici a scopo militare).

All’ultima riunione gli Usa aveva adottato una linea più equilibrata e, di fatto, accettato l’idea dell’adesione di Israele al Tnp. Successivamente l’Amministrazione Obama ha fatto marcia indietro e, secondo quanto hanno riferito in questi mesi i media israeliani, avrebbe «ammesso» durante colloqui con i rappresentanti dello Stato ebraico di aver commesso un errore ad appoggiare sia pure indirettamente la linea dei paesi arabi.

Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali, senza dichiararlo ufficialmente, riconoscono a Israele il diritto di possedere segretamente armi atomiche. Diritto che invece negano agli altri paesi della regione mediorientale. E pongono ostacoli anche alla produzione di energia atomica a scopi civili da parte non solo dell’Iran ma anche di Stati arabi alleati, come Giordania ed Egitto (adesso anche l’Iraq dice di voler costruire centrali nucleari). Mascherano questa politica di «due pesi e due misure» paventando pericoli per il «processo di pace». Secondo Washington rivotare la mozione araba, approvata lo scorso anno con una stretta maggioranza, potrebbe compromettere i colloqui diretti tra israeliani e palestinesi, ricominciati il 2 settembre. Il nuovo voto, aggiungono gli Stati Uniti, rischia inoltre di spingere Israele a disertare la conferenza del 2012 per la creazione di un Vicino Oriente libero da armi di distruzione di massa. Obama ha percio’ inviato a Vienna il suo rappresentante nelle questioni del nucleare, Gary Samore, nel tentativo di persuadere i paesi arabi a non presentare la mozione contro Israele.

Dall”Iran e’ giunta oggi una pesante critica l’Aiea. Il capo dell’organizzazione iraniana per l’energia atomica, Ali Akbar Salehi ha definito ingiusto il rapporto presentato da Amano. «L’agenzia sta vivendo una crisi di autorità morale e di credibilità», ha detto Salehi all’assemblea generale dell’Aiea. Sono molto tesi i rapporti tra Teheran e Amano. Quest’ultimo rispetto al suo predecessore, Mohamed El baradei, ha avuto sin da subito un approccio duro accusando l’Iran di impedire agli ispettori di svolgere il loro lavoro.(red) Nena News.

