giovedì 31 dicembre 2009

mANIFESTAZIONE DAVANTI AL MUSEO EGIZIO AL CAIRO

ATTACCATA LA GAZA FREEDOM MARCH

la polizia attacca una marcia a sostegno dei palestinesi
Gaza Freedom March, feriti due attivisti italiani
Un uomo e una donna sono stati pestati dai poliziotti egiziani. Arabi e pacifisti israeliani si stanno radunando al confine di Erez

La situazione per gli attivisti internazionali, che hanno organizzato una carovana in occasione del primo anniversario dell'operazione israeliana Piombo fuso contro Hamas a Gaza, diventa sempre più difficile. Una manifestazione a sostegno dei palestinesi a Cairo è stata attaccata dalla polizia che ha ferito due dimostranti italiani. Mentre centinaia di arabi e pacifisti israeliani si stanno radunando al confine di Erez, è stata convocata alle 16 una manifestazione di protesta per ciò che è successo davanti alla ambasciata egiziana a Roma.

Articoli Collegati

* Gaza Freedom March, attivisti bloccati dalle autorità egiziane

Oggi al Cairo, dopo il rifiuto delle autorità egiziane di concedere il permesso per recarsi a Gaza, si è tenuta un manifestazione i sostegno dei palestinesi davanti il museo egizio, la polizia è intervenuta pestando i dimostranti. Un uomo e una donna italiani sono rimasti feriti. Ora l’ambasciata d’Italia al Cairo, ha spiega il ministero degli Esteri, «segue attentamente la vicenda» insieme all’unità di crisi.

La testimonianza di ciò che è successo è fornita dal Forum Palestina. «La polizia ci ha prima diviso in due gruppi e poi ci ha violentemente riunito tutti in un unico gruppo – ha raccontato un'attivista. Agenti in tenuta anti-sommossa hanno trascinato i pacifisti con violenza. Ho visto donne trascinate per i capelli, hanno dato pugni e calci e spaccate le telecamere. Ci sono alcuni feriti, ho visto volti sanguinanti».

Mentre centinaia di arabi e pacifisti israeliani si stanno radunando al confine di Erez, è stata convocata alle 16 una manifestazione di protesta per ciò che è successo davanti alla ambasciata egiziana a Roma.
(ami)2009-12-31 13:34:23

mercoledì 30 dicembre 2009

MO: GAZA; EGITTO FERMA AL CAIRO MARCIA PACIFISTA/ANSA MILITANTI BLOCCATI E PRIVATI DEI BUS; TRA LORO 140 ITALIANI ROMA (Di Michee Esposito) (ANSA)

(Di Michele Esposito) (ANSA) - ROMA - Bloccati al Cairo, privati dei loro autobus, fermati con durezza dai servizi di sicurezza egiziani: la marcia verso Gaza di 1400 pacifisti provenienti da tutto il mondo si è interrotta in Egitto. Il governo del Cairo oggi ha infatti impedito ai militanti - tra cui figurano 140 italiani - di recarsi alla città di Al-Arish, porta d'accesso per la Striscia di Gaza, dove, a un anno dall'operazione militare israeliana 'Piombo Fuso', le più importanti Ong internazionali hanno organizzato la 'Freedom March'. Per le autorità egiziane, il gruppo di pacifisti - provenienti da 43 Paesi - non ha "i requisiti necessari" per recarsi al confine con la Striscia di Gaza e mettere in atto la marcia per la libertà. E senza le documentazioni richieste, secondo quanto ha riferito all'ANSA l'ambasciata italiana al Cairo, "l'Egitto ritiene illegale qualsiasi manifestazione". Da qui, lo stop agli attivisti giunti nei giorni scorsi al Cairo, da dove poi sarebbero partiti per la Palestina. Questa mattina, infatti, gli autobus che avrebbero dovuto portare i manifestanti al valico di Rafah sono stati sequestrati. "Alcuni autobus non sono neppure arrivati. Le forze dell'ordine prima ci hanno impedito di lasciare l'albergo. Poi ci hanno lasciato andare, comunicandoci però che non possiamo lasciare la città ", ha raccontato all'ANSA Mila Pernice, delegata del Forum Palestina, una delle due Ong italiane - l'altra è Action for Peace - che ha preso parte all'iniziativa. "E' una chiusura inspiegabile", ha spiegato la Pernice, ricordando che qualche settimana fa le autorità egiziane avevano accordato ai manifestanti il permesso di transitare per Al-Arish, indicando nel 28 dicembre e nel 2 gennaio le date di entrata e di uscita da Gaza. "Noi non vogliamo manifestare in Egitto, siamo venuti qui solo per recarci in Palestina", ha precisato la militante. Davanti al 'no' dell'Egitto i pacifisti però non si sono arresi. Alcuni di loro - tra cui 70 italiani - si sono recati, a piedi, guardati a vista dalla polizia, alle ambasciate dei rispettivi Paesi di appartenenza per chiedere di negoziare con il governo del Cairo. Altri hanno protestato davanti alla sede dell'Onu nella capitale egiziana: "Eravamo in centinaia, ci sono stati dei momenti di tensione con le forze dell'ordine", ha raccontato la Pernice. Una delle militanti, Hedy Epstien, 85enne ebrea sopravvissuta all'Olocausto, ha invece cominciato uno sciopero della fame per contestare la posizione egiziana. E' andata peggio a chi è riuscito a raggiungere la frontiera: lì, ieri, sono stati arrestati 38 attivisti internazionali. Tra di loro non c'é nessun italiano. L'ambasciata d'Italia al Cairo ha provveduto a fornire una sistemazione per la notte agli italiani coinvolti. Informandoli del "fermo atteggiamento delle autorità egiziane". Che, in verità, avevano già fatto sapere che avrebbero vietato la manifestazione. A complicare le cose c'é anche il fatto che gli attivisti sbarcati nella capitale sono forniti di visto turistico, mentre, secondo le autorità locali, non si stanno limitando alle attività turistiche. "Se i manifestanti non rispetteranno le regole imposte dall'Egitto rischiano l'arresto", ha puntualizzato l'ambasciata italiana. (ANSA).

Alla faccia del governo democratico di Obama, Bush avrebvbe fatto lo stesso

L’AMBASCIATA AMERICANA AL CAIRO RIFIUTA DI RILASCIARE CITTADINI AMERICANI SOSTENITORI DELLA GAZA FREEDOM MARCH



29 dicembre 2009, Il Cairo, Egitto: Oggi al Cairo alcuni sostenitori della Gaza Freedom March, tra cui un gruppo di circa 30 cittadini statunitensi, sono stati trattenuti in tre separate aree di isolamento all’interno dell’Ambasciata americana, nel complesso di Garden City.



In un’intervista telefonica con Aishah Schwartz, direttore del Muslimah Writers Alliance, Marina Barakau – una delle organizzatrici della Gaza Freedom March - ha dichiarato che “i cittadini americani e 1.400 sostenitori della Gaza Freedom March arrivati da oltre 43 paesi del mondo, stanno chiedendo che l’assedio illegale di Gaza venga rimosso”.



“Ci chiediamo anche come sia possibile che un presunto governo democratico possa partecipare di volentieri alla detenzione dei suoi cittadini presso le proprie ambasciate, e inoltre chiediamo che tutti i dovuti sforzi siano esercitati per assicurare il nostro immediato rilascio”, ha aggiunto Barakau.

Barakau ha inoltre dichiarato di aver contattato il coordinatore del gruppo legale, Sally Newman.

Nello stesso momento, tre membri del gruppo americano che è stato trattenuto hanno avuto un incontro con un funzionario negli uffici dell’Ambasciata.



Per contatti:

Marina Barakau

Tel: +20 197412890

lunedì 28 dicembre 2009

Le forze di sicurezza egiziane trattengono partecipanti alla Gaza Freedom March a el-Arish e bloccano le commemorazioni al Cairo

Oggetto: Le forze di sicurezza egiziane trattengono cittadini internazionali a el-Arish e bloccano le commemorazioni per Gaza al Cairo.

Quando: Nel pomeriggio di domenica 27 dicembre, le forze di sicurezza egiziane hanno trattenuto un gruppo di 30 internazionali nei loro hotel a el Arish, e un altro gruppo di 8 internazionali alla stazione dei pullman. Le forze di polizia hanno anche interrotto le commemorazioni del massacro “Piombo Fuso” presso il ponte Kasr al Nil.

Nel pomeriggio del 27 dicembre, le forze di sicurezza egiziane hanno trattenuto un gruppo di 30 attivisti nei loro hotel di el Arish mentre si stavano preparando a partire per Gaza, mettendoli agli arresti domiciliari. I delegati – tutti partecipanti della Gaza Freedom March, composta da 1.300 persone – erano cittadini spagnoli, francesi, inglesi, statunitensi e giapponesi. Le forze di sicurezza egiziane hanno poi finalmente ceduto, permettendo alla maggior parte dei manifestanti di lasciare gli alberghi, ma senza consentire loro di lasciare la città. Quando due giovani delegati – un francese e una donna giapponese – hanno tentato di lasciare el Arish, le autorità egiziane hanno fermato i loro taxi facendogli scaricare i bagagli.

Un altro gruppo composto da otto persone, di cui facevano parte statunitensi, inglesi, spagnoli, giapponesi e greci, sono stati trattenuti invece alla stazione dei pullman di el Arish nel pomeriggio del 27 dicembre. Alle 15.30 circa non erano ancora stati rilasciati.

Contemporaneamente, la polizia egiziana ha interrotto la commemorazione dell’invasione israeliana “Piombo Fuso” di Gaza organizzata dai partecipanti alla Gaza Freedom March presso il ponte di Kasr al Nil, uno dei principali collegamenti tra la Zamalek Island, al centro del fiume Nilo, e la città del Cairo. Come forma di dimostrazione nonviolenta in memoria degli oltre 1.300 palestinesi uccisi durante l’attacco israeliano di Gaza – iniziato un anno fa, il 27 dicembre del 2008 – i partecipanti della Gaza Freedom March hanno legato insieme centinaia di biglietti con pensieri, poesie, disegni, e i nomi delle vittime.

“Siamo amareggiati dal fatto che le autorità egiziane abbiano ostacolato la libertà di movimento dei partecipanti e abbiano interferito con la commemorazione pacifica delle vittime del massacro” ha detto Medea Benjamin di CODEPINK, una delle organizzatrici della Marcia.

Benjamin ha aggiunto che i partecipanti alla Gaza Freedom March stanno continuando a sollecitare il governo egiziano perché consenta loro di raggiungere Gaza. I manifestanti si sono recati presso la Lega Araba, chiedendo supporto, presso diverse ambasciate straniere e il Palazzo Presidenziale, per portare un appello rivolto al presidente Mubarak. Hanno inoltre rivolto un appello a tutti i loro sostenitori nel mondo perché contattassero le ambasciate egiziane sollecitandole a lasciare liberi i manifestanti, consentendo loro di arrivare a Gaza.

