domenica 23 ottobre 2016

Il ruolo di Usa e Nato nel rapporto della Ue con la Cina

Accademia di marxismo presso l’Accademia cinese di scienze sociali
Associazione politico-culturale Marx XXI
Forum Europeo 2016 / La “Via Cinese” e il contesto internazionale
Roma, 15 ottobre 2016

Il ruolo di Usa e Nato nel rapporto della Ue con la Cina

Intervento di Manlio Dinucci


Vado subito al nodo della questione. Penso che non si possa parlare di relazioni tra Unione europea e Cina indipendentemente dall’influenza che gli Stati uniti esercitano sull’Unione europea, direttamente e tramite la Nato.

Oggi 22 dei 28 paesi della Ue (21 su 27 dopo l’uscita della Gran Bretagna dalla UE), con oltre il 90% della popolazione dell’Unione, fanno parte della Nato, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva». E la Nato è sotto comando Usa: il Comandante supremo alleato in Europa viene sempre nominato dal Presidente degli Stati uniti d’America e sono in mano agli Usa tutti gli altri comandi chiave. La politica estera e militare dell’Unione europea è quindi fondamentalmente subordinata alla strategia statunitense, su cui convergono le maggiori potenze europee.

Tale strategia, chiaramente enunciata nei documenti ufficiali, viene tracciata nel momento storico in cui cambia la situazione mondiale in seguito alla disgregazione dell’Urss. Nel 1991 la Casa Bianca dichiara nella National Security Strategy of the United States: «Gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un'influenza in ogni dimensione - politica, economica e militare - realmente globali. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana». Nel 1992, nella Defense Planning Guidance, il Pentagono sottolinea: «Il nostro primo obiettivo è impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione le cui risorse sarebbero sufficienti a generare una potenza globale. Queste regioni comprendono l'Europa occidentale, l'Asia orientale, il territorio dell'ex Unione Sovietica, e l'Asia sud-occidentale». Nel 2001, nel rapporto Quadrennial Defense Review – pubblicato una settimana prima della guerra Usa/Nato in Afghanistan, area di prmaria importanza geostrategica nei confronti di Russia e Cina – il Pentagono annuncia: «Esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse. Le nostre forze armate devono mantenere la capacità di imporre la volontà degli Stati uniti a qualsiasi avversario, così da cambiare il regime di uno Stato avversario od occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati».

In base a tale strategia, la Nato sotto comando Usa ha lanciato la sua offensiva sul fronte orientale: dopo aver demolito con la guerra la Federazione Jugoslava, dal 1999 ad oggi ha inglobato tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre della ex Jugoslavia, tre della ex Urss, e tra poco ne ingloberà altri (a partire da Georgia e Ucraina, questa di fatto già nella Nato), spostando basi e forze, anche nucleari, sempre più a ridosso della Russia. Contemporaneamente, sul fronte meridionale strettamente connesso a quello orientale, la Nato sotto comando Usa ha demolito con la guerra lo Stato libico e ha cercato di fare lo stesso con quello siriano.

Usa e Nato hanno fatto esplodere la crisi ucraina e, accusando la Russia di «destabilizzare la sicurezza europea», hanno trascinato l’Europa in una nuova guerra fredda, voluta soprattutto da Washington (a spese delle economie europee danneggiate dalle sanzioni e controsanzioni) per spezzare i rapporti economici e politici Russia-Ue dannosi per gli interessi statunitensi. Nella stessa strategia rientra il crescente spostamento di forze militari Usa nella regione Asia/Pacifico in funzione anticinese. La U.S. Navy ha annunciato che nel 2020 concentrerà in questa regione il 60% delle sue forze navali e aeree.

La strategia statunitense è focalizzata sul Mar Cinese Meridionale, di cui l’ammiraglio Harris, capo del Comando Usa per il Pacifico, sottolinea l’importanza: da qui passa un commercio marittimo del valore annuo di oltre 5 mila miliardi di dollari, compreso il 25% dell’export mondiale di petrolio e il 50% di quello di gas naturale. Gli Usa vogliono controllare queste rotte in nome di quella che l’ammiraglio Harris definisce «libertà di navigazione fondamentale per il nostro sistema di vita qui negli Stati uniti», accusando la Cina (cito) di «azioni aggressive nel Mar Cinese Meridionale, analoghe a quelle della Russia in Crimea». Per questo la U.S. Navy «pattuglia» il Mar Cinese Meridionale. Sulla scia degli Stati uniti arrivano le maggiori potenze europee: lo scorso luglio la Francia ha sollecitato l’Unione europea a «coordinare il pattugliameto navale del Mar Cinese Meridionale per assicurare una regolare e visibile presenza in queste acque illegalmente reclamate dalla Cina». E mentre gli Stati uniti installano in Corea del Sud sistemi «anti-missile» ma in grado di lanciare anche missili nucleari, analoghi a quelli installati contro la Russia in Romania e prossimamente in Polonia, oltre che a bordo di navi da guerra nel Mediterraneo, il segretario generale della Nato Stoltenberg riceve il 6 ottobre a Bruxelles il ministro degli esteri sudcoreano, per «rafforzare la partnership della Nato con Seul».

Questi e altri fatti dimostrano che in Europa e in Asia viene attuata la stessa strategia. È il tentativo estremo degli Stati uniti e delle altre potenze occidentali di mantenere la supremazia economica, politica e militare, in un mondo in forte trasformazione, in cui emergono nuovi soggetti statuali e sociali. L’Organizzazione di Shanghai per la cooperazione, nata dall’accordo strategico cino-russo, dispone di risorse e capacità lavorative tali da farne la maggiore area economica integrata del mondo. L’Organizzazione di Shanghai e i Brics sono in grado, con i loro organismi finanziari, di soppiantare in gran parte la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale che, per oltre 70 anni, hanno permesso agli Usa e alle maggiori potenze occidentali di dominare l’economia mondiale attraverso i prestiti-capestro ai paesi indebitati e altri strumenti finanziari. I nuovi organismi possono allo stesso tempo realizzare la dedollarizzazione degli scambi commerciali, togliendo agli Stati uniti la capacità di scaricare il loro debito su altri paesi stampando carta moneta usata cone valuta internazionale dominante.

Per mantenere la loro supremazia, sempre più vacillante, gli Stati uniti usano non solo la forza delle armi, ma altre armi spesso più efficaci di quelle propriamente dette.

La prima arma: i cosiddetti «accordi di libero scambio», come il «Partenariato transatlantico su commercio e investimenti» (TTIP) tra Usa e Ue e il «Partenariato Trans-Pacifico» (TPP), il cui scopo non è solo economico ma geopolitico e geostrategico. Per questo Hillary Clinton definisce il partenariato Usa-Ue «maggiore scopo strategico della nostra alleanza transatlantica», prospettando una «Nato economica» che integri quella politica e militare. Il progetto è chiaro: formare un blocco politico, economico e militare Usa-Ue, sempre sotto comando statunitense, che si contrapponga all’area eurasiatica in ascesa, basata sulla cooperazione tra Cina e Russia, che si contrapponga ai Brics, all’Iran e a qualunque altro paese si sottragga al dominio dell’Occidente. Poiché i negoziati sul Ttip stentano a procedere per contrasti di interesse e per una vasta opposizione in Europa, l’ostacolo viene ora aggirato con l’«Accordo economico e commerciale comprensivo» (CETA) tra Canada e Ue: un Ttip camuffato dato che il Canada fa parte del NAFTA insieme agli Usa. Il CETA sarà probabilmente firmato dalla Ue il prossimo 27 ottobre, durante la visita del primo ministro canadese Trudeau a Bruxelles.

La seconda arma: la penetrazione nei paesi bersaglio per disgregarli dall’interno. Facendo leva sui punti deboli che in varia misura ha ogni paese: la corruzione, l’avidità di denaro, l’arrivismo politico, il secessionismo fomentato da gruppi di potere locali, il fanatismo religioso, la vulnerabilità di vaste masse alla demagogia politica. Facendo leva, in certi casi, anche su un giustificato malcontento popolare per l’operato del proprio governo. Strumenti della penetrazione sono le cosiddette «organizzazioni non-governative», che sono in realtà la longa manus del Dipartimento di stato e della Cia. Quelle che, dotate di ingenti mezzi finanziari, hanno organizzato le «rivoluzioni colorate» nell’Est europeo, e hanno tentato la stessa operazione con la cosiddetta «Umbrella Revolution» a Hong Kong, mirando a fomentare movimenti analoghi in altre zone della Cina abitate da minoranze nazionali. Le stesse che operano in America Latina, con l’obiettivo primario di sovvertire le istituzioni democratiche del Brasile, minando così i Brics dall’interno. Strumenti della stessa strategia sono i gruppi terroristi, tipo quelli armati e infiltrati in Libia e in Siria per seminare il caos, contribuendo alla demolizione di interi Stati attaccati allo stesso tempo dall’esterno.

La terza arma: le «Psyops» (Operazioni psicologiche), lanciate attraverso le catene mediatiche mondiali, che vengono così definite dal Pentagono: «Operazioni pianificate per influenzare attraverso determinate informazioni le emozioni e motivazioni e quindi il comportamento dell’opinione pubblica, di organizzazioni e governi stranieri, così da indurre o rafforzare atteggiamenti favorevoli agli obiettivi prefissi». Con tali operazioni, che preparano l’opinione pubblica all’escalation bellica, si fa apparire la Russia come responsabile delle tensioni in Europa e la Cina come responsabile delle tensioni in Asia, accusandole allo stesso tempo di «violazione dei diritti umani».

Un’ultima considerazione: avendo lavorato a Pechino con mia moglie negli anni Sessanta, contribuendo tra l’altro alla pubblicazione della prima rivista cinese in lingua italiana, ho vissuto una fondamentale esperienza formativa nel momento in cui la Cina – liberatasi appena quindici anni prima dalla condizione coloniale, semicoloniale e semifeudale – era completamente isolata e non riconosciuta dall’Occidente né dalle Nazioni Unite come Stato sovrano. Di quel periodo mi rimane impressa la capacità di resistenza e la coscienza di questo popolo, all’epoca di 600 milioni, impegnato con la guida del Partito comunista a costruire una società su basi economiche e culturali completamente nuove. Penso che tale capacità sia oggi ugualmente necessaria perché la Cina odierna, che sta sviluppando le sue enormi potenzialità, possa resistere ai nuovi piani di dominio imperiale, contribuendo alla lotta decisiva per il futuro dell’umanità: quella per un mondo senza più guerre in cui trionfi la pace indissolubilmente legata alla giustizia sociale.

martedì 27 settembre 2016

Psyop: operazione Siria

L’arte della guerra

Psyop: operazione Siria

Manlio Dinucci


Le «Psyops» (Operazioni psicologiche), cui sono addette speciali unità delle forze armate e dei servizi segreti Usa, sono definite dal Pentagono «operazioni pianificate per influenzare attraverso determinate informazioni le emozioni e motivazioni e quindi il comportamento dell’opinione pubblica, di organizzazioni e governi stranieri, così da indurre o rafforzare atteggiamenti favorevoli agli obiettivi prefissi».

Esattamente lo scopo della colossale psyop politico-mediatica lanciata sulla Siria. Dopo che per cinque anni si è cercato di demolire lo Stato siriano, scardinandolo all’interno con gruppi terroristi armati e infiltrati dall’esterno e provocando oltre 250mila morti, ora che l’operazione militare sta fallendo si lancia quella psicologica per far apparire come aggressori il governo e tutti quei siriani che resistono all’aggressione.

Punta di lancia della psyop è la demonizzazione del presidente Assad (come già fatto con Milosevic e Gheddafi), presentato come un sadico dittatore che gode a bombardare ospedali e sterminare bambini, con l’aiuto dell’amico Putin (dipinto come neo-zar del rinato impero russo).

A tal fine sarà presentata a Roma agli inizi di ottobre, per iniziativa di varie organizzazioni «umanitarie», una mostra fotografica finanziata dalla monarchia assoluta del Qatar e già esposta all’Onu e al Museo dell’olocausto a Washington per iniziativa di Usa, Arabia Saudita e Turchia: essa contiene parte delle 55mila foto che un misterioso disertore siriano, nome in codice Caesar, dice di aver scattato per incarico del governo di Damasco allo scopo di documentare le torture e le uccisioni dei prigioneri, ossia i propri crimini (sull’attendibilità delle foto vedi il report di Sibialiria e l’Antidiplomatico).