domenica 19 settembre 2010

Deieshe

Deieshe, murale

Appunti di viaggio Betlemme e Deieshe

24 luglio 2010
Betlemme, Deieshe


Questa giornata si è svolta in modo un po’ caotico, a partire dal mattino quando il pullman si è ingolfato costringendoci a una performance imprevista, siamo dovuti scendere a spingere. A Betlemme avevamo appuntamento alla chiesa della Natività con Abir, una nostra amica che avrebbe dovuto farci da guida e poi ci avrebbe invitato a pranzo, ma non a casa sua perché nella sua zona mancava completamente l’acqua quindi saremmo andati a casa di sua madre. Siamo entrati nella chiesa della Natività, ma non abbiamo fatto in tempo a vedere alcunché perché Yousef ci ha detto che aveva preso appuntamento con la MLR locale, quindi abbiamo lasciato la piazza della Mangiatoia per dirigerci alla MLR di Betlemme. La sezione locale è nuova, come tutte le altre sedi fa attività a livello sociale e fornisce servizi a tutti coloro che ne hanno bisogno. I volontari cercano di diffondere la conoscenza del pronto soccorso, sono presenti nelle scuole e nelle fabbriche, ha rapporti a livello istituzionale ma soprattutto con la popolazione. Il servizio di pronto soccorso è centrale, la MLR ha la responsabilità ufficiale del pronto soccorso in tutta la Palestina. I volontari hanno dato sempre una pronta risposta dopo ogni disastro compiuto dagli israeliani. In modo particolare dopo l’aggressione a Gaza sono state organizzate due carovane. “Dopo la chiusura delle scuole” ci dice Salwa, responsabile del settore sociale, “organizziamo i campi estivi, abbiamo cominciato nel giugno 2010, il nostro obiettivo è far vivere ai nostri scolari un momento di svago. Per quanto riguarda i bambini handicappati stiamo cercando di avvicinarli ai bambini sani per far sentire loro meno il peso del loro handicap. Stiamo lavorando anche sulle donne, ci sono donne che hanno studiato e altre no, cerchiamo di coinvolgerle tutte nelle nostre attività. Offriamo assistenza ai bambini ospedalizzati con tumori o altre malattie. Stiamo cercando di estendere la nostra attività anche ai campi e ai villaggi più lontani. Vogliamo raggiunger tutte le categorie della società civile, bambini, handicappati, giovani, casalinghe, lavoratori disoccupati, anziani anche per le zone più sperdute della nostra provincia.
Abbiamo in programma il coinvolgimento delle università con il Ministero della pubblica istruzione, i rapporti con il Ministero dell’educazione e della sanità sono buoni, come anche quelli con le ONG presenti nella zona.”
Visitiamo la sartoria dove un volontario è intento al lavoro sulla macchina da cucire, accanto ha un cesto pieno di vestiti. Sono molto colorati e ne prendiamo qualcuno per osservarlo da vicino, questo è un vestito da ballo rosa, ci sembra somigliante a quelli indossati dalle giovani danzatrici che abbiamo visto ieri sera.
Dopo la visita usciamo, con Abir che è venuta con noi, per andare a pranzo, sua madre ci aspetta.
Non troviamo però solo sua madre, ma anche i suoi tre bambini, dei fratelli, insomma siamo un sacco di gente, ma la signora ha preparato una ricca tavola imbandita. Noto dei ritratti su una parete, uno è più grande, la foto di un bambino, è il fratello di Abir morto a 12 anni, non di morte naturale.
Non solo siamo in ritardo ma dobbiamo anche sbrigarci, vogliamo infatti andare al campo profughi di Deieshe. Dopo l’ultimo brindisi e l’ultima foto ci dirigiamo al pullman verso la nostra meta.
Deieshe, come tutti i campi profughi è costellata di murales, però qui ce n’è più che altrove e alcuni sono proprio belli. Ci vivono 13mila persone che provengono dai villaggi del ‘48, è uno dei campi più grandi del sud della Palestina. Visitiamo la struttura dell’UNWRA all’interno del campo. I due giovani funzionari ci accompagnano a visitarlo e ci danno alcune informazioni. Nel campo ci sono scuole elementari e medie con 2600 studenti, c’è una percentuale elevatissima di laureati, che però non trovano lavoro. Giriamo per le stradine, le case sono una attaccata all’altra, con bambini che ci guardano dalle finestre. “Le case possono crescere solo in altezza” ci dice la nostra accompagnatrice “data la mancanza di spazio”. Ci parla anche della mancanza dì acqua, a Betlemme manca da 25 giorni. L’acqua viene deviata negli insediamenti, qui, sopra ogni casa c’è una cisterna per sfruttare l’acqua piovana. Ci parla anche delle incursioni notturne dell’esercito e del suo modo di battere rumorosamente alle porte con il deliberato scopo di spaventare i bambini. Nel campo ci sono molti bambini con disturbi da stress. Ci dice anche che le case non sono state costruite dall’UNWRA ma dalla gente, qui l’UNWRA si occupa soprattutto della formazione.