Manda la tua email all'Ambasciata Egiziana:

http://www.actionforpeace.org/index.php/apriconfine.html

sabato 26 dicembre 2009

Presentazione di Patrizia Cecconi del mio libro "Gabbie" alla MLRP

PRESENTAZIONE DI “GABBIE”. Sabato 19 dicembre 2009. Sede AAMLRP.
E’ sempre con piacere che accolgo l’invito a presentare un lavoro di Miryam Marino, e in questo caso ancor di più per le caratteristiche di questo suo libro.
In questa sede siamo tutti amici del popolo palestinese e questo è un vero conforto e rende particolarmente piacevoli questi momenti. Sono contenta di sedere a fianco di Fabio Amato (che come responsabile esteri del PRC non si è mai dimenticato dei diritti del popolo palestinese e col quale condivido - e condividiamo sicuramente tutti - quella parte del testamento ideale del Che che ci ricorda di sentirci direttamente colpiti da ogni ingiustizia, in qualunque parte del mondo si verifichi).
Sono contenta di sedere accanto ai compagni del Forum Palestina, che svolgono un lavoro straordinario di solidarietà politica forte, affiancata “alla” solidarietà umana, come solo i compagni più autentici sanno fare.
Yousef Salman non ha certo bisogno di presentazioni trattandosi in qualche modo del padrone di casa e dello spirito animatore di ogni iniziativa della Mezza Luna Rossa nel nostro Paese.
Per chi non conoscesse Miryam, scrittrice e attivista ebrea della rete ECO, la presenterò a partire dalle sue stesse parole, parole tratte dall’introduzione di Handala.
Scrive Miryam: “..sapendo della mia militanza sia in un’associazione ebraica che in una palestinese, qualcuno mi domanda se non mi sento un po’ schizofrenica. Rispondo di no, UN ESSERE UMANO E’ COMPOSTO DA MOLTE REALTÀ....” e, ancora, “Mi chiedono spesso perché io, ebrea, mi ostini tanto ad occuparmi della Palestina: la ragione è semplice, il dolore della Palestina ricade su di me.”
Ma non solo il dolore della Palestina ricade su di lei, Miryam in “Gabbie” sa unire la parte della cultura e dell’etica ebraica che comanda: “rispetta lo straniero perché anche noi siamo stati stranieri in terra d’Egitto” col suo essere cittadina italiana, in un momento in cui la democrazia vacilla sotto il peso di leggi che troppo da vicino ricordano momenti neri e palesemente razzisti.
I versi con cui si apre il libro che presentiamo stasera, e da cui questa raccolta di racconti prende il titolo, ci mostrano l’impegno intellettuale con cui Miryam risponde al dolore dell’ingiustizia e dell’esclusione. Leggo, da Gabbie, “ ....... Gabbie/ di ferro/ gabbie di cemento./Il cielo spostato dall’incubo..... Dal mare/ si rovescia sulle coste /un’ondata di dolore (di troppe lacrime son gonfie le maree)..........Gabbie mentali/ bandiere d’odio/ l’essere svuotano da dentro....” .
Scrivere per Miryam è una necessità umana e politica oltre che un’espressione culturale, e non è MAI è un vuoto esercizio intellettuale. L’autrice è convinta che la letteratura abbia, comunque e sempre, una ricaduta nella sfera sociale, e per questo lo scrivere non può essere puro esercizio letterario.
Come nella poesia palestinese (anche la più alta) cogliamo l’eco dell’ingiustizia subita, così, nei racconti raccolti in questo libro, anche in quelli avvolti di umorismo, sentiamo la partecipazione intensa, che Miryam Marino esprime già nella sua premessa, quando scrive “E almeno potessi essere libera e non inchiodata a questo dolore. Libera...d’inventare la mia esistenza dentro la natura e la storia o in una nuvola di passaggio sopra il mare. ...ricordare che dentro di me c’è un universo, che non c’è un unico IO ma una molteplicità, un’infinità di esseri e di possibilità quante sono le stelle in cielo...” Lo stesso concetto che esprimeva nell’introduzione di Handala e che le farà ancora scrivere: “ E sono io quella donna lapidata, quell’uomo torturato, quel migrante ...che emerge dalle acque nere che hanno divorato i suoi fratelli e che fugge per i campi come un animale braccato e la polizia alle calcagna.”
Ecco perché questo volumetto (il diminutivo è riferito alla brevità e non all’intensità e allo spessore del lavoro) mi sembra particolarmente importante, perché quella molteplicità che forma l’umanità dolente viene a manifestarsi nei tanti racconti brevi che formano il libro. In esso è concentrato uno stile letterario giocato sulle contaminazioni tra il reale e il surreale, una scrittura sempre fluida, curata fino a farci sentire come uno schiaffone la fine inaspettata di Shams, affidata all’ultima riga del primo racconto, quello di una bambina inchiodata alla sua sedia a rotelle, che viaggia con la fantasia, attraverso la finestra e le parole di Shams, il cantastorie marocchino che finirà schiacciato da un’auto. O, ancora, la capacità di affidare a poche righe il dramma di Janet, la ragazza somala rapita, violentata e poi morta nel cortile di un pronto soccorso, in cui solo un allievo infermiere sembra vedere nell’immigrata una figura sofferente cui offrire almeno una sedia. In due righe l’autrice declina il paradigma del quotidiano disprezzo dei diritti umani. Leggo, da pag 73, ultimo capoverso: “...pronto soccorso? Né pronto né tardivo. Per lei non c’è mai stato soccorso.”
In alcuni racconti Miryam fa uso del periodo breve come un regista potrebbe farlo della cinepresa mobile per portarci in due sole pagine a scoprire l’ “Insolito evento” che costituisce il titolo di un altro racconto. Anche qui l’autrice mescola sapientemente reale e surreale: la notizia catturata da un soffio di vento che va a dare l’annuncio passando di casa in casa, finché una lunga, lunga fila di persone si troverà incolonnata per vedere con i propri occhi qualcosa che nella Palestina martoriata dagli occupanti sembrava non potesse più accadere: il vecchio Abu Sharif “morto di morte naturale”! E in queste due paginette l’autrice riesce a farci stare dentro al racconto, a farci vedere le case svuotate di vita dall’operato degli occupanti, mentre ci sembra di correre dietro al vento, parola per parola, nell’ansia di arrivare all’ultima riga per scoprire “l’insolito evento”.
Racconti brevi, efficaci, pennellate che compongono un quadro giocando su tante tonalità dello stesso colore. Penso, ad esempio, a Imad, lo studente di Gaza, clandestino in Cisgiordania, sì perché un palestinese di Gaza non può studiare all’università di Bir Zeit, nella sua terra, Israele lo vieta. E allora Imad vive come in una tana e ogni notte sogna di scavare, scavare... e con un’ironia amara come quella che gli ebrei nei campi di sterminio hanno affidato alle loro tremende barzellette, con la stessa amara ironia il racconto si conclude strappando un sorriso tra la pena e la rabbia.
Ecco, anche qui l’autrice sembra trarre dalle sue radici culturali di ebrea, l’energia intellettuale per denunciare il dramma della Palestina occupata e umiliata, col sostegno più o meno diretto dei governi di quella parte di mondo che si definisce “democratico”.
Insomma, ognuno dei 13 racconti che compongono il libro, porta con leggerezza di stile il pesante carico di drammatici contenuti. Dall’Italia alla Palestina all’Irak una denuncia e una richiesta non detta, ma espressa in ogni rigo, la richiesta che Miryam, senza penalizzare l’aspetto letterario, manda ai suoi lettori e alle sue lettrici: quella di sentire sulla propria pelle l’ingiustizia e il tormento dei potenti sui deboli, degli occupanti sugli occupati, degli sfruttatori sugli sfruttati.
Credo che questo libro, per le sue caratteristiche di stile e di contenuto, potrebbe essere adottato nelle scuole e diventare addirittura la base per un laboratorio di scrittura di pace, alias di scrittura di civiltà.
Concludo la mia presentazione con un’ultima breve lettura tratta dall’ultimo racconto: “Sette lettere dall’aldilà”. Quella che ho scelto viene da Falluja ed è indirizzata in modo particolare proprio a noi, a molti di noi “sensibili, ma...”.
Vado a leggere: “Questa lettera la scrivo per te, amico sconosciuto e lontano, affinché tu possa ricordare il fuoco. Non il fuoco buono che riscalda e illumina. (ma) Il fuoco che continua a bruciare...senza misericordia. .............. Per te, amica sconosciuta e lontana, che scendesti in piazza pensando a noi e mettesti una bandiera alla finestra, prima che la marea assassina ci trascinasse ad atroce morte, scrivo al mondo dei vivi. .............Il fuoco non si spegneva ....continuò a bruciare .....lentamente, implacabilmente, la coperta e poi la loro pelle, i muscoli, i nervi fino a che arrivò alle ossa........... i miei piccoli gridarono e arsero ........... Accadde questo e accadde innumerevoli volte, amico che alzasti in piazza la bandiera iridata, ma poi fosti troppo occupato con i politici di casa tua, per ricordarti di noi.”
Ecco, l’urlo che viene da Falluja, ed è lo stesso che viene da Gaza, c’interroga nel nostro essere “p o l i t i c a m e n t e umani”, e non solo “emotivamente umani”.
Quest’urlo lo facciamo nostro e lo passiamo ai nostri politici, ai “nostri” perché sappiamo che gli altri non hanno timpani per udirlo. E con questo passo la parola all’autrice.

AIUTIAMO LA GAZA FREEDOM MARCH

Avrei dovuto diffondere questo post i giorni scorsi, purtroppo non sono riuscita ad alzarmi dal letto a causa della febbre, lo pubblico lo stesso anche se in ritardo forse può ancora servire.


Tra pochi giorni migliaia di volontari (tra cui 140 italiani) partiranno per la Gaza Freedom March per ricordare il primo anniversario del bombardamento di Gaza e rompere l'embargo contro la striscia di Gaza.

Le autorità egiziane hanno annunciato che non intendono lasciar passare i volontari e minacciano arresti e azioni di repressione; lo stato italiano, a sua volta, oscura una notizia che in altre nazioni europee è invece diffusa dai media televisivi.

Vi chiediamo di inviare mail al governo e all'ambasciata egiziana, a giornali, televisioni, radio, amministrazioni locali e istituzioni italiane per sostenere la Gaza Freedom March!
Vi preghiamo di diffondere il più possibile questa mail. Anche chi non parte può aiutare!
Grazie.