Occorre a questo punto un’altra mostra, per esporre tutte le documentazioni che demoliscono le «informazioni» della psyop sulla Siria. Ad esempio, il documento ufficiale dell’Agenzia di intelligence del Pentagono, datato 12 agosto 2012 (desecretato il 18 maggio 2015 per iniziativa di «Judicial Watch»): esso riporta che «i paesi occidentali, gli stati del Golfo e la Turchia sostengono in Siria le forze di opposizione per stabilire un principato salafita nella Siria orientale, cosa voluta dalle potenze che sostengono l’opposizione allo scopo di isolare il regime siriano».

Ciò spiega l’incontro nel maggio 2013 (documentato fotograficamente) tra il senatore Usa John McCain, in Siria per conto della Casa Bianca, e Ibrahim al-Badri, il «califfo» a capo dell’Isis. Spiega anche perché il presidente Obama autorizza segretamente nel 2013 l’operazione «Timber Sycamore», condotta dalla Cia e finanziata da Riyad con milioni di dollari, per armare e addestrare i «ribelli» da infiltrare in Siria (v. il New York Times del 24 gennaio 2016).

Altra documentazione si trova nella mail di Hillary Clinton (declassificata come «case number F-2014-20439, Doc No. C05794498»), nella quale, in veste di segretaria di stato, scrive nel dicembre 2012 che, data la «relazione strategica» Iran-Siria, «il rovesciamento di Assad costituirebbe un immenso beneficio per di Israele, e farebbe anche diminuire il comprensibile timore israeliano di perdere il monopolio nucleare».

Per demolire le «informazioni» della psyop, ci vuole anche una retrospettiva storica di come gli Usa hanno strumentalizzato i curdi fin dalla prima guerra del Golfo nel 1991. Allora per «balcanizzare» l’Iraq, oggi per disgregare la Siria. Le basi aeree installate oggi dagli Usa nell’area curda in Siria servono alla strategia del «divide et impera», che mira non alla liberazione ma all’asservimento dei popoli, compreso quello curdo.

(il manifesto, 27 settembre 2016)

mercoledì 7 settembre 2016

Libia, la grande spartizione


Libia, la grande spartizione
Petrolio, immense riserve d’acqua, miliardi di fondi sovrani. Il bottino sotto le bombe

Manlio Dinucci


«L'Italia valuta positivamente le operazioni aeree avviate oggi dagli Stati uniti su alcuni obiettivi di Daesh a Sirte. Esse avvengono su richiesta del Governo di Unità Nazionale, a sostegno delle forze fedeli al Governo, nel comune obiettivo di contribuire a ristabilire la pace e la sicurezza in Libia»: questo il comunicato diffuso della Farnesina il 1° agosto.

Alla «pace e sicurezza in Libia» ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e Roma gli stessi che, dopo aver destabilizzato e frantumato con la guerra lo Stato libico, vanno a raccogliere i cocci con la «missione di assistenza internazionale alla Libia». L’idea che hanno traspare attraverso autorevoli voci. Paolo Scaroni, che a capo dell’Eni ha manovrato in Libia tra fazioni e mercenari ed è oggi vicepresidente della Banca Rothschild, ha dichiarato al Corriere della Sera che «occorre finirla con la finzione della Libia», «paese inventato» dal colonialismo italiano. Si deve «favorire la nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a stare in piedi», spingendo Cirenaica e Fezzan a creare propri governi regionali, eventualmente con l’obiettivo di federarsi nel lungo periodo. Intanto «ognuno gestirebbe le sue fonti energetiche», presenti in Tripolitania e Cirenaica.

È la vecchia politica del colonialismo ottocentesco, aggiornata in funzione neocoloniale dalla strategia Usa/Nato, che ha demolito interi Stati nazionali (Jugoslavia, Libia) e frazionato altri (Iraq, Siria), per controllare i loro territori e le loro risorse. La Libia possiede quasi il 40% del petrolio africano, prezioso per l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale, dal cui sfruttamento le multinazionali statunitensi ed europee possono ricavare oggi profitti di gran lunga superiori a quelli che ottenevano prima dallo Stato libico. Per di più, eliminando lo Stato nazionale e trattando separatamente con gruppi al potere in Tripolitania e Cirenaica, possono ottenere la privatizzazione delle riserve energetiche statali e quindi il loro diretto controllo.

Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico, costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili terre desertiche.

Agli odierni raid aerei Usa in Libia partecipano sia cacciabombardieri che decollano da portaerei nel Mediterraneo e probabilmente da basi in Giordania, sia droni Predator armati di missili Hellfire che decollano da Sigonella. Recitando la parte di Stato sovrano, il governo Renzi «autorizza caso per caso» la partenza di droni armati Usa da Sigonella, mentre il ministro degli esteri Gentiloni precisa che «l'utilizzo delle basi non richiede una specifica comunicazione al parlamento», assicurando che ciò «non è preludio a un intervento militare» in Libia. Quando in realtà l’intervento è già iniziato: forze speciali statunitensi, britanniche e francesi – confermano il Telegraph e Le Monde – operano da tempo segretamente in Libia per sostenere «il governo di unità nazionale del premier Sarraj».

Sbarcando prima o poi ufficialmente in Libia con la motivazione di liberarla dalla presenza dell’Isis, gli Usa e le maggiori potenze europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. Infine, con la «missione di assistenza alla Libia», gli Usa e le maggiori potenze europee si spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli precedenti.

Parte dei fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi, venne investita per creare una moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana. Usa e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – decisero di bloccare «il piano di Gheddafi di creare una moneta africana», in alternativa al dollaro e al franco Cfa. Fu Hillary Clinton – documenta il New York Times – a convincere Obama a rompere gli indugi. «Il Presidente firmò un documento segreto, che autorizzava una operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli», compresi gruppi fino a poco prima classificati come terroristi, mentre il Dipartimento di stato diretto dalla Clinton li riconosceva come «legittimo governo della Libia».

Contemporaneamente la Nato sotto comando Usa effettuava l’attacco aeronavale con decine di migliaia di bombe e missili, smantellando lo Stato libico, attaccato allo stesso tempo dall’interno con forze speciali anche del Qatar (grande amico dell’Italia). Il conseguente disastro sociale, che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti, ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia.

(il manifesto, 3 agosto 2016)

giovedì 18 agosto 2016

L’apartheid idrico israeliano asseta la Cisgiordania


Zeitun
Notizie e libri sulla Palestina



L’apartheid idrico israeliano asseta la Cisgiordania
TOPICS:CisgiordaniaGazacoloniaccordi di Osloacqua
Palestinesi si riforniscono d'acqua da una sorgente il 27 giugno nel villaggio di Salfit in Cisgiordania. Gli abitanti sono rimasti senz'acqua per giorni a seguito di cronici tagli nella fornitura perpetuati dalle autorità israeliane di occupazione che interessano molte parti del territorio. Nedal Eshtayah APA imagesPalestinesi si riforniscono d'acqua da una sorgente il 27 giugno nel villaggio di Salfit in Cisgiordania. Gli abitanti sono rimasti senz'acqua per giorni a seguito di cronici tagli nella fornitura perpetuati dalle autorità israeliane di occupazione che interessano molte parti del territorio. Nedal Eshtayah APA images

agosto 16, 2016
Share on FacebookTweet about this on Twitter

Electronic Intifada

Charlotte Silver – 1 agosto 2016

La mancanza d’acqua non è una novità per i palestinesi. Sia nella Striscia di Gaza occupata che in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la fornitura di acqua che scorre nelle case palestinesi è rigidamente limitata od ostacolata da Israele.

Appena durante l’estate la temperatura sale, i rubinetti si prosciugano. Clemens Messerschmid, un idrologo tedesco che ha lavorato per due decenni con i palestinesi nel loro servizio idrico, chiama la situazione ” apartheid idrico”.

Quest’anno la giornalista israeliana Amira Hass ha pubblicato dati che provano che l’Autorità Idrica Israeliana ha ridotto la quantità di acqua distribuita ai villaggi della Cisgiordania.

In alcuni luoghi l’approvvigionamento è stato ridotto alla metà. I suoi dati contraddicono le smentite ufficiali che la fornitura d’acqua alle città e villaggi palestinesi sia stata tagliata durante l’estate, benché neanche questo sia una novità.

Quest’estate cittadine e piccoli villaggi sono rimasti fino a 40 giorni senza acqua corrente, obbligando quelli che se lo possono permettere a rifornirsi da cisterne d’acqua.

Quando Israele ha occupato la Cisgiordania nel 1967 ha anche preso il controllo dell’Acquifero Montano della Cisgiordania, la principale riserva naturale d’acqua del territorio.

Gli accordi di Oslo dei primi anni ’90 hanno concesso ad Israele l’80% delle riserve dell’Acquifero. I palestinesi avrebbero dovuto avere il restante 20%, ma negli ultimi anni hanno potuto avere a disposizione solo il 14%, in conseguenza delle restrizioni israeliane alle perforazioni.

Per garantire le necessità minime della popolazione, l’Autorità Nazionale Palestinese è obbligata a comprare il resto dell’acqua da Israele. Ma anche così, non è sufficiente.

Israele ha intenzione di vendere solo una limitata quantità di acqua ai palestinesi. In conseguenza di ciò, i palestinesi utilizzano molta meno acqua degli israeliani, e un terzo in meno rispetto alle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Salute di 100 litri a testa al giorno per uso domestico, ospedali, scuole e altre istituzioni.

“Electronic Intifada” ha parlato della programmata scarsità d’acqua per i palestinesi in Cisgiordania con Clemens Messerschmid, che ha lavorato nel settore idrico in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza fin dal 1997.

Charlotte Silver: la causa della crisi idrica in Cisgiordania è la scarsità d’acqua nella zona? O la scarsità è programmata?

Clemens Messerschmid: Ovviamente non c’è scarsità d’acqua in Cisgiordania. Quello che noi soffriamo in conseguenza di questa scarsità indotta si chiama l’occupazione. Questo è il regime imposto ai palestinesi subito dopo la guerra del giugno 1967.

Israele governa attraverso ordini militari, che hanno il diretto ed intenzionale risultato di tenere i palestinesi a corto d’acqua. Non si tratta di una costante e graduale espropriazione come con la terra e le colonie, ma è stato fatto in un colpo solo grazie all’ordine militare n° 92 dell’agosto 1967.

La Cisgiordania possiede una vasta falda acquifera. Ci sono grandi precipitazioni a Salfit, nella Cisgiordania settentrionale, ora nota per restrizioni idriche particolarmente drastiche.

La Cisgiordania beneficia di un tesoro di acque sotterranee. Ma questo è anche la sua maledizione, perchè Israele l’ha preso di mira immediatamente dopo averne assunto il controllo.

Quello di cui abbiamo bisogno è semplice: pozzi freatici per accedere a questo tesoro. Ma l’ordine militare israeliano n° 158 proibisce rigidamente di scavare pozzi o qualunque altro lavoro di carattere idrico, comprese le sorgenti, condutture, reti, stazioni di pompaggio, pozze utilizzate per l’irrigazione, riserve d’acqua, semplici cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, che raccolgono la pioggia che cade sui tetti.

Ogni cosa è proibita, o piuttosto non “permessa”, dall’Amministrazione Civile, il regime di occupazione di Israele. Anche riparare o fare la manutenzione dei pozzi richiede permessi militari. E semplicemente noi non li otteniamo.

E’ semplicemente un caso di apartheid idrico – ben oltre qualunque altro regime del passato di cui io sia a conoscenza.

CS: Israele ha incrementato la quantità di acqua che vende ai palestinesi, ma non è ancora sufficiente ad evitare che i villaggi rimangano a secco. A parte il fatto che il controllo di Israele sulle risorse dell’Acquifero è un grave problema, perchè Israele non vuole vendere più acqua ai palestinesi?

CM: Innanzitutto Israele ha drasticamente ridotto la quantità di acqua a disposizione dei palestinesi. Ha vietato ogni accesso al fiume Giordano, che ora è letteralmente prosciugato nei pressi del lago di Tiberiade.