La visita al campo è abbastanza frettolosa perché abbiamo anche un altro appuntamento alla sede politica della provincia di Betlemme di due deputati del consiglio legislativo di Fatah.
“Non abbiamo esercito, ma la ragione e il diritto” ci dice Fayez A. Saqqa. “I milioni di persone amanti della pace e della giustizia stanno con il popolo palestinese, verrà il giorno in cui avrà i suoi diritti legittimi. Voi siete parte della nostra lotta, noi siamo parte della vostra lotta per la giustizia e la democrazia nel mondo.” Ci parla del problema dell’acqua e di come stanno cercando di risolverlo. Le falde acquifere sono controllate da Israele ma nel 2000, dopo l’intervento degli USA, ci fu la possibilità tramite l’ente per l’acqua palestinese di scavare pozzi ad Abu Dis e zone limitrofe. Il problema però rimane perché il controllo dei pozzi non è al 100%, la questione dell’acqua è stata rimandata alla fase finale degli accordi. Le quote d’acqua sono uguali a quelle del ‘67 benché la popolazione sia aumentata, i coloni hanno 4 volte l’acqua dei palestinesi. D’estate il problema aumenta. Poi ci informa di come stanno cercando di mettere riparo. “Stiamo sistemando una vecchia pompa per migliorare il pompaggio dell’acqua, dal primo agosto avremo una pompa nuova per aumentare il flusso della rete. Forse la prossima settimana la crisi finirà ma…La questione dell’acqua è molto importante e si risolverà solo con la fine dell’occupazione.”
Il secondo argomento cruciale è quello dell’espansione delle colonie: “Dal ‘92 al ‘93 la presenza dei coloni si è moltiplicata di 10 volte e non bastavano gli insediamenti ora c’è anche il muro che carpisce territorio e impedisce a uno stato palestinese di nascere. Malgrado tutti gli sforzi palestinesi e internazionali la costruzione di insediamenti continua, il colonialismo sionista è diverso dagli altri perché vuole svuotare la Palestina dai palestinesi per sostituirla con un altro popolo.” Ribadisce che “la questione palestinese si risolverà solo con ritorno dei profughi (circa cinque milioni sparsi per il mondo arabo, Europa e America) e la fine dell’occupazione del ‘67. Il popolo palestinese sta conducendo la lotta da 100 anni contro il colonialismo e l’occupazione, abbiamo settemila anni di civiltà e di storia, continueremo a lavorare per realizzare i nostri obiettivi. Gli interessi del popolo palestinese sono i nostri obiettivi.”
Nelle domande viene affrontato il problema dell’unità nazionale, il consigliere risponde “L’unità del nostro popolo è condizione essenziale per raggiungere i nostri obiettivi, ma bisogna fare i conti con vari fattori. Uno è il fallimento del processo di Oslo, che non ha portato alla pace, poi divisioni ci sono sempre state. Risalgono a due punti di vista, uno pragmatico, l’altro che ritiene di doversi riappropriare con la forza di ciò che è stato tolto con la forza. Con il fallimento di Oslo la parte dell’opposizione si è rafforzata e ricevuto aiuto da altri paesi arabi più a sinistra. C’è una discussione interna tra i palestinesi su questo. Ora abbiamo aperto un dialogo con Hamas, il Fronte Popolare e altri gruppi. Gli egiziani hanno fatto una proposta, Al Fatah ha firmato subito il documento ma finora Hamas non ha firmato. Pensiamo che non firmerà perché si pone alcune domande: “Questo processo politico di pace soddisferà i diritti dei palestinesi o no?”
“C’è ancora utilità a parlare con gli israeliani o no?” Queste domande non se le fa solo Hamas ma anche la maggioranza di Fatah. Uno stato palestinese vanifica il sionismo nei suoi progetti. Siamo in crisi entrambi. (L’ANP e Israele). E’ un conflitto tra due volontà che andrà avanti per altri 20 anni. Stiamo prendendo in giro noi e il mondo. Gli israeliani ci hanno chiesto di cancellare la dicitura “democratica” dalla nostra Carta e Clinton era venuto a controllare.”
A questo punto mi corre l’obbligo di porre la domanda se non sarebbe meglio avere come obiettivo uno stato unico democratico per tutti invece di quello di uno stato palestinese così impossibile da realizzare. Il consigliere sorride tra i baffi un sorriso ironico e accattivante come se volesse dirmi che ho scoperto l’acqua calda.
“ Lo stato palestinese è una fase, ma l’ideale è lo stato democratico binazionale già proposto dall’OLP e rifiutato sia da Israele che a livello internazionale.”
“La società civile” conclude “è più matura dei suoi dirigenti.”