Qui di seguito 1) un testo in inglese da inviare a Palestine Division in Ministry of
Foreign Affairs, l'indirizzo è ahmed.azzam@mfa.gov.eg

e 2) due esempi di testo in italiano da inviare all'ambasciata d'Egitto in Italia (ambegitto@yahoo.com, amb.egi@pronet.it o ambegitto@pelagus.it). Con le opportune modifiche si possono utilizzare anche per giornali e istituzioni italiane.

Per telefonare i numeri sono 0644234764, 068440191, 0684241896. I n. di fax sono 068554424 e 0685301175. Coinvolgete amici e parenti; presidi e professori; rappresentanti istituzionali come consiglieri regionali, provinciali, comunali; associazioni culturali, sportive, di volontariato; agenzie di viaggio.



Ricordate di mettere in oggetto Gaza Freedom March

1)

Ref: Gaza Freedom March

Your Excellency,

I address this letter so as to kindly request this message may be passed on to your government:

As an Italian citizen, I hope that your government will allow my fellow-Italians and every member of the Gaza Freedom March to enter the Gaza Strip.

Italian public opinion has been greatly distressed by the siege placed on a million and a half Palestinians in Gaza, victims of continual Israeli aggression as well as by an international embargo reducing hundreds of thousands of innocent people to misery.

A year on from the criminal operation “Molten Lead”, in the light of the Goldstone Report and the condemning of Israeli employment of weapons banned by International Law, voluntary workers from the world over are set to march to the Gaza Strip in a mass show of support.

In the name of friendship and brotherly relations binding the people of Egypt and Italy , highlighted by our keen interest in your country’s tourism and culture, I would be most grateful if Your Excellency might inform your government of our request to allow my fellow-Italians and every Gaza Freedom March participant to enter the Gaza Strip.

Yours sincerely,

firma





oppure semplicemente:

Don't stop the Gaza Freedom March!

firmato







2)

A S.E. Mohamed Ashraf Galm Eldin Rashed

Ambasciatore della Repubblica Araba d'Egitto in Italia

Via Salaria, 267 (Villa Savoia)

00199 Roma



Gaza Freedom March
Scrivo per esprimere il mio pieno sostegno alla Gaza Freedom March del 31 dicembre 2009. Chiedo al Governo egiziano di consentire ai/alle 1.300 delegati/e internazionali di entrare nella Striscia di Gaza attraverso l'Egitto.
Obiettivo della marcia è esigere da Israele la fine dell'assedio. La delegazione internazionale consegnerà anche aiuti medici di cui c'è grande scarsità, così come materiale scolastico e giacche invernali per i bambini di Gaza.
Per favore, lasciate che questa storica Marcia possa procedere.
Cordiali saluti,
firma


oppure

Eccellenza,



mi rivolgo a Lei per chiedere la Sua collaborazione affinché sia consentito l'ingresso nella Striscia di Gaza ai miei concittadini ed a tutti i partecipanti alla Gaza Freedom March. La loro è una missione di pace e la società civile internazionale sente molto l’importanza di questa iniziativa.



L'opinione pubblica del nostro Paese è profondamente turbata per l'assedio imposto ad un milione e mezzo di Palestinesi di Gaza, vittime delle continue aggressioni israeliane e di un embargo internazionale che riduce alla disperazione centinaia di migliaia di innocenti.



Ad un anno dalla criminale operazione "Piombo fuso", alla luce del Rapporto Goldstone e della recentissima denuncia sull'utilizzo da parte di Israele di armi proibite dal Diritto Internazionale, volontari da tutto il mondo si recheranno nella Striscia di Gaza per portare solidarietà.



In nome dei rapporti di amicizia e fratellanza che intercorrono fra il popolo egiziano e quello italiano, testimoniati anche dal nostro grande interesse verso il turismo nel Suo Paese,

Le chiedo



di trasmettere al Suo Governo la mia richiesta di consentire l'accesso ai volontari nella Striscia di Gaza e non essere complice del massacro di vite e di diritti che si consuma quotidianamente grazie all’assedio israeliano. Conto sulla sua attenzione e invio distinti saluti. (firmato)

Il convoy to Gaza fermo ad Aqaba

ISM-Italia comunicato stampa 2009/12/26/01


Il convoglio inglese di Viva Palestina (www.vivapalestina.org), partito da
Londra il 6 dicembre è giunto ad Aqaba il 24 pomeriggio.
All'una di notte del 25 dicembre il convoglio doveva imbarcarsi per
Nuweiba ma le autorità egiziane hanno fatto sapere che non avrebbero
permesso lo sbarco.

Verso le 19.00 si è tenuto un incontro al consolato egiziano di Aqaba
presenti il console egiziano, il capitano del ferry, un qualcuno forse dei
servizi di sicurezza egiziani, George Galloway e altri tre rappresentanti
del convoglio. Incontro molto teso secondo il successivo rapporto di
Galloway.

Il console egiziano ha posto le seguenti condizioni:
il convoglio dovrebbe arrivare al porto di El Arish (richiesta assurda
perché significherebbe circa 1000 km per arrivare a un porto siriano, un
lunghissimo viaggio per mare e la necessità di salire su 5 ferry piccoli
perché il porto di El Arish non è in grado di accogliere ferry grandi).
il convoglio dovrebbe entrare sotto l'egida dell'UNRWA e consegnare
all'UNRWA i materiali trasportati.
il convoglio dovrebbe chiedere il permesso di entrare sia all'Egitto sia a
Israele.

La delegazione ha ovviamente rifiutato queste assurde pretese chiedendo di
entrare in Egitto senza condizioni. Non è arrivata, ad oggi, 26 dicembre
ore 12.00, nessuna risposta dal governo egiziano, salvo il tentativo di
dividere il convoglio permettendo l'ingresso alla delegazione turca. E'
stato riferito nell'aggiornamento delle 11 che ci sono trattative dirette
tra Erdogan e Mubarak.

E' circolata una email nel pomeriggio di ieri secondo la quale il governo
egiziano avrebbe cambiato posizione, ma la notizia non ha avuto nessuna
conferma. Personalmente ho parlato con Haider Eid a Gaza e mi ha detto che
non ci sono al momento novità.

Il convoglio è ora composto da circa 150 veicoli e da 500 persone.
Almeno due volte al giorno viene fatto il punto in incontri collettivi con
George Galloway e altri della organizzazione.

Naturalmente le cose possono cambiare da un momento all'altro, un amico
dal Cairo mi dice che è una partita a scacchi della quale non si sa bene
chi muove le pedine, agiungo che oltre tutto le pedine non sono tutte
eguali.

Una valutazione di tutta la vicenda, in particolare del valore politico
del convoglio inglese che è composto principalmente da gruppi delle
comunità musulmane inglesi, è prematura.
Ma molti sono gli insegnamenti che se ne dovranno trarre, a partire da un
confronto duro con i paesi arabi moderati. Il boicottaggio, sia pur in
tono minore dell'Egitto alla Fiera del Libro di Torinodel 2009, è un punto
di riferimento e di partenza.

Diana Carminati e Alfredo Tradardi
Aqaba, 26 dicembre 2009

L'EGITTO OSTACOLA LA GAZA FREEDOM MARCH

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE MUBARAK DALLA GAZA FREEDOM MARCH
26 dicembre 2009
Egregio Presidente Mubarak:
Noi, che rappresentiamo 1.362 persone che arriveranno al Cairo per partecipare alla Gaza Freedom March (Marcia della Libertà di Gaza), ci appelliamo agli Egiziani e alla Sua reputazione di ospitalità.
Siamo pacifisti. Non siamo venuti in Egitto per creare problemi o provocare contrasti. Siamo qui perché crediamo che tutta la gente, compresi i Palestinesi di Gaza, dovrebbe avere accesso alle risorse di cui hanno bisogno per vivere con dignità. Ci siamo radunati in Egitto perché eravamo convinti che Lei avrebbe ben accolto e appoggiato il nostro nobile scopo e ci avrebbe aiutato a raggiungere Gaza attraverso il Suo paese.
Come individui che credono nella giustizia e nei diritti umani, abbiamo speso le nostre risorse guadagnate con fatica e talvolta scarse, per comprare i biglietti aerei, per pagare le stanze d’albergo e per assicurarci il trasporto, soltanto per solidarietà con i Palestinesi di Gaza che vivono sotto blocco di Israele che li stritola.
Siamo dottori, avvocati, studenti, accademici, poeti e musicisti. Siamo giovani e vecchi. Siamo musulmani, cristiani, ebrei, buddisti e laici. Rappresentiamo gruppi della la società civile in molte nazioni che hanno coordinato questo grande progetto con la società civile di Gaza.
Abbiamo raccolto decine di migliaia di dollari per aiuti medici, materiali scolastici e capi di abbigliamento invernale per i bambini di Gaza. Ma ci rendiamo conto che oltre all’aiuto materiale, i Palestinesi di Gaza hanno bisogno di appoggio morale. Siamo venuti per offrire questo appoggio nel difficile anniversario di un’invasione che ha recato loro così tanta sofferenza.
L’idea della Gaza Freedom March – una marcia non-violenta che passa oltre al attraversamento Israeliano di Erez – è nata durante uno dei nostri viaggi a Gaza nel maggio scorso, un viaggio che è stato facilitato dalla cortesia del Governo egiziano. Da quando si è avuta l’idea della marcia, abbiamo parlato al Suo governo tramite le ambasciate egiziane all’estero e direttamente al Suo Ministero degli Esteri. I suoi rappresentanti sono stati gentili e collaborativi. Ci è stato richiesto di fornire informazioni su tutti i partecipanti: passaporti, date di nascita, professioni, e lo abbiamo fatto in buona fede. Abbiamo risposto a ogni domanda, abbiamo soddisfatto ogni richiesta. Abbiamo lavorato per mesi presupponendo che il Suo governo avrebbe facilitato il nostro passaggio, come aveva fatto in molte altre occasioni. Abbiamo aspettato a lungo una risposta.
In quel mentre, il tempo si stava riducendo e dovevamo iniziare a organizzarci. Viaggiare durante il periodo di Natale non è facile nelle nazioni dove molti di noi vivono. I biglietti aerei si devono comprare con settimane, se non con mesi, di anticipo. Questo è ciò che hanno fatto 1.362 persone. Hanno speso il proprio denaro o lo hanno raccolto tra le loro comunità per pagarsi il viaggio. Aggiunga a questo il tempo impiegato, gli sforzi e i sacrifici che fanno queste persone a stare lontano dalle proprie case e dai propri cari durante questo periodo festivo.
A Gaza, i gruppi della società civile – studenti, associazioni, donne, agricoltori, gruppi di rifugiati, hanno lavorato senza sosta per mesi per organizzare la marcia. Hanno organizzato workshops, concerti, conferenze stampa, incontri senza fine – e tutto questo con le loro scarse risorse personali. Sono stati sostenuti dalla presenza prevista di così tanti cittadini di tante parti del mondo che sarebbero venuti ad sostenere la loro giusta causa.
Se il governo egiziano deciderà di impedire la Gaza Freedom March, tutto questo lavoro e queste spese saranno perdute.
E non è tutto. E’ praticamente impossibile, a questo punto avanzato del progetto, impedire a tutte queste persone di andare in Egitto, anche se volessimo. Inoltre, la maggior parte di loro non hanno altri programmi in Egitto se non quello di arrivare a un determinato punto di incontro per poi dirigersi insieme verso il confine con Gaza. Se questi piani verranno cancellati, ci sarà molta sofferenza ingiustificata per i Palestinesi di Gaza e per oltre mille persone che provengono da varie parti del mondo e che non avevano altro che nobili intenzioni.
La imploriamo di permettere che la Gaza Freedom March continui in modo che possiamo unirci ai Palestinesi di Gaza per marciare insieme il 31 dicembre 2009.
Speriamo davvero di ricevere una risposta positiva da Lei e la ringraziamo per il Suo aiuto.