Inoltre Israele impone una quota sul numero di pozzi e nega metodicamente i permessi per le più indispensabili riparazioni dei vecchi pozzi dei tempi giordani – la Giordania ha amministrato la Cisgiordania dal 1948 fino all’occupazione israeliana -, soprattutto i pozzi per l’agricoltura. Ciò significa che il numero dei pozzi è costantemente in diminuzione. Ne abbiamo meno che nel 1967.

Ora, l’unica cosa che è aumentata è la dipendenza dall’acquisto di acqua dagli espropriatori, Israele e Mekorot, la società idrica pubblica israeliana.

Ciò è riportato continuamente nella stampa occidentale, perchè questo è il punto che Israele sottolinea: “Vedete quanto siamo generosi?”

Per cui, sì, da Oslo gli acquisti da Mekorot sono aumentati costantemente. Ramallah ora riceve il 100% della sua acqua da Mekorot. Neanche una goccia proviene da un solo pozzo che abbiamo noi.

La fornitura ai villaggi da parte di Israele non è stata fatta come un favore. E’ stata iniziata nel 1980 da Ariel Sharon, allora ministro dell’Agricoltura, quando è cominciata il rapido aumento della colonizzazione. La fornitura di acqua è stata “incorporata”, per rendere irreversibile l’occupazione.

Quello che più importa qui è l’apartheid strutturale, cementato e incastonato nel ferro di queste condutture. Una piccola colonia è rifornita attraverso grandi tubature di trasmissione da cui se ne dipartono altre più piccole per andare verso le aree palestinesi.

Israele è molto contento di Oslo, perchè ora i palestinesi sono “responsabili” della fornitura. Responsabili, ma senza un briciolo di sovranità sulle risorse.

La cosiddetta crisi idrica attuale non è affatto una crisi. Una crisi è un cambiamento improvviso, una novità o un punto di svolta durante lo sviluppo. La riduzione nella fornitura ai palestinesi è voluta, pianificata e accuratamente eseguita. La “crisi idrica estiva” è la più prevedibile caratteristica nel calendario dell’acqua per i palestinesi. E la quantità annuale di piogge o la siccità non hanno alcun rapporto con la presenza e le dimensioni di questa “crisi”.

Vorrei sottolineare che per quanto questo succeda regolarmente, in ogni singolo caso si tratta di una decisione consapevole di qualche burocrate e ufficio in Israele o nell’Amministrazione civile. Qualcuno deve andare sul campo e chiudere le valvole della deviazione verso il villaggio palestinese. Questo, come ogni estate, è stato fatto agli inizi di giugno. Da qui, crisi idrica in Cisgiordania.

CS: Quali fattori possono aver contribuito all’aggravamento di quest’anno nelle interruzioni della fornitura d’acqua?

CM: Sembra che la domanda [di acqua] delle colonie sia aumentata drasticamente dallo scorso anno. L’Autorità Israeliana per le Acque ha riscontrato una maggiore domanda dal 20 al 40%, che è molto significativa.

Alexander Kushnir, il direttore generale dell’Autorità per le Acque, la attribuisce all’espansione delle irrigazioni dei coloni sulle montagne melle colonie a nord della Cisgiordania, attorno a Salfit e a Nablus.

CS: Com’è possibile che la gente dell’attuale Israele sembri godere di un surplus di acqua da quando il Paese ha iniziato ad utilizzare la desalinizzazione, mentre la gente sotto occupazione in Cisgiordania è rimasta con così poca [acqua]? Si dice che anche i coloni israeliani abbiano riscontrato una riduzione nelle forniture idriche.

CM: E’ vero che per la prima volta Israele ha dichiarato qualche anno fa che ha un’economia con eccedenza d’acqua ed è interessato a vendere più acqua ai suoi vicini, a cui in primo luogo ha espropriato l’acqua.

I palestinesi stanno già comprando l’acqua che Israele ha rubato, ma, come segnalato, non in modo affidabile o in percentuali sufficienti.

Francamente non lo so. Perchè questo particolare, elevato ed aggravato desiderio di Israele di non vendere neppure acqua sufficiente alla Cisgiordania?

In alcune zone, come nella Valle del Giordano, l’acqua è attivamente utilizzata come uno strumento per la pulizia etnica. Fin dal primo giorno dell’occupazione l’agricoltura è sempre stata presa di mira.

Ma questa logica non si applica ai centri urbani palestinesi densamente popolati nella cosiddetta Area A della Cisgiordania [sotto totale controllo dell’ANP. Ndtr.], che stanno ancora lottando. Dopo 20 anni, mi lascia ancora perplesso.

E’ importante capire un altro elemento: Israele deve continuamente impartire una lezione ai palestinesi. Ogni fornitura di acqua, ogni goccia fornita deve essere intesa come un generoso favore, come un atto di pietà, non come un diritto.

Israele ha incrementato la vendita di acqua alla Cisgiordania da 25 milioni di m³ all’anno nel 1995 ai circa 60 milioni di m³ di oggi. Perchè non ne vende molta di più? Sicuramente dal punto di vista di una politica idrica oculata se lo potrebbe permettere – ha un enorme surplus.

Uno dei problemi materiali che posso riscontrare è quello del prezzo, e quindi il significato dell’acqua.

Israele vuole ottenere finalmente il prezzo più alto per l’acqua desalinizzata che vende ai palestinesi. Mentre si parla solo di qualche centinaio di milioni di shekel all’anno (qualche decina di milioni di dollari) – che per Israele non è molto -, Israele vuole chiudere una volta per tutte la discussione in merito ai diritti palestinesi sull’acqua.

Israele non chiede niente di meno che una resa totale: i palestinesi devono accettare che l’acqua sotto i loro piedi non appartiene a loro, ma per sempre agli occupanti.

Con la richiesta del prezzo intero per l’acqua desalinizzata, i palestinesi ammetterebbero ed accetterebbero una nuova formula.

Una parola sulla Striscia di Gaza: a differenza della Cisgiordania, Gaza non ha fisicamente un accesso possibile all’acqua. La circoscritta e densamente abitata Striscia non potrà mai essere autosufficiente. tuttavia Gaza non riceve simili forniture di acqua da Israele. Solo recentemente Israele ha iniziato a vendere a Gaza i 5 milioni di m³ all’anno stabiliti da Oslo. E’ stato adottato un piccolo aumento di facciata.

In un certo modo si potrebbe interpretare questo trattamento differenziato tra Gaza e la Cisgiordania come un’ammissione israeliana di un certo grado di dipendenza idrologica.

Israele riceve la maggior parte della sua acqua dai territori conquistati nel 1967, comprese le Alture del Golan, ma neppure una goccia da Gaza.

Dal punto di vista di una politica idrica oculata, Gaza non ha risorse da offrire a Israele. Ciò vale anche per la risorsa principale: la terra. Da qui un approccio molto diverso a Gaza fin da subito, nel 1967. Israele non dipende da Gaza da nessun punto di vista materiale. Fin da Oslo Israele ha chiesto a Gaza di rifornirsi da sola con i suoi mezzi, come attraverso la desalinizzazione dell’acqua di mare.

CS: In questo contesto, come si sono comportati i Paesi donatori? Hanno difeso gli standard minimi internazionali o hanno affermato e rafforzato il controllo israeliano sulle risorse idriche nella Cisgiordania occupata?

CM: Purtroppo nel secondo modo. Quando è iniziato Oslo, noi tutti ci siamo illusi che sarebbe iniziata una fase di sviluppo. Pozzi di cui era stata vietata la trivellazione per 28 anni sarebbero finalmente stati messi in funzione.

Abbiamo rapidamente imparato che Israele nei fatti non aveva mai voluto concedere “permessi…per espandere l’agricoltura o l’industria, che possano competere con lo Stato di Israele,” come l’allora ministro della Difesa Yitzhak Rabin disse nel 1986.

Quello di cui c’era bisogno allora e adesso – e tutti quanti lo sapevano – era una pressione politica per ottenere il minimo di permessi di perforazione garantiti dagli accordi tra palestini e israeliani. Questa pressione non c’è mai stata. L’Ue o il mio governo tedesco non hanno mai diramato una dichiarazione pubblica nella quale “deplorassero” o “si dispiacessero” per gli ostacoli nel settore idrico. E’ un vero scandalo.

Ma ancora peggio, qual è stata la risposta di noi occidentali a tutto ciò? Tutti i progetti finanziati dai donatori hanno addirittura abbandonato il settore vitale della perforazione di pozzi. L’ultimo pozzo finanziato dalla Germania è stato trivellato nel 1999.

Come per l’attuale cosiddetta crisi idrica, noi come donatori siamo ora impegnati a finanziare generosamente un’anacronistica distribuzione di acqua con cisterne ai centri urbani palestinesi tagliati fuori [dall’erogazione d’acqua] – adeguandoci e stabilizzando lo status quo dell’occupazione e dell’apartheid idrico.

(traduzione di Amedeo Rossi)

giovedì 14 luglio 2016

Nato/Exit, obiettivo vitale

L’arte della guerra

Nato/Exit, obiettivo vitale

Manlio Dinucci


Mentre l’attenzione politico-mediatica è concentrata sulla Brexit e su possibili altri scollamenti della Ue, la Nato, nella generale disattenzione, accresce la sua presenza e influenza in Europa.

Il segretario generale Stoltenberg, preso atto che «il popolo britannico ha deciso di lasciare l’Unione europea», assicura che «il Regno Unito continuerà a svolgere il suo ruolo dirigente nella Nato». Sottolinea quindi che, di fronte alla crescente instabilità e incertezza, «la Nato è più importante che mai quale base della cooperazione tra gli alleati europei e tra l’Europa e il Nordamerica».

Nel momento in cui la Ue si incrina e perde pezzi, per la ribellione di vasti settori popolari danneggiati dalle politiche «comunitarie» e per effetto delle sue stesse rivalità interne, la Nato si pone, in modo più esplicito che mai, quale base di unione tra gli stati europei. Essi vengono in tal modo agganciati e subordinati ancor più agli Stati uniti d’America, i quali rafforzano la loro leadership in questa alleanza.

Il Summit Nato dei capi di stato e di governo, che si terrà a Varsavia l’8-9 luglio, è stato preparato da un incontro (13-14 giugno) tra i ministri della difesa, allargato all’Ucraina pur non facendo essa parte ufficialmente della Nato.

Nell’incontro è stato deciso di accrescere la «presenza avanzata» nell’Europa orientale, a ridosso della Russia, schierando a rotazione quattro battaglioni multinazionali negli stati baltici e in Polonia. Tale schieramento può essere rapidamente rafforzato, come ha dimostrato una esercitazione della «Forza di punta» durante la quale un migliaio di soldati e 400 veicoli militari sono stati trasferiti in quattro giorni dalla Spagna alla Polonia. Per lo stesso fine è stato deciso di accrescere la presenza navale Nato nel Baltico e nel Mar Nero, ai limiti delle acque territoriali russe.

Contemporaneamente la Nato proietterà più forze militari, compresi aerei radar Awacs, nel Mediterraneo, in Medioriente e Africa.

Nella stessa riunione, i ministri della difesa si sono impegnati ad aumentare nel 2016 di oltre 3 miliardi di dollari la spesa militare Nato (che, stando ai soli bilanci della difesa, ammonta a oltre la metà di quella mondiale), e a continuare ad accrescerla nei prossimi anni.

Queste sono le premesse dell’imminente Summit di Varsavia, che si pone tre obiettivi chiave:
«rafforzare la deterrenza» (ossia le forze nucleari Nato in Europa);
«proiettare stabilità al di là dei confini dell’Alleanza» (ossia proiettare forze militari in Medioriente, Africa e Asia, anche oltre l’Afghanistan);
«allargare la cooperazione con la Ue» (ossia integrare ancor più le forze europee nella Nato sotto comando Usa).

La crisi della Ue, emersa con la Brexit, facilita il progetto di Washington: portare la Nato a un livello superiore, creando un blocco militare, politico ed economico (tramite il Ttip) Usa-Ue, sempre sotto comando Usa, contrapposto all’area eurasiatica in ascesa, basata sull’alleanza Russia-Cina.

In tale quadro, l’affermazione del premier Renzi al forum di San Pietroburgo, «la parola guerra fredda è fuori dalla storia e dalla realtà, Ue e Russia tornino ad essere ottimi vicini di casa», è tragicamente grottesca.