Concordo sull’ultima affermazione, non sono però soddisfatta della risposta perché non sono convinta della necessità di passare per la conquista dello stato palestinese per arrivare allo stato unico. Al momento comunque sembrano impossibili entrambi.
Dopo l’incontro con i consiglieri di Fatah torniamo di nuovo a Deieshe, per fortuna non eravamo lontani, perché abbiamo un incontro con l’associazione IBDA’A che lavora nel Centro Culturale del campo. Jiad Ramadan, un giovane attivista, ci racconta tutta la storia della Palestina. Nella sala ci sono altri internazionali, fa un gran caldo e rimpiango di non avere più il mio ventaglio. Ci ricorda infine che l’UNWRA3), creata appositamente per assistere i palestinesi, non fa parte dell’ONU ma sopravvive con donazioni e per questo spesso è in crisi. “Sicuramente quelli dell’UNWRA vi hanno detto che ci sono 3 medici nel campo, ma in realtà c’è n’è solo uno per 13mila persone. L’UNWRA ha ridotto tutti i suoi servizi” specifica. “Riceviamo i servizi solo dall’UNWRA, come rifugiati non possiamo usufruire dei servizi dell’ANP, del Ministero della sanità ecc. Solo le associazioni del campo possono collaborare con la MLR e altri, ma solo per singoli progetti e il 60% della popolazione del campo è costituita da bambini, il 15% da anziani. Per 13mila abitanti non ci sono asili nido, spazi verdi, uno spazio per i giochi. Certo con tutto ciò siamo più fortunati dei profughi del Libano, ma bambini e giovani vivono reclusi. D’estate abbiamo problemi con l’acqua, d’inverno con l’elettricità.” Poi ci parla dell’alto livello d’istruzione e dice che un professore dell’università ebraica di Gerusalemme ha fatto uno studio da cui è risultato che il livello d’istruzione di Deieshe è più elevato di quello di Gerusalemme ovest. “Siamo orgogliosi di questo risultato ma la situazione economica è legata all’occupazione. L’occupante ha preso di mira le nostre scuole e ha fatto di tutto per boicottare lo studio dei ragazzi con incursioni e arresti. Quando prendevano i ragazzi che avevano libri, anche di politica non palestinese, li condannavano a pene amministrative (durante l’Intifada). Se un bambino soffre nella sua vita quotidiana figuriamoci durante il coprifuoco. E’ in questa situazione che è nata l’associazione del campo per il campo, in particolare per i bambini. Nel ‘94 abbiamo cominciato con un gruppo folk che coinvolgeva 30 bambini. E’ cominciato tutto da due persone che sono partite da zero, come sede la strada e 34 dollari. Ci ha aiutato il contatto con un gruppo francese. E’ stato molto utile un viaggio in Francia dei bambini del campo, al ritorno è stato fondato il gruppo folk che poi si è esibito di nuovo in Francia come scambio culturale. In seguito abbiamo ricevuto aiuto e richiesta di esibizioni in vari paesi dell’Europa, abbiamo visitato con queste esibizioni 25 paesi e questo gruppo folk è diventato il nostro investimento. Partendo dai bambini siamo riusciti poi a interessare le famiglie così abbiamo realizzato progetti con altri partner. Studiamo le esigenze del campo per organizzare i nostri progetti. Dopo sedici anni di attività abbiamo sedici progetti, gestiamo un asilo nido, una libreria, una biblioteca, un centro femminile, un centro sanitario e un club sportivo.”
Faccio un giro per il centro, vorrei andare a guardare tutti i dipinti che istoriano le pareti della scala e avanzo per un po’, ma non faccio in tempo ad esplorare il piano di sopra, tutti sono ansiosi di andare a fare un giro a Betlemme.
Alla chiesa della Natività i più entrano, ma io con Patrizia e Yousef preferiamo andare a sederci al bar a bere qualcosa. Mi sembra che la mia consumazione sia cara, ma poi traducendo gli shekel in euro mi rassicuro. (Lo shekel è la moneta israeliana, ma i palestinesi non ne hanno una propria). Decido di comprare una pianta della città (che però contiene anche quella di Gerusalemme) che è il massimo delle compere che posso permettermi. Quando i visitatori della Natività escono ci ricongiungiamo e ci disperdiamo per il centro storico di Betlemme che è molto suggestivo. Ancora un po’ di shopping poi si torna tutti a Ramallah. E’ il tramonto e in quella luce Betlemme è davvero poetica viene voglia di viverci e di dimenticare il muro che la offende e tutti i soprusi quotidiani.
Durante la cena al ristorante della MLR facciamo la conoscenza di Kifah, una simpatica e graziosa ragazza che ci accompagnerà il giorno successivo a Gerusalemme. Vogliamo prendere un autobus di linea invece che il pullman della MLR e Kifah si offre di andare a cercarne uno con 20 posti e portarcelo “sotto casa”. Ci sembra incredibile ma lei dice “qui è normale”. La Palestina è proprio una terra di meraviglie.