Tighe Barry, Gaza Freedom March coordinator
Medea Benjamin, CODEPINK, USA
Kawthar Guediri, Collectif National pour une Paix Juste et Durable entre Palestinens et Israeliens, France
Mark Johnson, Fellowship of Reconciliation
Ehab Lotayef, Gaza Freedom March, Canada
Ziyaad Lunat, Gaza Freedom March, Europe
Alessandra Mecozzi, Action for Peace, Italy
Germano Monti, Forum Palestine, Italy
Thomas Sommer, Focus on The Global South, India
David Torres, ECCP, Belgium
Ann Wright, Gaza Freedom March coordinator
Olivia Zemor, Euro-Palestine, France

Associazione per la Pace
Italian Peace Association
Via India 1 - 00196 Roma
Tel. +39 0695558458
Fax:+39 0623327800
www.assopace.org
assopace.nazionale@assopace.org

venerdì 25 dicembre 2009

Esercito israeliano sequestra scuolabus costringendo bambini e insegnanti a camminare per più di un'ora per tornare a casa

Operazione Colomba (Operation Dove) / Christian Peacemaker Teams

Masafer Yatta / Colline a sud di Hebron - Domenica 20 dicembre 2009, l'esercito israeliano ha impedito il trasporto di bambini e insegnanti della scuola di Al-Fakheit verso i rispettivi villaggi, sequestrando il pick-up utilizzato come scuolabus.
L'autista palestinese, accompagnato da un membro del CPT, stava raccogliendo bambini e insegnanti dopo la fine della scuola, quando soldati israeliani a bordo di un Humvee hanno seguito e fermato l'automezzo. I soldati hanno quindi trattenuto i documenti dell'autista, lo hanno perquisito e gli hanno ordinato di seguirlo in un campo a sud del villaggio di Jinba.

A causa del sequestro del mezzo, insegnanti e scolari hanno dovuto camminare per le colline per circa un'ora. Il direttore della scuola ha poi riportato che due dei bambini si sono ammalati per aver camminato da soli fino a casa.

L'autista palestinese e il membro del CPT sono stati trattenuti per più di un'ora mentre i soldati eseguivano ogni sorta di controllo sul mezzo. Secondo i soldati la registrazione dell'automezzo non era in regola e hanno quindi allertato la polizia israeliana per l'effettivo sequestro del mezzo. Uno dei soldati ha affermato: "In Israele abbiamo delle regole".

Successivamente, è sopraggiunta un'altra pattuglia di soldati ma non la polizia israeliana. Intorno alle 14.45 i soldati hanno restituito i documenti al palestinese, costringendolo a tornare a casa a piedi.

La scuola di Al-Fakheit è stata aperta quest'anno per accogliere i bambini provenienti dai vicini villaggi di Maghayir Al-Abeed, Markaz, Halawe, Fakheit, Majaaz e Jinba. Prima che fosse aperta questa nuova scuola, i bambini frequentavano la scuola nella città di Yatta, costringendoli a stare lontani dai propri villaggi durante i giorni di scuola. In questo modo quindi, i bambini sono potuti ritornare ai propri villaggi e stare con le proprie famiglie. Ad oggi, gli insegnanti della nuova scuola viaggiano tutti i giorni da Yatta ad Al-Fakheit, raccogliendo i bambini lungo la strada.

Insegnanti e bambini devono così affrontare un viaggio pieno di ostacoli, dal momento che l'esercito israeliano pattuglia di continuo la strada e tutta l'area circostante, ostacolando il movimento e di fatto impedendo il libero accesso all'istruzione per i bambini e al lavoro per gli insegnanti. Lungo la strada i soldati israeliani hanno in più occasioni bloccato e perquisito il pick-up utilizzato come scuolabus. Nell'agosto 2009, l'esercito israeliano aveva tentato di demolire con bulldozer la strada, già in pessime condizioni.

Come risultato di questa strategia, i palestinesi impiegano molto più tempo per raggiungere la propria destinazione e talvolta arrivano tardi a scuola.
Inoltre, l'esercito israeliano minaccia di chiudere la strada in modo permanente, il che significherebbe negare ai palestinesi il diritto all'istruzione, al lavoro e al libero accesso alle proprie terre.
La presenza costante dell'esercito e l'ingerenza sul libero movimento nell'area mina di fatto i diritti umani fondamentali dei palestinesi, ostacolando la possibilità di vivere nei propri villaggi e di coltivare le proprie terre.

Video sulla scuola di Al-Fakheit: http://snipurl.com/tsq3j
Foto della scuola di Al-Fakheit: http://snipurl.com/tsq3b
Foto dei blocchi di terra sulla strada per Jinba: http://snipurl.com/tsq45
Per ulteriori informazioni sulle comunità palestinesi dell'area di Masafer Yatta, scarica il report di B'Tselem: http://snipurl.com/tsq72


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ULTIME NOTIZIE

In discussione una nuova legge che permetta a piccole 'comunità' israeliane di scegliersi gli abitanti. Così, il razzismo dei vari comitati delle 'comunità' potrà avere una copertura legale
http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3823521,00.html
Onde meglio precisare: detta nuova legge ha già passato il primo esame. Era stata presentata, identica, da un tale del Kadima (= "opposizione") e da un tale dello Yisrael Beitenu (= estrema destra, al governo) (tradotto in italiano: ancora una volta aveva ragione Michele Giorgio)
http://www.ynet.co.il/english/articles/0,7340,L-3817602,00.html
Dibattito parlamentare (con video): http://mondoweiss.net/2009/12/likud-mk-israel-is-not-a-jewish-and-democratic-state-but-rather-a-jewish-state-with-a-democratic-regime.html

In una colonia (ma che sia una colonia Haaretz si dimentica di scriverlo), ragazzine askenazite non vanno a scuola, per protestare contro una decisione della Corte suprema che vieta, in detta scuola ultraortodossa, la separazione fra askenazite e sefardite (che seguono programmi scolastici diversi (!))
http://www.haaretz.com/hasen/spages/1137046.html

Coloni di estrema destra sostenuti dall'ufficio delle tasse (= IRS) USA; con detto denaro sostengono i coloni finiti in carcere per essersi opposti all'esercito (israeliano, ovviamente). Con video (da cui si apprende che rimuovere i coloni dalle colonie è peccato peggiore che mangiare lievito a Pessach (!))
http://mondoweiss.net/2009/12/meet-another-israeli-settler-being-supported-by-the-irs-for-now.html
(il video - dalla televisione israeliana - è in ebraico. Ma un'anima pia ha messo i sottotitoli in inglese.

domenica 20 dicembre 2009

GAZA INFESTATA DAI VELENI

Michele Giorgio - Il Manifesto

Il rapporto a un anno dai raid israeliani. Gli sfollati ancora in tenda
«Da un anno viviamo in 14 in questa tenda. È il secondo inverno che passiamo al freddo e non sappiamo come ricostruirci la casa. Il cemento è introvabile a Gaza e quel poco che c'è al mercato nero costa troppo per noi». Umm Khaled Ghaleb alza le braccia al cielo raccontando la condizione di senzatetto della sua e di tante altre famiglie di Beit Lahiya, uno dei centri abitati della Striscia di Gaza dove più pesante è stata l'offensiva «Piombo fuso» lanciata il 27 dicembre 2008 da Israele e terminata dopo 22 giorni.
Ma l'anziana palestinese non sa che la sua salute e quella dei suoi familiari non è messa in pericolo solo dal freddo e dalle malattie infettive. Tra le macerie della sua abitazione e di tante altre case distrutte si nasconde un'insidia che mette a rischio la salute dei palestinesi di Gaza. I bombardamenti israeliani, del 2006 e del 2009, hanno lasciato sul terreno forti concentrazioni di metalli tossici - tungsteno, mercurio, molibdeno, cadmio e cobalto - che potrebbero provocare nella popolazione tumori, problemi di fertilità ed effetti diretti sui nuovi nati, come malformazioni e patologie di origine genetica.
A denunciarlo è il New Weapons Research Group (Nwrc), una commissione indipendente di scienziati, con sede in Italia, che studia l'impiego delle armi non convenzionali e i loro effetti. Il Nwrc, in stretta collaborazione con specialisti e medici di Gaza, ha esaminato 4 crateri: due provocati dai bombardamenti del luglio 2006 e due da bombe sganciate nel gennaio 2009. Ha preso in esame anche la polvere residua all'interno del guscio di una bomba al fosforo bianco esplosa vicino all'ospedale di Al Wafa, nel gennaio 2009. Quindi ha messo a confronto i livelli rilevati in questi crateri con quelli indicati in un rapporto sulla presenza di metalli nel suolo di Gaza pubblicato nel 2005. Le analisi hanno evidenziato la forte contaminazione del suolo di Gaza. «Occorre intervenire subito - ha avvertito Paola Manduca, portavoce del Nwrg e docente di genetica all'Università di Genova - per limitare le conseguenze su persone e animali.
Umm Khaled Ghaben non ha mai sentito parlare di questi «metalli» nascosti nel suolo. Gli unici metalli che conosce sono i ferri attorcigliati che spuntano da ciò che resta della sua casa. «Non sappiamo come fare - dice la donna - siamo troppo poveri per affittare un appartamento e non abbiamo alternative». Sono migliaia gli abitanti di Gaza che vivono ancora nelle tende a un anno di distanza da «Piombo fuso», in cui furono uccisi circa 1.400 palestinesi (tra i quali centinaia di civili) e migliaia di case vennero distrutte o danneggiate. Molti dei senzatetto sono stati accolti da parenti e amici, ma tanti altri non hanno avuto questa fortuna e ora sono al gelo. L'inverno è arrivato tardi a Gaza ma da qualche giorno si fa sentire tra coloro che non hanno un'abitazione per ripararsi.
Le scorte di bombole del gas e di gasolio da riscaldamento sono diminuite sensibilmente da quando Israele ha trasferito la distribuzione del carburante per Gaza dal valico di Karni a quello di Kerem Shalom, più piccolo e meno attrezzato. «Gaza ha urgente bisogno di 268mila metri quadrati di vetro per le finestre e altri 67mila metri quadrati di vetro per riparare i pannelli solari per l'acqua calda», ripete da tempo Mike Bailey dell'Ong «Oxfam», evidenziando che numerose scuole, anche dell'Onu, non hanno alle finestre i vetri, andati in frantumi a causa delle esplosioni delle bombe sganciate dagli aerei e delle cannonate. A pagarne le conseguenze sono migliaia di studenti e i loro insegnanti. La ricostruzione non è mai cominciata, perché Israele non lascia entrare a Gaza il cemento, il vetro e altri materiali per l'edilizia. I quattro miliardi di dollari raccolti, a parole, durante il summit «per Gaza» della scorsa primavera, rimangono nelle casse dei paesi donatori per il divieto imposto da Israele e dagli Stati Uniti di cooperare, in qualsiasi forma, con il governo del movimento islamico Hamas.
Nel quartiere di Izbet Abed Rabbo, uno dei più colpiti dalla violenza dei bombardamenti di un anno fa, Firas, con cinque figli piccoli da sfamare che giocano davanti alla tenda in cui vivono da quasi 12 mesi, afferma di poter resistere al freddo. A spaventarlo piuttosto è la mancanza di lavoro, di un reddito minimo per mantenere la sua famiglia. È un contadino e prima dell'offensiva israeliana coltivava la terra per conto di una famiglia ricca, gli Abu Halima. «Ma ora in quei terreni posso andarci solo a rischio della vita - spiega Firas - sono vicini alle postazioni israeliane e i soldati aprono il fuoco su chi si avvicina». Israele ha imposto una «zona-cuscinetto» lungo il confine, ampia 300-400 metri all'interno di Gaza - ufficialmente per fermare i lanci di razzi - privando così la popolazione delle terre più fertili. Ahmad invece non desidera altro che di poter garantire a Muath, il suo bambino di un anno e quattro mesi, affetto da un tumore al fegato, una assistenza medica adeguata, grazie all'aiuto di una associazione italiana, «Angels». Le autorità israeliane non lo fanno uscire da Gaza, impedendone il ricovero al Policlinico Umberto I di Roma.