L’affossamento del gasdotto South Stream Russia-Italia e le sanzioni contro la Russia, ambedue per ordine di Washington, hanno già fatto perdere all’Italia miliardi di euro. E i nuovi contratti firmati a San Pietroburgo possono saltare in qualsiasi momento sul terreno minato della escalation Nato contro la Russia. Alla quale partecipa il governo Renzi che, mentre dichiara la guerra fredda fuori dalla realtà, collabora allo schieramento in Italia delle nuove bombe nucleari Usa per l’attacco alla Russia.

(il manifesto, 28 giugno 2016)

sabato 4 giugno 2016

Israele arresta 567 palestinesi nel mese di aprile



Creato: 15 Maggio 2016


Israele arresta 567 Palestinesi nel mese di Aprile, il 22 % sono bambini

Pubblicato: 05 May 2016

Scritto da Samidoun: Palestinian Prisoner Solidarity Network



Organizzazioni dei Prigionieri Palestinesi come la Società dei Prigionieri Palestinesi, Addameer a Supporto dei Prigionieri, Associazione per i diritti umani e la Commissione affari dei prigionieri hanno reso noto in un rapporto importanti statistiche riguardanti la situazione generale dei prigionieri palestinesi nel mese di aprile 2016. Queste tre organizzazioni hanno raccolto e resi noti i seguenti dati.

567 palestinesi sono stati arrestati dalle forze di occupazione israeliane nel mese di aprile 2016, portando il numero degli arrestati dall'inizio della rivolta popolare del mese di ottobre 2015 a 5334 palestinesi. Il maggior numero di arresti sono stati fatti a Gerusalemme, dove gli arresti sono stati 213 di cui 60 minori; al-Khalil, dove gli arresti sono stati 120 i; seguita da 43 a Ramallah, 40 a Nablus, 38 a Betlemme, 35 a Qalqilya, 23 a Jenin, 12 a Tulkarem, 9 a Tubas, cinque in Salfit e quattro a Gerico; nella Striscia di Gaza, 25 sono stati arrestati, tra cui 20 pescatori a cui è stato sparato ed hanno subito un attacco in mare, due che passavano il confine di Beit Hanoun (Erez), e tre nei pressi del "confine" di Gaza.

Tra gli arrestati ci sono 123 bambini e 24 donne e ragazze (di cui 3 ragazze minorenni). 69 donne e bambine palestinesi sono imprigionate nelle carceri israeliane, tra queste 15 ragazze minorenni ; il numero totale di bambini nelle carceri israeliane rimane oltre 400. Ci sono più di 750 palestinesi detenuti in detenzione amministrativa e 700 detenuti malati. 133 ordini di detenzione amministrativa sono stati emessi nel mese di aprile, tra cui 97 rinnovi di detenzioni amministrative in corso.

Incursioni e politica di controllo nelle prigioni
Il Prison Service di Israele usa unità speciali per fare regolarmente incursioni e controlli istigati dall'amministrazione penitenziaria ed utilizza questi come mezzi di punizione collettiva dall’arresto fino al rilascio. L'amministrazione penitenziaria inventa pretesti per fare questi attacchi, in cui i prigionieri sono sottoposti a trattamenti crudeli e disumani.

Queste unità speciali attaccano o fanno controlli senza preavviso, in modo da evitare che i prigionieri si preparino ad adottare misure precauzionali, di solito nelle prime ore del mattino e, a volte, nelle ore dopo la mezzanotte; a volte vengono fatti nel mezzo della giornata, anche durante i periodi di preghiera o durante iftar (pasto serale) nel Ramadan. L'obiettivo di queste incursioni è impaurire ed abusare dei detenuti; queste unità speciali fanno azioni provocatorie contro i prigionieri, tipo trascinare i detenuti fuori dalle camere, gridare loro in faccia, abusare verbalmente di loro, e confiscare documenti personali e foto di famiglia, creare situazioni di provocazione che vengono poi utilizzate per giustificare gli attacchi sui prigionieri stessi.

Nel mese di aprile, l'incidente dell’attacco alla sezione 14 nel carcere di Nafha è andato oltre il tipico processo di invasione/ispezione con pestaggio dei prigionieri. Questo incidente si è verificato dopo che le guardie hanno rifiutato a Akram Siyam e Muharreb Da'is l’uso del bagno. Questo fatto ha portato ad un alterco tra le guardie ed i prigionieri, durante il quale le unità armate hanno fatto irruzione nella sezione, hanno picchiato i prigionieri, spruzzato spray al pepe e gas lacrimogeni , portati via i prigionieri dalla sezione. Poi hanno riportato Da'is alla sezione e invaso di nuovo per riportarlo via. I prigionieri si sono opposti alla sua riconsegna e allora le guardie sono tornate in gran numero e con i cani, costretto tutti i prigionieri ad uscire dalle celle e li hanno presi a bastonate. Ci sono stati numerosi feriti, tra cui il detenuto malato Yousry al-Masri, che ha il cancro ed è stato picchiato con un bastone sul collo e nella sua zona del fegato.

L'amministrazione penitenziaria ha chiuso tutte le sezioni del carcere, e ha imposto sanzioni nella sezione 14, compresa la rimozione di apparecchi elettrici, la negazione delle visite familiari, e l'isolamento dagli altri detenuti.

Condizioni di isolamento

17 prigionieri sono isolati con il pretesto di "minaccia per la sicurezza dello Stato," senza prove che indichino in che cosa consista questa minaccia. Essi sono tenuti in celle d'isolamento per 23 ore al giorno, tranne un'ora di ricreazione durante la quale sono soli con le guardie. L'isolamento è dannoso per la salute mentale e fisica. Il servizio carcerario emette ordini per tenere i prigionieri in isolamento che possono essere estesi ogni sei mesi su pronunciamento del tribunale militare, sulla base di un dossier segreto non svelato né ai detenuti né ai loro avvocati.

Tra i prigionieri in isolamento vi sono Noureddine Amer, 34, da Qalqilya, in isolamento dal 21 settembre del 2013, in carcere dal 2 febbraio 2002, e sta scontando una condanna a 55 anni. Viene tenuto nel carcere di Eshel in una stanza di 3,5 m x 1,5 m con una toilette e una porta di metallo con una fessura per l'introduzione di cibo, e ha una finestra chiusa. Gli è consentita solo un'ora al giorno di ricreazione.

E 'stato tenuto in isolamento in carceri diverse: Ramon, Ashkelon, Megiddo, Shatta, Gilboa e Ayalon. Viene trasferito nel "Bosta" (veicolo destinato al trasporto dei prigionieri ai tribunali militari) ; i trasferimenti richiedere molte ore. I prigionieri trasferiti con i "Bosta" non possono guardare dai finestrini eh hanno mani e piedi ammanettati . Durante questi trasferimenti, Amer è accompagnato da forze speciali che spesso lo provocano e lo attaccano . Nel mese di luglio 2015, è stato picchiato da cinque guardie militari; il suo naso sanguinava ed aveva forti dolori ma non è stato medicato. I suoi effetti personali erano tutti sparpagliati, gli hanno detto di raccoglierli mentre era ammanettato.

Egli soffre di diverse patologie aggravate dal contesto di isolamento, tra cui la mancanza di respiro, il colesterolo alto, problemi articolari, forti mal di testa, e ulcere gastriche. Ha subito una frattura ad una mano otto anni fa nel carcere di Gilboa, non è stato curato e continua a soffrire oggi di dolori alla mano.

Da quando è stato messo in isolamento, gli sono state negate tutte le forme di comunicazione con la sua famiglia. Sua madre è anziana, soffre di cancro e ha avuto un ictus; egli ha appreso questa notizia solo attraverso le visite dei suoi avvocati. Tre dei suoi fratelli sono anche imprigionati; Nidal Amer è condannato all'ergastolo, Abdul Salam Amer a 20 anni, e Aysar Amer è tenuto in detenzione amministrativa da febbraio 2016.

Sistematiche torture e abusi durante la detenzione dei bambini

I bambini sono esposti a tortura sistematica, umiliazione e trattamento crudele fin dal primo momento dell'arresto. Questo è caratterizzato da incursioni nelle case a tarda notte, fatto da parte di unità speciali o da soldati sotto copertura che cercano di “sembrare arabi". In più subiscono un trattamento degradante durante l’arresto ed il trasferimento. Essi sono incatenati mani e piedi e bendati mentre vengono portati ai centri di detenzione o di interrogatorio dove sono direttamente esposti a maltrattamenti. Vengono percossi con le mani ed i piedi, viene imprecato ed urlato contro di loro per farli impaurire, o vengono messi in isolamento e in condizioni difficili in modo da essere sottoposti a pressione psicologica.

Tra i casi di prigionieri minori è quello di Mohammed Amarna, 17 anni , da Ya'bad vicino a Jenin, che è stato arrestato il 2 Marzo 2016 nella sua casa. Durante una visita legale all'interno del carcere, il suo avvocato ha confermato che Amarna era stato picchiato, insultato e maltrattato durante il trasferimento ad un centro di detenzione dove è stato bendato e con le mani legate dietro la schiena. È stato trattenuto per ore fuori, schiaffeggiato più volte in faccia da un soldato e da chi lo interrogava.

157 palestinesi detenuti in relazione ad attività sui social media

Il governo israeliano ha formato negli ultimi mesi la cosiddetta "Cyber ​​Unit" allo scopo di intensificare le sue azioni penali contro i Palestinesi sui social media, in particolare Facebook.

Da ottobre 2015 ad aprile 2016, ci sono stati 157 casi di arresti sulla base di espressione e di opinione pubblicato su Facebook. Un certo numero di persone sono state incriminate per "incitamento", mentre altri hanno ricevuto l'ordine di detenzione amministrativa.

La maggior parte degli arresti sono stati fatti a Gerusalemme in quanto parte dell’obiettivo Palestinesi di Gerusalemme. Molti dei documenti esprimevano appoggio o solidarietà ai martiri palestinesi uccisi dalle forze di occupazione israeliane, o includevano la pubblicazione delle foto di martiri o prigionieri.

La soppressione della libertà di parola, di opinione e di espressione sui social media non è limitata ai casi di arresto, ma ha incluso anche il licenziamento dei palestinesi accusati dalle istituzioni a Gerusalemme o nelle zone della Palestina occupate nel 1948, o espulsioni forzate dalle città di residenza, in particolare Gerusalemme.

Battaglia degli stomaci vuoti

Durante il mese di aprile, alcuni prigionieri palestinesi sono stati impegnati in una serie di scioperi della fame individuali e collettivi per diverse ragioni. Sami Janazrah, 43, di al-Khalil, ha continuato lo sciopero della fame dal 3 marzo e Fuad Assi, 30, e Adib Mafarjah, 29, entrambi di Ramallah, hanno continuato il loro sciopero della fame dal 3 aprile. Tutti stanno facendo sciopero contro la loro detenzione amministrativa che non ha né accusa né processo.

Shukri al-Khawaja, 48 anni, di Ramallah, è impegnato in uno sciopero da un certo numero di giorni contro il suo isolamento continuato; decine di prigionieri in diverse carceri hanno lanciato scioperi di solidarietà con lui. Anche Abdullah Mughrabi, 24 anni, di Gerusalemme, fa sciopero da un certo numero di giorni perché è tenuto in isolamento.

Mahmoud Suwayta, 40, di al-Khalil, ha iniziato lo sciopero della fame da più di una settimana perché gli negano le visite del figlio da più di due anni; anche Iyad Fawajrah di Betlemme è impegnato in uno sciopero della fame a causa delle visite dei familiari.

Mansour Moqtada, 48, da Salfit, è impegnato in uno sciopero della fame parziale, a causa di condizioni di salute complicate e difficili, che esigerebbero una migliore assistenza medica. Anche Muhannad al-Izzat di Bethelehm è impegnato in uno sciopero della fame di 9 giorni per le cure mediche.

Due ex prigionieri nuovamente arrestati, Abdel-Rahim Sawayfeh e Mohammed Daoud, sono impegnati in scioperi della fame contro i loro nuovi arresti.

Inoltre, migliaia di prigionieri sono collettivamente impegnati in una protesta, rifiutando cibo opponendosi degli attacchi sui prigionieri nel carcere di Nafha.

Sito web : http://samidoun.ca/">http://samidoun.ca/

Samidoun: Rete di Solidarietà per i Prigionieri Palestinesi è una rete di organizzatori e attivisti, con base in Nord America, che lavorano per costruire la solidarietà con i prigionieri palestinesi nella loro lotta per la libertà.

http://www.alternativenews.org/english/index.php/news/1368-israel-arrests-567-palestinians-in-april-5334-from-october

Tradotto da Marina Maltoni per Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Firenze

mercoledì 25 maggio 2016

Strategia del golpe globale


L’arte della guerra

Strategia del golpe globale

Manlio Dinucci


Quale colIegamento c’è tra società geograficamente, storicamente e culturalmente distanti, dal Kosovo alla Libia e alla Siria, dall’Iraq all’Afghanistan, dall’Ucraina al Brasile e al Venezuela? Quello di essere coinvolte nella strategia globale degli Stati uniti, esemplificata dalla «geografia» del Pentagono.

Il mondo intero viene diviso in «aree di responsabilità», ciascuna affidata a uno dei sei «comandi combattenti unificati» degli Stati uniti: il Comando Nord copre il Nordamerica, il Comando Sud il Sudamerica, il Comando Europeo la regione comprendente Europa e Russia, il Comando Africa il continente africano, il Comando Centrale Medioriente e Asia Centrale, il Comando Pacifico la regione Asia/Pacifico.

Ai 6 comandi geografici se ne aggiungono 3 operativi su scala globale: il Comando strategico (responsabile delle forze nucleari), il Comando per le operazioni speciali, il Comando per il trasporto.

A capo del Comando Europeo c’è un generale o ammiraglio nominato dal presidente degli Stati uniti, che assume automaticamente la carica di Comandante supremo alleato in Europa. La Nato è quindi inserita nella catena di comando del Pentagono, opera cioè fondamentalmente in funzione della strategia statunitense.

Essa consiste nell’eliminare qualsiasi Stato o movimento politico/sociale minacci gli interessi politici, economici e militari degli Stati uniti che, pur essendo ancora la maggiore potenza mondiale, stanno perdendo terreno di fronte all’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali.

Gli strumenti di tale strategia sono molteplici: dalla guerra aperta – vedi gli attacchi aeronavali e terrestri in Iugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia – alle operazioni coperte condotte sia in questi che in altri paesi, ultimamente in Siria e Ucraina.

Per tali operazioni il Pentagono dispone delle forze speciali, circa 70000 specialisti che «ogni giorno operano in oltre 80 paesi su scala mondiale». Dispone inoltre di un esercito ombra di contractors (mercenari): in Afghanistan, documenta Foreign Policy, i mercenari del Pentagono sono circa 29000, ossia tre per ogni soldato Usa; in Iraq circa 8000, due per ogni soldato Usa.

Ai mercenari del Pentagono si aggiungono quelli della tentacolare Comunità di intelligence comprendente, oltre la Cia, altre 15 agenzie federali. I mercenari sono doppiamente utili: possono assassinare e torturare, senza che ciò sia attribuito agli Usa, e quando sono uccisi i loro nomi non compaiono nella lista dei caduti.

Inoltre il Pentagono e i servizi segreti dispongono dei gruppi che essi armano e addestrano, tipo quelli islamici usati per attaccare dall’interno la Libia e la Siria, e quelli neonazisti usati per il colpo di stato in Ucraina.

Altro strumento della stessa strategia sono quelle «organizzazioni non-governative» che, dotate di ingenti mezzi, vengono usate dalla Cia e dal Dipartimento di stato per azioni di destabilizzazione interna in nome della «difesa dei diritti dei cittadini».

Nello stesso quadro rientra l’azione del gruppo Bilderberg – che il magistrato Ferdinando Imposimato denuncia come «uno dei responsabili della strategia della tensione e delle stragi» in Italia – e quella della Open Society dell’«investitore e filantropo George Soros», artefice delle «rivoluzioni colorate».

Nel mirino della strategia golpista di Washington vi sono oggi il Brasile, per minare dall’interno i Brics, e il Venezuela per minare l’Alleanza Bolivariana per le Americhe. Per destabiizzare il Venezuela – indica il Comando Sud in un documento venuto alla luce – si deve provocare «uno scenario di tensione che permetta di combinare azioni di strada con l'impiego dosato della violenza armata».

(il manifesto, 24 maggio 2016)

Le radici del conflitto:la Nakba palestinese come parte della più vasta “catastrofe” araba





16 maggio, 2016, Maan News

di Ramzy Baroud

Negli ultimi 68 anni, ogni 15 maggio, i palestinesi commemorano il loro esilio collettivo dalla Palestina . La pulizia etnica della Palestina per fare spazio a una ‘patria ebraica’ è avvenuta a prezzo di una implacabile violenza e di una continua sofferenza. I palestinesi fanno riferimento a questa esperienza che dura tuttora come”Nakba” o “Catastrofe”.

Tuttavia, la ‘Nakba’ non è semplicemente un caso palestinese, ma è anche una ferita araba che continua a sanguinare.

La “Nakba” araba è stata precisamente l’accordo Sykes-Picot del 1916, che ha suddiviso gran parte del mondo arabo tra le potenze occidentali in competizione tra loro. Un anno dopo, la Palestina è stata rimossa del tutto dalla questione araba e “promessa” al movimento sionista in Europa, dando luogo ad uno dei conflitti più duraturi della storia moderna.

Come è potuto accadere?

Quando il diplomatico britannico, Mark Sykes, all’età di 39 anni è deceduto a causa dell’epidemia di spagnola, nel 1919, un altro diplomatico, Harold Nicolson, ha descritto la sua influenza sulla regione mediorientale in questo modo:

“E’stato a causa del suo indefesso impulso e della sua perseveranza, del suo entusiasmo e della sua fede, che il nazionalismo arabo e il sionismo sono diventati due delle nostre cause di guerra di maggior successo.

“Retrospettivamente sappiamo che Nicolson ha parlato troppo presto. La caratteristica del”nazionalismo arabo” cui si riferiva nel 1919 era fondamentalmente diversa dai movimenti nazionalisti che hanno fatto presa in diversi paesi arabi negli anni ’50 e ’60. Lo slogan del nazionalismo arabo negli anni successivi fu la liberazione e l’indipendenza dal colonialismo occidentale e dai suoi alleati locali.

Il contributo di Sykes all’avvento del sionismo non ha nemmeno prodotto una maggiore stabilità. Dal 1948, il sionismo e il nazionalismo arabo sono stati in costante conflitto, provocando deprecabili guerre ed altrettanto continui spargimenti di sangue.

Tuttavia, il contributo duraturo di Sykes per la regione araba è stato il suo ruolo di primo piano nella firma dell’accordo Sykes – Picot noto anche come l’ accordo dell’Asia Minore, un centinaio di anni fa. Quel trattato infame tra la Gran Bretagna e la Francia, che è stato negoziato con il consenso della Russia, ha plasmato la geopolitica del Medio Oriente per un intero secolo.

Nel corso degli anni, le sfide allo status quo imposto dall’ [accordo] Sykes -Picot non sono riuscite a modificare radicalmente i confini arbitrariamente disegnati che dividevano gli arabi in “sfere di influenza” amministrate e controllate dalle potenze occidentali.

Eppure, la persistente eredità [dell’accordo] Sykes – Picot potrebbe eventualmente essere messa in dubbio sotto la pressione delle nuove violente circostanze, con il recente avvento di’Daesh’ e la creazione di una sua propria versione di confini altrettanto arbitrari che comprendono ampie zone della Siria e dell’Iraq, come nel 2014, in concomitanza con l’attuale discussione sulla divisione della Siria in una federazione.

Perché l’accordo Sykes Picot?

L’accordo Sykes-Pycot è stato firmato in conseguenza dei violenti avvenimenti che coinvolsero in quegli anni la maggior parte dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e del Medio Oriente.

Tutto è iniziato quando, nel mese di luglio del 1914, è scoppiata la prima guerra mondiale. L’Impero Ottomano immediatamente ha preso parte alla guerra, schierandosi con la Germania, in parte perché era consapevole del fatto che gli alleati – costituiti principalmente dalla Gran Bretagna, Francia e Russia – avevano l’ambizione di prendere il controllo di tutti i territori ottomani, che includevano anche le regioni arabe della Siria, della Mesopotamia, dell’Arabia, dell’Egitto e del Nord Africa.

Nel novembre del 1915 la Gran Bretagna e la Francia hanno avviato seriamente i negoziati, con lo scopo di dividere l’eredità territoriale dell’Impero ottomano nell’eventualità di una conclusione a loro favore della guerra.

Così, una mappa, disegnata con delle linee rette usando una matita Chinagraph, ha condizionato in gran parte il destino degli arabi, dividendoli in base alle varie ipotesi di appartenenze tribali e di confessioni religiose prese a casaccio.

La divisione del bottino

Mark Sykes è stato il negoziatore per conto della Gran Bretagna e François Georges Picot il rappresentante della Francia. I diplomatici convennero che, una volta che gli ottomani fossero stati sonoramente sconfitti, la Francia avrebbe ricevuto le zone contrassegnate con una (a), che comprendevano la regione del sud- est della Turchia, il nord dell’Iraq, la maggior parte della Siria e il Libano.

L’area ( b) è stata contrassegnata come territori sotto il controllo britannico, che includevano la Giordania, l’Iraq meridionale, Haifa e Acri in Palestina, e la fascia costiera tra il Mare Mediterraneo e il fiume Giordano .

Alla Russia, d’altra parte, sarebbero stati concessi Istanbul, l’Armenia e gli strategici stretti turchi.

L’improvvisata mappa consisteva non solo di linee, ma anche di colori, insieme a un linguaggio attestante il fatto che i due paesi consideravano la regione araba in termini puramente convenzionali, senza prestare la minima attenzione alle possibili ripercussioni del fatto di tagliare a fette intere civiltà aventi una multiforme storia di cooperazione e di conflitto.

L’eredità del tradimento

La prima guerra mondiale terminò l’11 novembre 1918, dopo di che ebbe inizio sul serio la divisione dell’Impero Ottomano .

Gli inglesi e i francesi estesero i [loro] mandati su entità arabe divise, mentre al movimento sionista venne concessa la Palestina, su cui tre decenni più tardi venne formato uno Stato ebraico .

L’accordo, che è stato accuratamente progettato per soddisfare gli interessi coloniali occidentali, ha lasciato dietro di sé un’eredità di divisioni, tensioni e guerre.

Mentre lo status quo ha creato una stabile egemonia dei paesi occidentali sul destino del Medio Oriente, non è riuscito invece a garantire un qualche grado di stabilità politica o a creare un sistema di uguaglianza economica.

L’accordo Sykes – Picot è stato siglato segretamente per un motivo preciso: era completamente in contrasto con le promesse fatte agli arabi durante la Grande Guerra. Alla leadership araba, sotto il comando di Sharif Hussein, era stata promessa, in cambio dell’aiuto agli alleati contro gli ottomani, la completa indipendenza dopo la guerra.

Ai paesi arabi ci sono voluti molti anni e successive ribellioni per ottenere la loro indipendenza. Il conflitto tra gli arabi e le potenze coloniali ha determinato l’ascesa del nazionalismo arabo, che è sorto nel bel mezzo di contesti estremamente violenti e ostili, o più precisamente, come un loro risultato.

Il nazionalismo arabo potrebbe essere riuscito a mantenere una parvenza d’identità araba, ma è fallito nel produrre una risposta valida e unitaria al colonialismo occidentale.

Quando la Palestina – che fu promessa già nel novembre del 1917 [la dichiarazione Balfour, ndt] dalla Gran Bretagna come focolare nazionale per gli ebrei- è diventata Israele, ospitando per lo più coloni europei, il destino della regione araba a est del Mediterraneo è stato marchiato come il territorio del conflitto permanente e dell’antagonismo.

È qui, in particolare, che si percepisce soprattutto la terribile eredità dell’accordo Sykes – Picot in tutta la sua violenza, miopia e spregiudicatezza politica.

Cento anni dopo che due diplomatici, un britannico e un francese, hanno diviso gli arabi in sfere di influenza, l’accordo Sykes – Picot rimane una realtà pugnace ma dominante del Medio Oriente.

Dopo cinque anni che la Siria è in preda a una violenta guerra civile, il marchio Sykes – Picot ancora una volta si fa sentire, in quanto la Francia, la Gran Bretagna, la Russia – e ora gli Stati Uniti – stanno prendendo in considerazione quello che il Segretario di Stato americano, John Kerry, ha recentemente definito il ‘ Piano B ‘ – cioè la divisione della Siria sulla base di linee religiose, probabilmente in accordo con una nuova interpretazione occidentale delle “sfere di influenza”.