domenica 29 novembre 2009

ODIOSI SOPRUSI

Comunicato Stampa

ESERCITO ISRAELIANO ABBATTE E CONFISCA PILONI DELL'ELETTRICITA'
IMPEDENDO AI PALESTINESI DI MIGLIORARE LA PROPRIA QUALITA' DELLA VITA

25 novembre 2009 - At-Tuwani, South Hebron Hills

Mercoledì 25 novembre, esercito e polizia israeliani hanno rimosso e confiscato due piloni dell’elettricità dal villaggio di At-Tuwani. I piloni erano stati installati dagli abitanti del villaggio per connettersi alla linea elettrica di Yatta, una città palestinese situata poco più a nord.
L’esercito israeliano ha dichiarato l’area attorno ai piloni “Zona Militare Chiusa” per impedire ai palestinesi e ai volontari internazionali di ostacolare, o semplicemente documentare, tale confisca. Nonostante questo, dozzine di abitanti hanno protestato e hanno ostruito il passaggio di una jeep della polizia israeliana verso at-Tuwani.

Nonostante una recente visita di Tony Blair, inviato del Quartetto Speciale per il Medio Oriente, nella quale l'ex premier britannico aveva assicurato agli abitanti di At-Tuwani che le autorità israeliane avevano dato un permesso orale al proseguimento dei lavori per l’allacciamento dell’elettricità, la comunità locale in diverse occasioni è stata costretta a interrompere i lavori. (Vedi comunicato stampa: http://snipurl.com/tfwk7)

Venerdì 30 ottobre l’esercito israeliano aveva fermato con la forza i lavori per portare la linea elettrica nella zona. Ufficiali del Distretto (DCO) hanno detenuto Mohammed Awayesa, un operaio palestinese di Ad-Dhahiriya, e hanno confiscato diverso materiale tra cui un camion, un elevatore meccanico e un grosso rotolo di cavo elettrico. Nessun ordine scritto è stato emesso per la detenzione dell'uomo, per l’arresto dei lavori e la confisca dei beni. (Vedi comunicato: http://snipurl.com/tfwn5)

Il 28 luglio 2009, la DCO aveva emanato un ordine di demolizione per sei piloni dell’elettricità appena costruiti ad At-Tuwani. Il 25 maggio 2009, la DCO era entrata nel villaggio e ordinato ai residenti di fermare i lavori di costruzione dei piloni dell’elettricità. Anche in quell'occasione non era stato emanato alcun ordine scritto. (Vedi azione urgente: http://snipurl.com/tfkrp)

Vedi le foto del 25 novembre 2009 al seguente indirizzo: http://snipurl.com/tfw15

Donna palestinese al cehck point di Kalandia

ORDINARIA VIOLENZA DEI COLONI

Carissime e carissimi
come molti di voi hanno saputo, il 17 novembre scorso
5 coloni provenienti dall'avamposto di Havat Ma'on hanno aggredito
una famiglia palestinese che tornava a casa e che Sarah ed io stavamo
accompagnando.
Ora stiamo tutti fisicamente bene, sia la famiglia di Nasser e Fatima
che io e Sarah.
Ma credo sia importante capire che questo incidente non e' un episodio
isolato ma si colloca all'interno di un sistema di umiliazioni e ed
ingiustizie che opera tutti i giorni.

Questo e' il racconto di quello che e' accaduto quel giorno che ho
scritto per Bocchescucite, il settimanale di Pax Christi sulla
Palestina. Un quindicinale di controinformazione che vi consiglio di
cuore
Laura


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Colline a Sud di Hebron, Martedi 17 novembre, le 11 di mattina di una
giornata fredda. La pioggia, come una benedizione, lava le pietre
delle colline arse dal sole di una lunga estate mediorientale. Una
famiglia cammina verso casa.
Sono Fatima e Nasser, una giovane coppia con tre bambini. Ibrahim, 3
anni trotterella dietro ai genitori : gli altri due, troppo piccoli
per camminare, sono portati in braccio da mamma e papá. La coppia si
ferma in cima alla salita per prendere fiato e guarda sconsolata verso
Havat Ma’on, l’avamposto alla loro sinistra. Da quando i coloni
israeliani si sono installati su quella collina, piu’ di dieci anni
fa, non possono piu’ usare la strada diretta, quella che in un quarto
d‘ora di agevole cammino li avrebbe portati da At Tuwani a Tuba. Ora
sono obbligati ad un giro tortuoso su sentieri sassosi per almeno
quarantacinque minuti.
Improvvisamente due donne si avvicinano, gesticolando. Sono Sarah e
Laura, due attiviste internazionali. Una parla un po’ di arabo:
“Stamattina abbiamo visto dei coloni nell’area. Non prendete la strada
corta, fate quella lunga”. Fatima sospira. La strada lunga é molto
lunga e non é una strada. La aspettano due ore di cammino, con un
bimbo in braccio, su e giu’ per ripide colline sulle tracce di greggi
e pastori.
Le famiglia riparte, seguita dalle due volontarie, scende fra i campi
in attesa di essere arati e risale sulla collina successiva. Ibrahim é
stanco e si ferma. Nasser approfitta della pausa per chiedere dove
erano esattamente i coloni. Quasi a rispondergli quattro uomini
appaiono fra le rocce, ad una cinquantina di metri. La famiglia
ricomincia a camminare, correre é impossibile. Sarah e Laura si
fermano, iniziano a filmare. I coloni all’inizio esitano, sono
disorientati. Poi iniziano a scendere, corrono verso la famiglia. Un
quinto colono sale dalla valle e raggiunge il gruppo. I coloni
circondano la famiglia e le internazionali, poi spintonano Nasser, che
ancora stringe suo figlio in braccio. Ibrahim e’ terrorizzato, piange.
Laura e Sarah si mettono in mezzo. I coloni le gettano a terra,
vogliono le telecamere.
Piovono colpi, calci e spintoni. La famiglia, nella confusione riesce
ad allontanarsi. I coloni strappano le telecamere e finalmente se ne
vanno,dopo venti minuti li vediamo entrare nell’avamposto.


Questa e’ la storia di quello che ho visto e vissuto in un giorno di
ordinaria violenza nelle colline a Sud di Hebron.
Ovviamente la storia continua, anche dopo l’attacco. Nasser, Fatima,
Sarah e me abbiamo trascorso interminabili ore alla stazione di
polizia per presentare denuncia ed identificare nelle foto i nostri
aggressori. Finora nessuno e’ stato arrestato.
Nei giorni successivi una giornalista mi ha chiesto se senza la
presenza degli internazionali l’attacco sarebbe stato più brutale. Io
non lo so se senza di noi l’attacco sarebbe stato peggio, meglio o
uguale. Sicuramente i media non ne avrebbero parlato.

Ma il punto non é la presenza degli internazionali, il punto é la
presenza dei coloni.
Se le esercito israeliano avesse eseguito gli ordini di evacuazione
che da anni pendono sull’insediamento illegale di Havat Ma’on,
l’attacco non ci sarebbe stato. Se la polizia avesse seriamente
perseguito i responsabili delle decine di attacchi a Palestinesi
disarmati negli ultimi anni, l’attacco non ci sarebbe stato. E se
l’opinione pubblica internazionale invece di dibattere per quanti mesi
Israele dovrebbe congelare l’espansione delle colonie, si pronunciasse
in modo netto per un ritorno del diritto e della legalitá nei
Territori Palestinesi occupati , non ci sarebbero outpost illegali ad
occupare la strada che in quindici minuti da At Tuwani porta a Tuba.

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Background
Per anni, gli abitanti del villaggio di Tuba hanno utilizzato la
strada diretta per raggiungere il villaggio di At-Tuwani e da lì la
vicina città di Yatta, centro sociale ed economico di tutta l'area. La
costruzione lungo tale strada dell'insediamento israeliano di Ma'on
negli anni '80 e del vicino avamposto illegale di Havat Ma'on nel
2001, ha di fatto bloccato il movimento dei palestinesi,
costringendoli a percorrere sentieri più lunghi che richiedono fino a
due ore di cammino.

Volontarie e volontari dei Christian Peacemaker Teams e di Operazione
Colomba sono presenti nel villaggio di At-Tuwani dal 2004, con azioni
di sostegno alla libertà di movimento dei palestinesi minacciati dalla
violenza dei coloni israeliani che occupano illegalmente i territori
palestinesi. La libertà di movimento è un diritto sancito
dall'articolo 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e
Politici della Nazioni Unite, ratificata da Israele nel 1991.

Secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, la Corte Internazionale di
Giustizia e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite, tutti gli
insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati sono
illegali. Gli avamposti sono considerati illegali anche
secondo la stessa legge israeliana.

giovedì 26 novembre 2009

ISRAELE BOICOTTA L'ISTRUZIONE E LA CULTURA PALESTINESE A GAZA TUTTI IN GALERA!

TAGLIO MEDIO | di Michele Giorgio - GERUSALEMME
ISRAELE Valichi chiusi agli studenti
Libertà di studio? No, se sei di Gaza
L'attesa della 21enne di Gaza Berlanty Azzam finirà oggi. Con una sentenza favorevole oppure con la chiusura definitiva di fronte a lei delle porte di Betlemme. A decidere sarà un tribunale dello Stato di Israele, quindi delle autorità di occupazione, chiamato ad esprimersi sulla richiesta di Berlanty, studentessa di economia aziendale, di poter completare gli studi in Cisgiordania. «Speravo di ottenere una risposta già domenica scorsa ma la lettura della sentenza è stata rinviata di due giorni», ci spiegava ieri Berlanty dalla sua abitazione di Gaza. «Sono angosciata», ha aggiunto «perchè se non mi permetteranno di tornare a Betlemme non solo avrò grosse difficoltà a completare gli studi ma vedrò anche spezzarsi i forti legami che avevo stabilito con tante persone in quella città».
Berlanty non ha commesso alcun reato. Semplicemente dal 2005 viveva e studiava a Betlemme dopo aver ottenuto, con grande sforzo, un permesso dell'esercito israeliano per raggiungere la Cisgiordania. Per un giovane di Gaza, anche benestante, è un sogno soltanto poter studiare in Cisgiordania, a poche decine di chilometri di distanza. Israele, per «motivi di sicurezza» non garantisce, se non in casi eccezionali, il diritto dei ragazzi di Gaza di poter liberamente frequentare le università cisgiordane. E ottenere un permesso delle autorità militari non mette i pochi fortunati al riparo da sorprese amare. Lo scorso 28 ottobre Berlanty Azzam stava tornando a Betlemme dopo aver sostenuto a Ramallah un colloquio di lavoro. Pensava al futuro, come fanno tutti i giovani vicini a completare gli studi. Ma i soldati israeliani di guardia ad un posto di blocco, accortisi del fatto che Berlanty aveva la residenza a Gaza, l'hanno presa, bendata, e sbattuta in cella. Non solo. Alla ragazza è stato impedito di presentare appello contro il provvedimento di espulsione ed è stata immediata portata a Gaza, in manette. «Non aveva fatto nulla, se non frequentare un' università in Cisgiordania. Ma i militari nemmeno mi guardavano in faccia quando provavo a spiegare i miei diritti», ha riferito la ragazza.
Berlanty Azzam forse otterrà una sentenza favorevole, in considerazione degli appoggi internazionali che sta ricevendo e delle pressioni su Israele dei vertici dell'Università di Betlemme, finanziata dal Vaticano. Ma se oggi i giudici confermeranno il provvedimento preso dai militari, la ragazza andrà a far parte del gruppo di quasi 900 studenti di Gaza ai quali Israele e l'Egitto (che tiene chiuso il valico di Rafah) negano di poter studiare.
Tel Aviv e il Cairo spiegano che le restrizioni sono frutto dalle difficoltà di rapporto con il movimento islamico Hamas (che controlla Gaza dal 2007), autorità che loro non riconoscono. In realtà il blocco degli studenti è una delle tante punizioni inflitte all'intera popolazione di Gaza. E le ripetute denunce dei centri per i diritti umani non servono a molto. Secondo un'inchiesta svolta dall'associazione israeliana Gisha, quest'anno 1.983 studenti di Gaza sono stati accettati in università straniere ma per motivi oscuri gli egiziani ne hanno fatti passare da Rafah 1.145. Gli israeliani da parte loro hanno consentito il transito al valico di Erez soltanto a 69 studenti diretti all'estero.
Un caso esemplare è quello di Mohammed Abu Hajar. Lo scorso luglio l'Information Technology and Communications Center di Atene aveva accettato la sua domanda di iscrizione e garantito anche una borsa di studio. Ma Mohammad non riesce ad uscire da Gaza. L'Egitto non considera la sua richiesta di transito per Rafah prioritaria (i permessi si garantiscono velocemente solo a chi è pronto a pagare 2mila dollari ai funzionari del terminal egiziano). Israele invece non riconosce l'istituto universitario greco scelto da Mohammed e neppure prende in considerazione la richiesta del giovane. Non è andata meglio a Ihab Naser, laureato in chimica biologica, atteso per un dottorato di ricerca in Malesia, perché questo paese non ha relazioni diplomatiche con Israele che quindi rifiuta il permesso. Resta un sogno anche il master in economia programmato da Wesam Kuhail negli Usa. Lo studente deve rinnovare i permessi al consolato Usa ma Israele finora non gli ha consentito di raggiungere Gerusalemme. «Ormai non ci credo più - dice Wesam. «A Gaza siamo tutti prigionieri di Israele e solo pochi detenuti ottengono il permesso per qualche giorno di libertà».

giovedì 19 novembre 2009

PERFINO IL JERUSALEM POST SE N'E' ACCORTO

E’ ora di ammettere chi sono le vere vittime
Jerusalem Post - 4 novembre 2009

1 novembre 2009: il rapporto per il numero di morti è di 1 a 100, a nostro favore. Per quanto riguarda le distruzioni, è molto, molto di più. A tutto’oggi, migliaia di persone a Gaza vivono in tenda perché non permettiamo di far arrivare il cemento per ricostruire le case che abbiamo demolito. Abbiamo fatto della Striscia di Gaza una zona sinistrata, una questione umanitaria, e la manteniamo in questo stato con il nostro blocco. Durante questo tempo, qui, dal lato israeliano della frontiera, non riusciamo a ricordare quando la vita sia stata così tranquilla e sicura.
Allora decidiamo: quali sono state le vittime dell’operazione Piombo fuso, loro o noi?

La questione non si pone, siamo noi. Noi, gli Israeliani, siamo stati le vittime e noi lo siamo sempre. In realtà, la nostra condizione di vittime peggiora di giorno in giorno. Il rapporto Goldstone è il vero crimine di guerra. Il rapporto Goldstone, i dibattiti all’ONU, Amnesty International, Human Rights Watch, la Croce Rossa, B’Tselem, i soldati traditori di Rompere il Silenzio e l’Accademia dei Rabbini – tutti questi sono i veri crimini contro l’umanità. Questo s’intende con «la guerra è un inferno». Siamo noi che abbiamo attraversato l’inferno della guerra a Gaza. Siamo noi che abbiamo sofferto. Gli abitanti di Gaza? Soffrono? Ma di cosa parlate? Non permettiamo loro di mangiare, no?

Questo monologo immaginario mostra in realtà come noi ci vediamo oggi. Abbiamo lanciato la guerra a Gaza, abbiamo scatenato una delle campagne militari più sproprozionate che si conoscano, ma noi siamo le vittime. Noi ci battiamo contro il mondo con l’Olocausto; lo provano le affermazioni del Primo ministro Binyamin Netanyahu all’ONU su Auschwitz. E il suo protetto, il ministro delle Finanze, Yuval Steinitz, che promette: «Non andremo al macello come agnelli un’altra volta» durante un dibattito a proposito del rapporto Goldstone. Auschwitz, gli agnelli che vanno al macello, l’operazione Piombo fuso. Per gli Israeliani oggi tutto ciò forma un tutto, un’unica storia, l’eredità ininterrotta di una virtuosa posizione di vittima.
La verità è che lo Stato d’Israele non è mai stato una vittima, e il fatto di assimilarci ai 6 milioni è stato imbarazzante sin dall’inizio – ma ora? Dopo quel che abbiamo fatto a Gaza? Con la presa di possesso che abbiamo su questa società, mentre noi viviamo qui liberi e tranquilli? Vittime? Agnelli al macello? Noi?
No, e questo è diventato molto più che imbarazzante, è assolutamente vergognoso.
E malgrado le nostre scuse, non è vero che siamo «traumatizzati» dal passato nella convinzione di essere sempre ebrei deboli, impauriti, impotenti, sul punto di essere condotti alle camere a gas. Molti sopravvissuti dell’Olocausto ne sono ancora convinti e, in una proporzione molto limitata, questo resto di paura occupa ancora l’animo israeliano. Ma ora, 64 anni dopo l’Olocausto, 42 anni dopo aver vinto con la guerra dei Sei Giorni, da quel punto noi siamo diventati forti, noi sappiamo - che lo ammettiamo o no - di non essere più le vittime. Sappiamo di non essere la continuità dei 6 milioni, anzi ce ne allontaniamo deliberatamente, puramente e semplicemente.
La ragione per cui ci diciamo e diciamo al mondo di essere le vittime, è perché sappiamo - che ne conveniamo o no - che la condizione di vittima rappresenta un potere. La condizione di vittima è la libertà. Non si può chiedere ad una vittima di contenersi. Una vittima che si batte per la sua sopravvivenza non può essere accusata di abusare del suo potere perché, dopo tutto, essa è con le spalle al muro, è disperata.
Guardando i fatti, è molto difficile convincere noi stessi, e a fortiori convincere gli altri, che Gaza e i suoi Qassam avessero messo la fortezza Israele con le spalle al muro, che fossimo disperati, che combattessimo per sopravvivere. Per convincerci e per convincere il mondo che era davvero così, facciamo due cose.
Primo: rifiutiamo di riconoscere il minimo fatto che contraddica quest’immagine che ci presenta come vittime, anzi ripetiamo continuamente tutto ciò che è conforme a quest’immagine. Noi parliamo unicamente delle migliaia di Qassam lanciati su Sderot; non menzioniamo mai le migliaia di abitanti di Gaza che abbiamo assassinato nello stesso tempo. Noi parliamo unicamente di Gilad Shalit; non menzioniamo mai gli 8 000 Palestinesi che teniamo in prigione. Non parliamo mai del blocco che manteniamo su Gaza, né della devastazione che provoca sulla sua popolazione.
La seconda cosa che facciamo per convincerci e per convincere il mondo che noi siamo sempre le vittime, è di non uscire mai, ma proprio mai, dall’Olocausto – perché è là che noi siamo stati veramente vittime. Vittime come nessuno ne ha mai avute, vittime un milione di volte peggio degli abitanti di Gaza. Auschwitz, gli agnelli che vanno al macello. Vi ricordate di noi, il popolo dell’Olocausto? Non la superpotenza del Medio Oriente che avete visto combattere a Gaza. Erano i 6 milioni. Allora, non potete biasimarci. Siamo immunizzati contro le vostre critiche. Noi siamo le più grandi vittime che il mondo abbia mai conosciuto. Siamo disperati, allora non parlateci di calcoli sul numero degli uccisi, né di uso sproporzionato della forza, né di punizione collettiva. Noi combattiamo per la nostra sopravvivenza.
E’ questo che diciamo a noi stessi e al mondo, e, visto quel che abbiamo fatto e che facciamo sempre a Gaza, ciò è diventato intollerabile. No, noi non siamo i 6 milioni. I 6 milioni erano degli ebrei impotenti, tre generazioni fa; non possiamo mascherare il nostro abuso di potere con la loro tragedia.
Invece, diamo uno sguardo, un vero sguardo critico su quel che abbiamo fatto e facciamo sempre a Gaza. Diamoci un vero sguardo critico alla specchio. E riconosciamo allora chi è la vera vittima, qui ed ora.
E, ancora più importante, chi non lo è.