La mappa Sykes – Picot può anche essere stata un’ idea rozza disegnata frettolosamente nel corso di una guerra globale, ma, da allora, è diventata il principale quadro di riferimento che l’Occidente usa per ridisegnare il mondo arabo e per “controllarlo come desidera e come ritengono eventualmente opportuno.”

La ‘ Nakba ‘ palestinese, pertanto, deve essere intesa come parte integrante dei vasti disegni occidentali sul Medio Oriente di un secolo fa, quando gli arabi erano (e rimangono) divisi e la Palestina era (e rimane ) conquistata .

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza”

martedì 10 maggio 2016

L'ARTE DELLA GUERRA

L’arte della guerra

Israele ed emiri nella Nato

Manlio Dinucci


Il giorno stesso (4 maggio) in cui si è insediato alla Nato il nuovo Comandante Supremo Alleato in Europa – il generale Usa Curtis Scaparrotti, nominato come i suoi 17 predecessori dal Presidente degli Stati Uniti – il Consiglio Nord Atlantico ha annunciato che al quartier generale della Nato a Bruxelles verrà istituita una Missione ufficiale israeliana, capeggiata dall’ambasciatore di Israele presso la Ue.

Israele viene così integrato ancora di più nella Nato, alla quale è già strettamente collegato tramite il «Programma di cooperazione individuale». Ratificato dalla Nato il 2 dicembre 2008, tre settimane prima dell’operazione israeliana «Piombo fuso» a Gaza, esso comprende tra l’altro la collaborazione tra i servizi di intelligence e la connessione delle forze israeliane, comprese quelle nucleari, al sistema elettronico Nato.

Alla Missione ufficiale israeliana presso la Nato si affiancheranno quelle del regno di Giordania e degli emirati del Qatar e del Kuwait, «partner molto attivi» che verranno integrati ancor più nella Nato per meriti acquisiti.

La Giordania ospita basi segrete della Cia nelle quali – documentano il New York Times e Der Spiegel – sono stati addestrati militanti islamici di Al Qaeda e dell’Isis per la guerra coperta in Siria e Iraq.

Il Qatar ha partecipato alla guerra Nato contro la Libia, infiltrando nel 2011 circa 5mila commandos sul suo territorio (come dichiarato a The Guardian dallo stesso capo di stato maggiore qatariano), quindi a quella contro la Siria: lo ammette in una intervista al Financial Times l’ex primo ministro qatariano, Hamad bin Jassim Al Thani, che parla di operazioni qatariane e saudite di «interferenza» in Siria, con il consenso degli Stati uniti.

Il Kuwait, tramite l’«Accordo sul transito», permette alla Nato di creare il suo primo scalo aeroportuale nel Golfo, non solo per l’invio di forze e materiali militari in Afghanistan, ma anche per la «cooperazione pratica della Nato col Kuwait e altri partner, come l’Arabia Saudita». Partner sostenuti dagli Usa nella guerra che fa strage di civili nello Yemen. Vi partecipa, con una quindicina di cacciabombardieri, anche il Kuwait.

A cui l’Italia fornisce ora 28 caccia Eurofighter Typhoon di nuova generazione, costruiti dal consorzio di cui fa parte Finmeccanica insieme a industrie di Gran Bretagna, Germania e Spagna. Un contratto da 8 miliardi di euro, il più grande mai firmato da Finmeccanica, nelle cui casse entra circa la metà. È stato firmato il 5 aprile in Kuwait dal ministro della difesa, Khaled al-Sabah, e dall’amministratore delegato di Finmeccanica, Mauro Moretti.

Madrina dell’evento la ministra Roberta Pinotti, efficiente piazzista di armi (vedi la vendita a Israele di 30 caccia M-346 da addestramento avanzato). Gli Eurofighter Typhoon, che il Kuwait userà per fare stragi nello Yemen e altrove, possono essere armati anche di bombe nucleari: quelle in possesso dell’Arabia Saudita (vedi il manifesto del 23 febbraio). All’addestramento degli equipaggi provvede l’Aeronautica italiana, rafforzando «il fondamentale ruolo di stabilizzazione regionale svolto dal Kuwait».

Un successo della ministra Pinotti che, una settimana dopo aver venduto i cacciabombardieri al Kuwait, è stata insignita dall'Unione Cattolica Stampa Italiana con il Premio «Napoli Città di Pace 2016». Alla cerimonia, il cardinale Crescenzio Sepe ha definito quello della Pinotti «impegno al servizio della politica come forma più alta d’amore, che mette sempre al centro la tutela e la dignità della vita umana», proponendo perciò «il cambio di denominazione del Dicastero della Difesa in quello della Pace».

Che ne pensa Papa Francesco?

(il manifesto, 10 maggio 2016)

Sullo stesso argomento vedi La notizia su Pandora TV http://www.pandoratv.it/?p=7755

mercoledì 9 marzo 2016

l'italia e la Libia

renzi baschibludi Manlio Dinucci
il manifesto, 8 marzo 2016

Nella commedia degli equivoci per il teatrino della politica, il primo attore Renzi ha detto che in Libia «l’Italia farà la sua parte», quindi – appena il Pentagono ha annunciato che l’Italia assumerà il «ruolo guida» – ha dichiarato: «Non è all’ordine del giorno la missione militare italiana in Libia», mentre in realtà è già iniziata con le forze speciali che il parlamento ha messo agli ordini del premier. Questi, per dare il via ufficiale, aspetta che in Libia si formi «un governo strasolido che non ci faccia rifare gli errori del passato».

In attesa che nel deserto libico facciano apparire il miraggio di un «governo strasolido», diamo uno sguardo al passato. Nel 1911 l’Italia occupò la Libia con un corpo di spedizione di 100mila uomini, Poco dopo lo sbarco, l’esercito italiano fucilò e impiccò 5mila libici e ne deportò migliaia. Nel 1930, per ordine di Mussolini, metà della popolazione cirenaica, circa 100mila persone, fu deportata in una quindicina di campi di concentramento, mentre l’aviazione, per schiacciare la resistenza, bombardava i villaggi con armi chimiche e la regione veniva recintata con 270 km di filo spinato. Il capo della resistenza, Omar al-Mukhtar, venne catturato e impiccato nel 1931. Fu iniziata la colonizzazione demografica della Libia, sequestrando le terre più fertili e relegando le popolazioni in terre aride. Nei primi anni Quaranta, all’Italia sconfitta subentrarono in Libia Gran Bretagna e Stati uniti. L’emiro Idris al-Senussi, m See more at: http://www.marx21.it/index.php/internazionale/medio-oriente-e-nord-africa/26676-la-ricolonizzazione-della-libia#sthash.bUzZL6kc.dpufesso sul trono dagli inglesi nel 1951, concesse a queste potenze l’uso di basi aeree, navali e terrestri. Wheelus Field, alle porte di Tripoli, divenne la principale base aerea e nucleare Usa nel Mediterraneo.


Con l’Italia re Idris concluse nel 1956 un accordo, che la scagionava dai danni arrecati alla Libia e permetteva alla comunità italiana di mantenere il suo patrimonio. I giacimenti petroliferi libici, scoperti negli anni ‘50, finirono nelle mani della britannica British Petroleum, della statunitense Esso e dell’italiana Eni. La ribellione dei nazionalisti, duramente repressa, sfociò in un colpo di stato incruento attuato nel 1969, sul modello nasseriano, dagli «ufficiali liberi» capeggiati da Muammar Gheddafi. Abolita la monarchia, la Repubblica araba libica costrinse Usa e Gran Bretagna a evacuare le basi militari e nazionalizzò le proprietà straniere. Nei decenni successivi, la Libia raggiunse, secondo la Banca mondiale, «alti indicatori di sviluppo umano», con una crescita del pil del 7,5% annuo, un reddito pro capite medio-alto, l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e del 46% alla terziaria. Vi trovavano lavoro oltre 2 milioni di immigrati africani. Questo Stato, che costituiva un fattore di stabilità e sviluppo in Nordafrica, aveva favorito con i suoi investimenti la nascita di organismi che avrebbero creato l’autonomia finanziaria e una moneta indipendente dell’Unione africana. Usa e Francia – provano le mail di Hillary Clinton – decisero di bloccare «il piano di Gheddafi di creare una moneta africana», in alternativa al dollaro e al franco Cfa.

Per questo e per impadronirsi del petrolio e del territorio libici, la Nato sotto comando Usa lanciava la campagna contro Gheddafi, a cui in Italia partecipava in prima fila l’«opposizione di sinistra». Demoliva quindi con la guerra lo Stato libico, attaccandolo anche dall’interno con forze speciali e gruppi terroristi.

Il conseguente disastro sociale, che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti, ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia. Dove rimette piede quell’Italia che, calpestando la Costituzione, ritorna al passato coloniale.
-

lunedì 22 febbraio 2016

COMUNICATO DEL COMITATO NO GUERRA NO NATO




Il 20 febbraio si è tenuta l’assemblea nazionale del Comitato No Guerra No Nato, che ha approvato il comunicato (sottostante) che definisce i parametri di giudizio sulla situazione attuale. Sono stati confermati I due coordinatori nazionali nelle persone di Vincenzo Brandi e Giuseppe Padovano. La discussione è stata interamente dedicata ai preparativi di una risposta popolare alla imminente prospettiva di un’entrata in guerra dell’Italia in Libia.



COMUNICATO DEL COMITATO NO GUERRA NO NATO
SULLA SITUAZIONE ATTUALE



Siamo in stato di guerra, impegnati su due fronti che di giorno in giorno divengono sempre più incandescenti e pericolosi.

Accusando la Russia di «destabilizzare l’ordine della sicurezza europea», la Nato sotto comando Usa ha riaperto il fronte orientale, trascinandoci in una nuova guerra fredda, per certi versi più pericolosa della precedente, voluta soprattutto da Washington per spezzare i rapporti Russia-Ue dannosi per gli interessi statunitensi.

Mentre gli Usa quadruplicano i finanziamenti per accrescere le loro forze militari in Europa, viene deciso di rafforzare la presenza militare «avanzata» della Nato nell’Europa orientale. La Nato – dopo aver inglobato tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre della ex Jugoslavia e tre della ex Urss – prosegue la sua espansione a Est, preparando l’ingresso di Georgia e Ucraina (questa di fatto già nella Nato), spostando basi e forze, anche nucleari, sempre più a ridosso della Russia.

Tale strategia rappresenta anche una crescente minaccia per la democrazia in Europa. L’Ucraina, dove le formazioni neonaziste sono state usate dalla Nato nel putsch di piazza Maidan, è divenuta il centro di reclutamento di neonazisti da tutta Europa, i quali, una volta addestrati da istruttori Usa della 173a divisione aviotrasportata trasferiti qui da Vicenza, vengono fatti rientrare nei loro paesi con il «lasciapassare» del passaporto ucraino. Si creano in tal modo le basi di una organizzazione paramilitare segreta tipo «Gladio».

Usa e Nato preparano altre operazioni sul fronte meridionale, strettamente connesso a quello orientale. Dopo aver finto per anni di combattere l’Isis e altri gruppi, rifornendoli segretamente di armi attraverso la Turchia, gli Usa e alleati chiedono ora un cessate il fuoco per «ragioni umanitarie». Ciò perché le forze governative siriane, sostenute dalla Russia, stanno liberando crescenti parti del territorio occupate da Isis e altre formazioni, che arretrano anche in Iraq.

Allo stesso tempo la Nato rafforza il sostegno militare alla Turchia, che con l’Arabia Saudita mira a occupare una fascia di territorio siriano nella zona di confine. A tale scopo la Nato, con la motivazione ufficiale di controllare il flusso di profughi (frutto delle guerre Usa/Nato), dispiega nell’Egeo le navi da guerra del Secondo gruppo navale permanente, che ha appena concluso una serie di operazioni con la marina turca. Per lo stesso scopo, vengono inviati anche aerei radar Awacs, centri di comando volanti per la gestione del campo di battaglia.


Nello stesso quadro strategico rientra l’operazione, formalmente «a guida italiana», che la coalizione a guida Usa si prepara a lanciare in Libia, per occupare le zone costiere economicamente e strategicamente più importanti, con la motivazione ufficiale di liberarle dai terroristi dell’Isis. Si prepara così un’altra guerra Usa/Nato, dopo Iraq 1991, Jugoslavia 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Siria dal 2013, accompagnate dalla formazione dell’Isis e altri gruppi terroristi funzionali alla stessa strategia.

Tale operazione è stata concordata dagli Stati uniti non con l’Unione europea, inesistente su questo piano come soggetto unitario, ma singolarmente con le maggiori potenze europee, soprattutto Francia, Gran Bretagna e Germania. Potenze che, in concorrenza tra loro e con gli Usa, si uniscono quando entrano in gioco gli interessi fondamentali.

Oggi 22 dei 28 paesi della Ue, con oltre il 90% della popolazione dell’Unione, fanno parte della Nato, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva». Sempre sotto comando Usa: il Comandante supremo alleato in Europa è nominato dal Presidente degli Stati uniti e sono in mano agli Usa tutti gli altri comandi chiave della Nato.

Va ricordato a tale proposito l’orientamento strategico enunciato da Washington al momento dello scioglimento del Patto di Varsavia e della disgregazione dell’Urss: «Gli Stati uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un'influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana. Fondamentale è preservare la Nato quale canale della influenza e partecipazione statunitensi negli affari europei, impedendo la creazione di dispositivi unicamente europei che minerebbero la struttura di comando dell'Alleanza».

Non si può pensare di costruire una Europa diversa, senza liberarci dal dominio e dall’influenza che gli Usa esercitano sull’Europa direttamente e tramite la Nato.

Anche perché l’avanzata Usa/Nato ad Est e a Sud già coinvolge la regione Asia/Pacifico, mirando alla Cina, riavvicinatasi alla Russia. È il tentativo estremo degli Stati uniti e delle altre potenze occidentali di mantenere la supremazia economica, politica e militare, in un mondo nel quale l’1% più ricco della popolazione possiede oltre la metà della ricchezza globale, ma nel quale emergono nuovi soggetti sociali e statuali che premono per un nuovo ordine economico mondiale.

Questa strategia aggressiva ha provocato un forte aumento della spesa militare mondiale, trainata da quella Usa, che è risalita in termini reali ai livelli della guerra fredda: circa 5 miliardi di dollari al giorno. La spesa militare italiana, al 12° posto mondiale, ammonta a circa 85 milioni al giorno. Un enorme spreco di risorse, sottratte ai bisogni vitali dell’umanità.

In tale quadro, particolarmente grave è la posizione dell’Italia che, imprigionata nella rete di basi Usa e di basi Nato sempre sotto comando Usa, è stata trasformata in ponte di lancio delle guerre Usa/Nato sui fronti orientale e meridionale. Per di più, violando il Trattato di non-proliferazione, l’Italia viene usata come base avanzata delle forze nucleari statunitensi in Europa, che stanno per essere potenziate con lo schieramento delle bombe B61-12 per il first strike nucleare.
Per uscire da questa spirale di guerra dagli esiti catastrofici, è fondamentale costruire un vasto e forte movimento per l’uscita dell’Italia dalla Nato, per un’Italia libera dalla presenza delle basi militari statunitensi e di ogni altra base straniera, per un’Italia sovrana e neutrale, per una politica estera basata sull’Articolo 11 della Costituzione, per una nuova Europa indipendente che contribuisca a relazioni internazionali improntate alla pace, al rispetto reciproco, alla giustizia economica e sociale.

Roma, 20 febbraio 2016

Vedi Campagna per l'uscita dell'Italia dalla NATO per un’Italia neutrale
https://www.change.org/p/la-pace-ha-bisogno-di-te-sostieni-la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale

domenica 21 febbraio 2016

COLPITO DA IGNOTI OSPEDALE INVISIBILE

Siria. Colpito da ignoti l’ospedale invisibile che non era di Msf…

by - · 19 febbraio 2016

Nella tragedia assoluta che da anni colpisce la Siria, occorre molta attenzione da parte degli operatori umanitari i quali rischiano di essere strumentalizzati da chi fomenta il conflitto, con il risultato di ulteriori deflagrazioni. Un caso emblematico è qui descritto.

Prima tappa. Urlo mondiale: «La Russia bombarda deliberatamente un ospedale di Msf». Il 15 febbraio da Gaziantep, Turchia, un comunicato dell’organizzazione medica internazionale Médecins sans frontières (MSf) denuncia un fatto odioso: la distruzione, in due attacchi che fanno molti morti, di un ospedale «sostenuto da Msf» (Msf-supported) nella provincia di Idlib, a Ma’arat al Numan.

Il capo missione Msf dice che «sembra trattarsi di un attacco deliberato a una struttura medica». Msf in quel momento non indica una responsabilità precisa. Ma siccome l’Osservatorio siriano per i diritti umani (dell’opposizione) accusa gli aerei russi, la notizia in mondovisione diventa: «La Russia bombarda deliberatamente un ospedale di Msf». In una situazione tragica, notizie come queste sono quel che Turchia e sauditi aspettano per entrare definitivamente nel paese e aiutare una guerra senza fine.

Seconda tappa. Richiesta di chiarimento a Msf: Sulla base del comunicato di Msf, dell’assenza di riflessioni critiche da parte dei media e del fatto che l’organizzazione medica non è presente in Siria né con proprie strutture né con proprio personale, bensì opera a sostegno di strutture locali e solo nelle zone controllate militarmente dall’opposizione (il governo non ha dato il permesso di aprire strutture nelle aree che controlla, così diceva un comunicato di tempo fa), il 16 mattina mandiamo alla struttura alcune domande. Intanto Russia e Siria negano recisamente ogni responsabilità e additano la mancanza di prove in merito. Domande:

La struttura di Ma’arat non era un ospedale di Msf ma solo sostenuto da Msf. Chi la gestiva?
Perché l’ospedale non era segnalato e le sue coordinate non sono state comunicate alle parti in lotta, come era avvenuto invece per l’ospedale direttamente gestito da Msf di Kunduz in Afghanistan?
Chi accusa gli aerei russi? E su quali basi e prove?
Prima della guerra, l’edificio era già un ospedale?
Sulla base di quali elementi Msf parla di «attacco deliberato a una struttura medica» (crimine di guerra) visto che l’ospedale non era segnalato?
Come mai Msf dice che adesso 40mila persone sono senza ospedali? Non ci sono ospedali governativi nell’area?
Quanto all’ospedale materno-infantile colpito ad Azaz, sempre indicato nel vostro comunicato, poiché Msf dichiara che non si tratta di una struttura che sostiene, qual è la fonte della notizia?

Terza tappa. Msf dichiara da Ginevra : Per giorni e giorni, Msf non riesce a rispondere malgrado i solleciti (è la sede entrale a Ginevra a rispondere a questo genere di domande). Ma ecco che il 17 febbraio la direttrice delle operazioni di Msf Francia Isabelle Defourny e la presidente di Msf Johanne Liu in conferenza stampa a Ginevra rilasciano dichiarazioni che in pratica rispondono a buona parte dei nostri dubbi.

Ecco dunque le dichiarazioni che dà Msf. Si possono leggere in inglese qui: e qui tanto per citare due fonti molto diverse).

L’ospedale era nascosto, nient’affatto segnalato. Msf ha deciso di non segnalare in nessun modo a Russia e Siria le coordinate delle strutture mediche nelle aree controllate dall’opposizione e sostenute e finanziate da Msf (senza la presenza di personale Msf). Solo tre strutture in zone di intensi combattimenti sono segnalate agli ambasciatori russi a Ginevra e Parigi. Le altre no. Perché questa stranezza? Perché non segnalare in tutti i modi un ospedale, struttura protetta dalle Convenzioni di Ginevra? Risposta: perché non lo vogliono gli staff e la dirigenza delle strutture siriane sostenute da Msf nelle aree controllate dall'opposizione. Paura di essere colpiti. In un appello diffuso il 18 febbraio, Msf chiede ai membri del Consiglio di sicurezza «e in particolare a Francia, Russia, Regno unito e Stati uniti che sono parte attiva nel conflitto», di impegnarsi per fermare il massacro e per la protezione dei civili evitando i combattimenti in aree civili. Nel rapporto che accompagna l’appello e che è stato redatto sulla base dei dati «raccolti in 70 fra gli ospedali e strutture sanitarie supportate dall’organizzazione in Siria nordoccidentale, occidentale e centrale», Msf «denuncia che 63 ospedali e strutture sanitarie supportate da MSF sono state attaccate o bombardate in 94 diverse occasioni nel solo 2015; e nel 2016 ben 17, di cui sei supportate da Msf». Ma appunto: queste strutture, per ammissione di Msf, non erano segnalate come ospedali. Comunque, dopo il fatto degli ultimi giorni, sostiene che si aspetta che suoi affiliati siriani si coordinino con il governo siriano.

«Attacco deliberato a una struttura medica», quando questa non era in alcun modo riconoscibile come tale? Davanti a questa contraddizione, Msf (non) precisa: «The attack can only be considered deliberate». Se l’inglese ci assiste, vuol dire: «l’attacco non può che essere considerato deliberato». Ma anche se la frase fosse solo possibilista, la contraddizione rimarrebbe.

Quali i colpevoli e con quali prove e chi lo dice? Joanne Liu, presidente internazionale di Msf, dichiara: «L’attacco è stato probabilmente portato dalla coalizione guidata dal governo siriano, la più attiva nella regione», cioè dall’esercito siriano o dagli aerei russi. Probabilmente? Quali le prove dunque? «Parliamo di probabilità perché come unici fatti abbiamo le percezioni dello staff locale. I sopravvissuti ritengono che l’attacco sia stato condotto dalla coalizione guidata dal governo». E anche «raccogliere prove richiede tempo». Ma insomma: possono forse dichiarare qualcosa di diverso gli operatori di un ospedale dell’opposizione che ha preferito non segnalarsi come struttura medica? (Va detto che anche il Pentagono non ha fornito prove sulle responsabilità dell’attacco imputato ai russi o ai siriani, ad aerei o a missili, affermando che «il punto non è chiaro»).

Rimane inevasa la domanda sulla presenza o meno nelle aree controllate dall’opposizione, di ospedali governativi e statali, ovviamente prima esistenti. Approfondiremo in altra sede. Ma di certo la zona di Idlib è sotto il controllo di una coalizione ombrello di gruppi islamisti, Jaish Al Fatah (Esercito della conquista), in un rapporto a geometria variabile con altre formazioni salafite o qaediste come al Nusra. E secondo precedenti denunce governative (tanto per citare anche l'altra parte), questi armati hanno via via occupato o distrutto i centri medici del governatorato, compreso il famoso ospedale Jisr al Shugur.

Rimane la domanda sull’ospedale di Azaz. Ma non può essere Msf ad avere informazioni, che non sosteneva la struttura e non è presente in Siria con propri operatori. In quel caso le accuse agli aerei russi vengono dal governo turco e dall’opposizione siriana, in particolare i White Helmts ovvero Elmetti bianchi. Ma chi sono gli Elmetti bianchi, o Syrian Civil Defense, “organizzazione di volontari per il soccorso”? Non proprio una fonte imparziale e nemmeno immacolata. Alcuni loro membri, che a differenza dell’ospedale di Idlib sono ben identificabili (elmetto bianco e simbolo sulla divisa) sono stati coinvolti in esecuzioni sommarie che lo stesso organismo non nega pur condannando l’accaduto. Come dichiara il loro fondatore, l’ex ufficiale britannico James Le Mesurier alla tivù amica Al Jazeera del Qatar, gli Elmetti sono stati formati in Turchia (dove l’inglese lavorava, non si sa a che cosa) a partire dal 2013, con finanziamenti di Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna.Mark Ward, che al Dipartimento guida l’assistenza Usa alla Siria, spiega che «niente tiene insieme una comunità meglio degli sforzi di soccorrere le vittime».

Peccato che proprio Usa, Turchia e alleati abbiano fatto di tutto per trasformare la Siria in un cimitero.