http://www.paltelegraph.com/opinions/editorials/2770-time-to-admit-who-the-real-victims-are

mercoledì 18 novembre 2009

DOPO GLI EPISODI DEI COLONI CHE PROTETTI DALL'ESERCITO HANNO OCCUPATO E COLTIVATO CAMPI DI PROPRIETA' DI PALESTINESI, UNA NUOVA AGGRESSIONE

COMUNICATO STAMPA
Nuova aggressione di coloni israeliani contro palestinesi e volontari internazionali
Due membri dei Christian Peacemaker Teams picchiati e derubati

18 novembre 2009

Nella giornata di martedì 17 novembre, nell'area delle colline a sud di Hebron, cinque coloni israeliani hanno aggredito alcuni palestinesi che rientravano a casa e picchiato e derubato due internazionali che li accompagnavano.

La famiglia palestinese, due giovani genitori e tre bambini, stava rientrando nel villaggio di Tuba dalla vicina città di Yatta. Alle ore 11 circa, ha incontrato, nei pressi del villaggio di At-Tuwani, due membri dei Christian Peacemaker Teams che la avvertiva della presenza di alcuni coloni nell'area. I palestinesi hanno quindi proseguito il cammino, accompagnati dagli internazionali, lungo un sentiero più distante dal vicino avamposto israeliano di Havat Ma'on.

Appena dopo aver oltrepassato la collina di Mashakha, il gruppo è stato raggiunto da quattro coloni che lo ha subito circondato. Un quinto colono, mascherato e incappucciato, è sopraggiunto dalla valle sottostante. Dopo aver cercato di spiegare che stava solo camminando verso casa con la propria famiglia, il palestinese è stato spintonato da uno dei coloni.

I membri del CPT hanno quindi tentato di interporsi tra i palestinesi e i coloni ma questi ultimi li hanno buttati a terra, colpiti, presi a calci e derubati delle loro videocamere. I coloni si sono quindi diretti verso l'avamposto illegale di Havat Ma'on (Hill 833), dileguandosi tra gli alberi. La famiglia palestinese ha invece raggiunto la propria casa senza altri problemi.

Per anni, gli abitanti del villaggio di Tuba hanno utilizzato la strada diretta per raggiungere il villaggio di At-Tuwani e da lì la vicina città di Yatta, centro economico di tutta l'area. La costruzione lungo tale strada dell'insediamento israeliano di Ma'on negli anni '80 e del vicino avamposto illegale di Havat Ma'on nel 2001, ha di fatto bloccato il movimento dei palestinesi, costringendoli a percorrere sentieri più lunghi che richiedono circa due ore di cammino.

I membri dei CPT e di Operazione Colomba sono presenti nel villaggio di At-Tuwani dal 2005, con azioni di sostegno alla libertà di movimento dei palestinesi minacciati dalla violenza dei coloni israeliani che occupano illegalmente i territori palestinesi. La libertà di movimento è un diritto sancito dall'articolo 12 della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici della Nazioni Unite, ratificata da Israele nel 1991.

Nota: secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, la Corte Internazionale di Giustizia e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite, tutti gli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati sono illegali. Gli avamposti sono considerati illegali anche secondo la stessa legge israeliana.


Comunicato CPT in inglese: http://snipurl.com/tacey

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Operazione Colomba
Corpo Nonviolento di Pace dell'Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
www.operazionecolomba.it

CHECK POINT DI KALANDIA

venerdì 13 novembre 2009

UNA VERGOGNA ITALIANA

Casilino 700: un'altra purga etnica a Roma. Continua nell'indifferenza la tragedia umanitaria dei Rom in Italia

Roma, 12 novembre. Non traggano in inganno le dichiarazioni pubbliche, l'uso di un linguaggio rispettoso dei diritti umani (dove di continuo il dichiarante si premura di affermare che "lavoriamo per la legalità e l'integrazione", i paraventi - in forma di anelli di polizia - che tengono lontani attivisti e giornalisti nei momenti cruciali, gli interventi sul campo di onlus finanziate dal governo italiano. Non tragga in inganno la proposta di forme ad hoc di assistenza; "cavallo di battaglia" delle autorità intolleranti è la formula: donne e bambini in dormitori, mariti e padri in mezzo alla strada, oppure: daremo accoglienza agli "aventi diritto", come se esistessero esseri umani non aventi diritto alla vita e alla dignità. Non tragga in inganno l'apparenza "perbene" dei mandanti delle evacuazioni, che troppo spesso alimenta il pregiudizio del Rom sporco e dunque cattivo, in antitesi al politico o al poliziotto lindo, curato, in abito classico o in divisa e di conseguenza... buono, amico della legalità e della collettività. Non traggano in inganno i proclami e le invettive della "folla inferocita" di cittadini: "Ma voi che siete così bravi, perché non portate gli zingari a casa vostra? Perché non venite a vedere come vivono, cosa bruciano nei loro roghi, come costringono a vivere i loro bambini, come si ubriacano e perdono la testa?"
Sono le solite ragioni del lupo, che abbiamo ascoltato persino durante i processi per crimini contro l'umanità, nei confronti di mandanti ed esecutori di genocidi ("Noi non perseguitavamo ebrei e 'zingari', noi obbedivamo agli ordini"). Quello che è accaduto ieri a Roma, nel campo denominato "Casilino 700" ha un solo nome: purga etnica. Purga etnica, come ognuna delle centinaia i operazioni di sgombero etnico avvenute negli ultimi anni. La giurisprudenza definisce la purga etnica, che è uno dei più efferati crimini contro l'umanità, come una serie di azioni mirate a rimuovere da un territorio la popolazione di un dato gruppo o sottogruppo etnico-culturale. Nelle sue manifestazioni meno violente, è simile all'assimilazione forzata e alla deportazione di massa, mentre nelle sue forme più gravi conduce a lutti, abbassamento della speranza di vita media, tragedie umanitarie.
Le operazioni di "purga etnica" dipendono sempre da precise scelte politiche di governi e autorità, sulla base di discriminazioni etnico-linguistiche, religiose e ideologiche e su considerazioni di ordine politico e strategico, in particolar modo riguardo a un concetto distorto di sicurezza. Le più gravi forme di pulizia etnica avvengono quando i governi fanno dipendere le loro politiche dai comparti di maggioranza delle popolazioni, ovvero alla percentuale di cittadini sufficiente a ottenere il successo alle elezioni politiche o amministrative. Ci si può opporre alle politiche di pulizia etnica solo rispettando le Carte dei Diritti Umani, che tutelano le minoranze. Senza tale rispetto, che dovrebbe essere obbligatorio, la democrazia si trasforma in un regime persecutorio e spesso gli eventi di pulizia etnica non vengono avvertiti fuori dai confini dello Stato divenuto regime razziale. Il caso dell'Italia è oggi emblematico, perché in nome di una maggioranza dell'elettorato definita dai politici italiani "popolo sovrano" si sono via via cancellati i diritti fondamentali di persone e popoli e le conquiste civili. Chi governa, a livello nazionale o locale, decide che si possono deportare impunemente i profughi, che distruggere insediamenti di Rom in crisi umanitaria - mettendo famiglie inermi in mezzo alla strada - diventa lecito, che nei Cie e nelle carceri sia tollerabile torturare, umiliare e a volte uccidere i detenuti, che una legge italiana può equiparare il rifugiato a un criminale (soggetto a persecuzione, arresto, trattamenti inumani e deportazione), che gli attivisti possono essere intimiditi o minacciati, che gli assassini etnici hanno diritto a una protezione di fatto, che stampa e tv sono libere di diffondere odio e calunnie razziali, che personalità politiche o comunque pubbliche possono lanciare invettive contro etnie di minoranza. Come nel Terzo Reich. Se si considerano poi i legami strettissimi e ormai fuori controllo fra criminalità organizzata e politica (per comprenderne la portata è sufficiente effettuare su google una ricerca, associando nome e cognome di deputati, senatori, ministri e alte cariche istituzionali alle parole "mafia", "pentiti", "collusione", "favoreggiamento"), se si considera tale inquietante realtà, si comprenderà come faccia comodo a chi gestisce affari illeciti per miliardi di euro concentrare il lavoro delle forze dell'ordine contro 'zingarelli' scalzi, senzatetto e poveracci rifugiatisi in Italia dall'Africa o dall'Afghanistan. E adesso torniamo al Casilino 700. Le operazioni di sgombero, iniziate all'alba di ieri, sono state metodiche e spietate. Donne, bambini e malati (con casi di gravi patologie oncologiche e cardiache) si sono trovati sulla strada, mentre le ruspe distruggevano le baracche e i beni dei Rom colpiti dalla purga. Oltre 500 Rom sono stati evacuati. Decine sono stati caricati su pullman e condotti nell'inferno dei Cie. Decine espulsi e costretti a tornare in Romania, dove nessuna speranza di sussistenza li attende. Moltissimi malati che ricevevano cure mediche essenziali si troveranno presto in grave pericolo di vita.
Grazie all'aiuto dei Blocchi precari metropolitani e all'intervento della Croce Rossa presso le autorità, è stato occupato l'ex deposito Heineken di via dei Gordiani. Cento bambini andranno ancora a scuola, perché i genitori vogliono che sia riconosciuto questo loro diritto basilare, ma non si sa per quanto potranno continuare a sedersi ai banchi, accanto ai "fortunati" bambini italiani. Quasi duecento persone, con giovani donne incinte, in preda al panico si sono allontanate, facendo perdere le tracce. Vi è notizia, da confermare, di un aborto spontaneo e diversi casi di malori causati al freddo e dal disagio di vivere senza riparo. Il Gruppo EveryOne sta cercando di rintracciare le famiglie che hanno intrapreso l'ennesimo calvario per i quartieri romani. Verso le dieci del mattino, abbiamo inviato un messaggio urgente a Istituzioni, associazioni, attivisti e autorità, chiedendo assistenza umanitaria immediata per le famiglie ridotte sul lastrico. Dopo un contatto con il Gruppo EveryOne, che gli descriveva la situazione sul campo, interveniva, contemporaneamente ad alcuni gruppi di attivismo, il dottor Marco Squicciarini, Responsabile Nazionale della Croce Rossa Italiana per le attività di accoglienza e assistenza Rom e soggetti senza fissa dimora. Il dottor Squicciarini attivava un'azione di sostegno alle famiglie, identificando alcuni dei soggetti in cattive condizioni di salute e fornendo loro assistenza. Contemporaneamente, avvalendosi di una piccola rete virtuosa, riusciva a fornire coperte e generi di prima necessità a una parte degli sfollati, nonché a collaborare alla creazione di condizioni di vita minime presso la ex Heinken. Con un intervento "disperato", siamo riusciti a evitare che il dramma umanitario colpisse tutti e 500 i Rom, ma il futuro delle famiglie ricoverate in via Gordiani è quanto mai incerto. Il sindaco Alemanno ha annunciato la consueta procedura: accoglienza nei quattro campi-ghetto che esisteranno a Roma per gli "aventi diritto" e condanna a una "marcia della morte" oltre i confini di Roma per gli altri. Intanto, i movimenti neonazisti esultano e nei loro luoghi di ritrovo, virtuali e non, annunciano nuove manifestazioni per avere una Roma "zigeunerfrei", libera da "zingari". Roberto Fiore, capo di Forza Nuova, coglie questo momento di catastrofe umanitaria per tentare di colpire al cuore i Rom di Roma. Il 27 il suo movimento anti-stranieri ha annunciato una manifestazione presso il campo del Casilino 900. Atto assolutamente irresponsabile, che acuirà l'odio razziale già ben vivo nella capitale verso il popolo Rom e che si è espresso attraverso innumerevoli episodi di violenza razziale. Il Gruppo EveryOne invierà nei prossimi giorni una lettera aperta alle Istituzioni e alle autorità romane - per conoscenza all'Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, alla Commissione e al Consigli d'Europa - chiedendo che tale manifestazione non venga autorizzata e che invece siano attivati interventi di desegregazione e solidarietà per le comunità Rom fino ad oggi perseguitate in modo barbaro e iniquo.
Sottoscriviamo le dichiarazioni del dottor Marco Squicciarini: "Con i nostri interventi umanitari stiamo curando superficialmente le piaghe, mentre la patologia procede inarrestabile". Attendiamo un programma di intervento nazionale (cui forniremo volentieri un contributo), elaborato dal Responsabile Nazionale della Croce Rossa, necessario per definire efficacemente le politiche di intervento che occorrono per superare l'emergenza riguardante i Rom in Italia ed evitare che la crisi dei Diritti Umani nel nostro Paese si aggravi ulteriormente, con conseguenze sempre più catastrofiche. Ma è ormai impensabile che il solo dialogo con le Istituzioni, ormai malate incurabilmente di razzismo e xenofobia, possa limitare le politiche persecutorie, l'orgia di crudeltà e odio che inebria le autorità italiane. E' necessario sollecitare interventi da fuori, da parte di Istituzioni che ancora servono i valori della democrazia e le leggi che nei Paesi civili proteggono le minoranze e i poveri.