Marinella Correggia


- See more at: http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=3146#sthash.vPmFBjF5.dpuf

sabato 20 febbraio 2016



1

Le vittime ebree del sionismo
Ella Shohat
introduzione di Vera Pegna
a cura di Cinzia Nachira
Edizioni Q


Non ci sono molte pubblicazioni né informazioni sul ruolo e sulla storia degli ebrei arabi emigrati in Israele quindi questo libro, assieme al precedente «Ebrei arabi: terzo incomodo?» a cura di Susanna Senigaglia, contribuisce a colmare un vuoto fornendo informazioni preziose per comprendere la dinamica delle contraddizioni interne allo stato israeliano e per smascherare la falsità della narrazione ufficiale. Gli ebrei arabi, o mizrachi, sono la maggioranza della popolazione israeliana, specialmente se ci si aggiunge il 20 per cento dei palestinesi del '48, è perciò abbastanza sconcertante che la storia della loro immigrazione, così significativa ai fini della comprensione della natura dello stato israeliano fin dall'inizio, sia stata trascurata, anche dagli stessi nuovi storici che pure gettarono luce sulla pulizia etnica della Palestina e su altre nefandezze. Ma qual'è il racconto ufficiale dello stato israeliano rispetto a questo argomento ce lo spiega molto bene Ella Shohat, secondo tale racconto gli ebrei arabi avrebbero sofferto nei loro paesi d'origine discriminazione e abusi e sarebbero poi stati salvati e redenti dallo stato sionista che li avrebbe sollevati dalla loro condizione primitiva di semi-selvaggi accogliendoli nel suo seno secondo il progetto di «riunificazione degli esiliati dai quattro angoli del mondo» portandoli dalla condizione premoderna alla modernità, dall'oscurantismo e arretratezza dei loro paesi levantini ad una società democratica e rispettosa dei diritti civili. Dal saggio di Ella Shohat apprendiamo che questa costruzione è falsa dall'inizio alla fine, la Shohat la smonta pezzo per pezzo, ma già Vera Pegna nel saggio introduttivo, ricordando la propria esperienza di vita in Egitto, ci informa che «da sempre gli arabi di religione ebraica si sono confusi naturalmente tra la popolazione circostante e non si sono mai considerati -né altri li hanno considerati- un popolo a se, distinto dagli altri arabi fossero essi musulmani, cristiani o seguaci di altre religioni e sette presenti nei paesi arabi». Se ne deduce che non si sono verificate discriminazioni o pogrom e che gli ebrei arabi hanno vissuto in pace nei loro paesi fino a che non è giunto il sionismo a sconvolgere le loro vite e tutta la regione. Se problemi ci sono stati infatti essi sono stati creati dal sionismo e dalla fondazione dello stato sionista. Sia il saggio di Vera Pegna che quello di Ella S. ci informano che le immigrazioni degli ebrei levantini non sono avvenute per l'ardente desiderio della «terra promessa» ma a suon di bombe e altre numerose intimidazioni. «Di fronte alla scarsa adesione al progetto sionista dimostrata dagli ebrei egiziani il mossad decise di passare alle maniere forti prima diffondendo voci di pericolo per chi si rifiutasse di partire e poi compiendo, nei confronti degli ebrei, atti ostili da attribuire alle autorità egiziane» (Vera Pegna). Bombe furono piazzate nella sinagoga di Bagdad, ad Alessandria la bomba scoppiò in tasca all'agente del mossad prima che la collocasse in un cinema. Ogni volta che c'era un calo nelle liste di attesa di coloro che decidevano di partire avveniva una nuova esplosione a terrorizzare queste comunità spingendole a partire.
Gli ebrei arabi non dimostravano interesse per lo stato sionista, il sionismo del resto prima della Shoah e della fondazione di Israele era un movimento di minoranza che lasciava indifferente la maggior parte degli ebrei e da altri era fieramente contrastato. ( L'unione generale dei lavoratori ebrei di Russia, Polonia e Lituania -BUND- osteggiava il sionismo ritenendo che l'emancipazione e la dignità del popolo ebraico sarebbero state ottenute con il socialismo e l'internazionalismo perciò era contrario alla fondazione di uno stato ebraico). Per quanto riguarda poi la decantata modernità «questa visione elude la realtà dei processi storici tacendo una serie di verità, gli ashkenaziti come i sefarditi , provenivano da paesi che erano ai margini del capitalismo mondiale de avevano iniziato la loro industrializzazione come il loro sviluppo tecnologico e scientifico quasi contemporaneamente» (E. S.) Ma i
sionisti che avevano voluto fondare uno stato di stampo occidentale nel cuore del Medio Oriente erano ebrei europei (ashkenaziti) e come nella migliore tradizione colonialista e orientalista nutrivano profondo disprezzo per i popoli orientali. Gli ebrei arabi non furono accolti come uguali ma fatti oggetto di ogni possibile sopruso e violenza dal rapimento dei loro bambini alla sterilizzazione forzata delle donne, all'esposizione di migliaia di bambini a radiazioni che provocarono tumori e altre malattie gravi, alle condizioni di estrema povertà a cui furono costrette, nelle baracche dei campi di transito, intere famiglie per anni, dopo aver lasciato i loro beni nei paesi d'origine secondo gli accordi dei sionisti con gli stati arabi.
Ai sionisti era indispensabile l'immigrazione della massa degli ebrei arabi sia perché l'immigrazione dall'Europa si andava esaurendo, sia perché necessitava mano d'opera a basso costo e questi ebrei percepiti come «lavoratori naturali» potevano a un tempo sostituire i lavoratori palestinesi o entrare in concorrenza con loro, e mantenere l'obiettivo del «lavoro ebraico» uno dei miti del sionismo.
Nel suo impeto di occidentalizzare la società israeliana l'establishment ashkenazita era fortemente preoccupata dalla propria contraddizione interna: gli ebrei orientali e temeva che questi avrebbero potuto orientalizzare la società per cui li integrarono ai livelli più bassi della società dove il loro impatto sarebbe stato ininfluente. Essi furono insediati nelle zone periferiche e di frontiera e utilizzati nel controllo delle popolazioni native e delle loro terre.
Ai mizrachi fu chiesto di scegliere tra l'essere arabi o ebrei, di convincersi che la loro storia e cultura non aveva radici nei paesi orientali da dove provenivano ma negli shtetl della Lituania, di convincersi che erano parte della generale persecuzione che in ogni paese e in ogni epoca avevano subito gli ebrei, che nei loro paesi c'erano stati i pogrom come in Russia e infine di trasformarsi nel modello sionista del nuovo ebreo, che entrava gloriosamente di nuovo nella storia dopo secoli di persecuzioni e di esilio. Questa universalizzazione del vittimismo ebraico giustificava il progetto nazionalista e coloniale dei sionisti e a un tempo lo sradicamento di popolazioni dai loro paesi e dalle loro storie e culture. Storie e culture che dovevano essere cancellate per unificarsi alla narrazione ufficiale. Nell'ultima parte del libro, nel corso dell'intervista, Ella S. scrive: «...la separazione operata da Euro-Israele della parte ebraica da quella mediorientale si è tradotta nello smantellamento delle comunità ebraiche del mondo islamico come anche in forti pressioni sugli ebrei orientali affinché adeguassero la loro identità ebraica ai paradigmi sionisti...gli ebrei dell'Islam hanno dovuto far fronte per la prima volta nella loro storia al dilemma a loro imposto: la scelta tra arabicità e ebraicità all'interno di un contesto geopolitico che ha riprodotto, da un lato, l'equazione arabicità-mediorientalità-Islam e dall'altro lato quella di ebraicità-europeità-occidentalità. Un altro aspetto determinante del racconto...la «nazione ebraica» combatteva un comune nemico storico» -l'arabo musulmano- sviluppando una duplice amnesia relativamente alla storia giudeo-islamica e alla spartizione coloniale della Palestina. Le false analogie tra arabi e nazisti sono diventate non solo un punto fisso della retorica sionista ma anche un sintomo dell'incubo ebraico-europeo proiettato sulle dinamiche politiche, strutturalmente distinte, del conflitto israelo-palestinese» e conclude « nel contesto dei massacri e delle privazioni inflitte al popolo palestinese la sovrapposizione della figura dell'arabo musulmano a quella dell'europeo oppressore degli ebrei mette la sordina alla storia degli insediamenti coloniali dello stesso Euro-Israele».
Sotto un'incredibile pressione, impossibilitati a tornare indietro nei loro paesi, impoveriti e discriminati molti mizrachi hanno finito per interiorizzare l'immagine che la retorica sionista aveva di loro, giungendo a un disprezzo di se che proiettavano a loro volta sui palestinesi. Questo si è tradotto in un desiderio di assimilazione e a integrarsi con la cultura dominante, senso di inferiorità, e una forte spinta a migliorare il basso livello socio-economico. «Anche quando ufficialmente celebrano la loro eredità araba e medio orientale , lo fanno rifiutando «l'arabo". Così l'ideologia orientalista del «noi" contro «loro" è stata talvolta adottata dagli stessi ebrei orientali soprattutto con lo spegnersi, generazione dopo generazione ,della
memoria del sincretismo storico e culturale giudeo-islamico." (E. S.) Questo risultato può senz'altro essere definito una vittoria del sionismo. Non solo il sionismo ha fondato uno stato che ha inventato un popolo, ma ha anche costruito una mitologia e una storia, funzionale ai suoi fini politici, che doveva essere la storia di ogni ebreo,distruggendo «la consapevolezza di poter essere ebrei secondo forme molteplici di appartenenza.». Ma esiste anche un'altra faccia della realtà sefardita, molti ebrei orientali hanno resistito e lottato, come le «Pantere nere» degli anni '70 i quali pensavano di essere un «intermediario naturale» per la pace e lanciarono un appello per un «vero» dialogo con i palestinesi, o i giovani mizrachi che nel corso della primavera araba firmarono una lettera aperta ai fratelli arabi: «noi crediamo che in quanto ebrei mizrachi israeliani la nostra lotta per avere diritti economici, sociali e culturali debba basarsi sull'idea che un cambiamento politico ...può solo venire da un dialogo intraregionale e interreligioso che si riconnetta alle diverse lotte e ai movimenti attualmente attivi nel mondo arabo. Nello specifico, dobbiamo dialogare ed essere solidali con le lotte dei cittadini palestinesi di Israele che combattono per uguali diritti economici e politici e per l'abolizione delle leggi razziste, e con la lotta del popolo palestinese che vive sotto l'occupazione israeliana , nella West Bank e a Gaza, quando chiede la fine dell'occupazione stessa e l'indipendenza nazionale palestinese». «Benché sia stata cancellata e oscurata la resistenza sefardita continua ad evolversi rinnovando i modelli organizzativi» scrive E. S. «Gli sforzi che mirano a seminare discordia tra ebrei orientali e palestinesi non sono riusciti nell'intento di dissuadere i primi dal difendere un'equa soluzione per i palestinesi. In Israele e all'estero numerosi sefarditi non chiedono di meglio che di poter fungere da mediatori per la pace con gli arabi e con i palestinesi ma l'establishment ha sempre compromesso i loro sforzi in questo senso.»
La ragione per cui la storia dei mizrachi è così poco conosciuta non è misteriosa: Israele doveva occultare le sue azioni più crudeli per non offuscare l'immagine che si sforza di dare di sé e per tacitare le voci critiche, il lavoro costante della propaganda sionista tenta di arginare un rischio potenziale «Una minaccia si aggira sul sionismo: tutte le sue vittime -i palestinesi, i sefarditi, (così come gli ashkenaziti dissidenti etichettati come degli eterni insoddisfatti che rimuginano sul loro odio di sé) potrebbero cogliere gli elementi che accomunano la violenza che li opprime. L'establishment sionista di Israele ha fatto di tutto per allontanare questa minaccia: ha fomentato guerre e ha costruito un vero culto della sicurezza nazionale, ha dato della resistenza palestinese l'immagine semplicistica del terrorismo, ha creato le condizioni della discordia tra sefarditi e palestinesi attraverso il sistema educativo e i mass media ha incitato i sefarditi a odiare gli arabi e a rifiutare la propria cultura ha represso o cooptato tutti quegli elementi che potevano favorire un'alleanza progressista tra palestinesi e ebrei orientali.»
Noi confidiamo nel fatto che molto presto questa consapevolezza possa risultare chiara e far crollare l'immane muro di menzogne del sionismo, e per concludere con le parole di E. S. « la pace non è possibile senza il rispetto per «l'Oriente" in tutte le sue componenti dagli ebrei orientali ai palestinesi e ai vicini arabi musulmani. Superando l'inerzia di un immaginario paralizzato Israele dovrebbe smettere di essere uno stato canaglia e diventare lo stato di tutti i suoi cittadini.»
Miriam Marino