Gruppo EveryOne

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mercoledì 11 novembre 2009

http://www.youtube.com/watch?v=b4gymxY2zM8 andate a vedere questo video, la risposta Palestinese ad I am Israel fatto dagli israeliani.

IL MURO DELL'APARTHEID

E’ una barriera di cemento armato di 8-9 metri d’altezza.
Ogni panello costa 5,000 dollari, ed è largo 1 metro e mezzo.
È finanziato dagli Stati Uniti

E’ dotato di una recinzione elettronica con torrette, soldati armati e campi minati.

La sua costruzione è cominciata nel giugno 2002
Quando sarà ultimato avrà una lunghezza di 709 km


Israele lo chiama “recinzione di sicurezza”
o “barriera di separazione”
I Palestinesi lo chiamano “Muro dell’Aparthied”
….comunque lo si voglia chiamare
è UNA VERGOGNA.

Nell’estate del 2002, a seguito di una campagna di attentati suicidi Palestinesi, il governo Israeliano ha approvato la costruzione di una barriera con lo scopo dichiarato di impedire agli attentatori suicidi Palestinesi di entrare in Israele. Il 9 luglio con circa 200 Km di barriera già costruita, la Corte Internazionale di Giustizia, il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, ha emesso un Parere Consultivo sulle conseguenze legali della costruzione di un Muro nei territori Palestinesi occupati. Il parere riconosceva che Israele “ha il diritto e il dovere di rispondere allo scopo di proteggere la vita dei suoi cittadini (ma) le misure prese sono nondimeno obbligate a rimanere conformi all’applicazione della legge internazionale”.

Come è fatto il MURO:
La barriera è composta di recinzioni, fossati, filo spinato, barriere di sabbia, un sistema di controllo elettronico, strade per il pattugliamento e una zona cuscinetto. Circa 45 km della barriera già costruita sono costituiti da segmenti di cemento armato prefabbricati dell’altezza di 8-9 metri, che sono stati montati in modo da formare un Muro, questo in particolare nelle aree urbane di Gerusalemme, Betlemme, Qalqiliya e Tulkarm.
La lunghezza totale della Barriera è di 709 Km, più del doppio dei 320 km della Linea di Confine dell’Armistizio del 1949, tra la Cisgiordania e Israele, denominata comunemente LINEA VERDE

A che punto siamo con la costruzione:
Ne è già stato completato il 58,3%, un ulteriore 10,2% è attualmente in costruzione, e il restante 31,5% è stato progettato e approvato ma non ancora costruito.

Come è stata ottenuta la terra per costruire il MURO:
La terra ottenuta per la costruzione del Muro è stata requisita i proprietari Palestinesi dal Ministero della Difesa Israeliano attraverso provvedimenti militari. In genere gli ordini diventano esecutivi nel momento in cui vengono firmati e sono validi persino se non vengono notificati ai padroni delle proprietà. La maggior parte degli ordini hanno validità di 3 anni e sono rinnovabili. Il possesso della terra requisita dalla parte “Israeliana” della Barriera resta proprietà legale del padrone.

Conseguenze della costruzione del Muro, sui Territori Occupati Palestinesi:
La costruzione della Barriera isolerà più o meno il 9,5% dei Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est e la Terra di Nessuno.

Distanza tra il Muro e la LINEA VERDE (come sono comunemente chiamati i 320 km della Linea di Confine dell’Armistizio del 1949 tra la Cisgiordania e Israele)
Quando sarà finito circa il 15% della Barriera sarà stato costruito sulla Linea Verde o in Israele, il restante 85% all’interno dei Territori Palestinesi Occupati.


Come la costruzione del Muro ha influito sulla vita dei Palestinesi.
L’impatto della barriera è stato particolarmente duro sulla vita delle comunità rurali Palestinesi.
Ciò è dovuto, in parte alla distruzione di alberi, raccolti e sistemi di irrigazione causata dal sistema di barriere controllate elettronicamente, di strade per il pattugliamento, fossati e zone cuscinetto collocati sulla terra coltivabile Palestinese. Più significativamente il devastante cammino della Barriera attraverso 8 degli 11 governatorati dei Territori Occupati, isola le fattorie, le serre e distrugge terre e risorse idriche di decine di migliaia di Palestinesi. Il settore agricolo rappresenta l’11-20% dell’economia Palestinese, impiegando approssimativamente il 15% della forza lavoro ufficiale e fino al 39% della forza lavoro irregolare.
Si stima che l’80% dei Palestinesi possiede terra coltivabile, che viene lavorata collettivamente da famiglie allargate. Negli ultimi anni, il mancato accesso al mercato del lavoro in Israele e le crescenti restrizioni nella possibilità di movimento all’interno dei Territori Occupati hanno condotto ad una maggiore dipendenza dall’agricoltura come “ammortizzatore” di sopravvivenza.
Secondo la Banca Mondiale “circa 170.000 dunam di terra agricola fertile vengono colpite dalla costruzione della Barriera, esse rappresentano circa il 10,2% della terra coltivabile complessiva dei Territori Occupati con un valore economico medio di circa 38 milioni di Dollari – equivalente più o meno all’8% della produzione agricola Palestinese”.


Gerusalemme
La maggioranza dei circa 225.000 Palestinesi che detengono la Carta di Identità di Gerusalemme Est risiedono tra il Muro e la Linea Verde. Tuttavia il Muro separa da Gerusalemme Est le comunità palestinesi, Kafr Aqab e il Campo di Shu'fat, oggi all’interno degli attuali confini municipali.
Così come ne restano separate località come Ar Ram and Abu Dis che in precedenza erano quartieri periferici di Gerusalemme Est.

E gli Insediamenti e le Colonie?
80 insediamenti si troveranno collocati tra il Muro e la Linea Verde, quindi all’interno dei Territori Palestinesi Occupati.

Quanto costa il Muro
Secondo il Comitato per la revisione del bilancio dello stato Israeliano del 2007, il costo stimato per la costruzione dell’intera barriera era 13 -15 miliardi di NIS. Facendo riferimento agli impedimenti legali e alle carenze di budget il Ministero della Difesa ha dichiarato che nel 2008 ne sono stati completati solo altri 12 Km.

Come fanno i Palestinesi a passare da una parte all’altra?
I Palestinesi che vivono o devono arrivare alle loro terre che si trovano nella zona chiusa tra il Muro e la Linea Verde hanno bisogno di un permesso. Il Passaggio attraverso la Barriera avviene attraverso una serie di cancelli, e chek-point definiti, anche molto distanti tra di loro, che sono aperti secondo diversi calendari. Alcuni sono aperti su base quotidiana, altri settimanale altri stagionale.
http://zeitun.ning.com/profiles/blog/show?id=2875552%3ABlogPost%3A5853&xgs=1

Nell'anniversario della caduta del muro di Berlino I palestinesi aprono un varco nel muro a Kalandia

a uno dei siti del Comitato Popolare di Bil'in:

Un gruppo di palestinesi dei Comitati popolari hanno abbattuto una parte del Muro dell'Apartheid che separa Gerusalemme Est dalla Cisgiordania. Il 9 novembre un centinaio di palestinesi,sventolando bandiere palestinesi e indossando giubbotti fluorescenti con la scritta "ANDIAMO A GERUSALEMME" hanno tirato giù un pezzo del Muro vicino all'aeroporto di Kalandia. Ecco il seguente testo del volantino distribuito da quelli che hanno tirato giù il Muro vicino a Gerusalemme:
"Il 9 novembre del 1989 il mondo è stato testimone della demolizione del Muro di Berlino. Analogamente, in questo momento, vent'anni dopo, un gruppo di palestinesi ha demolito una parte del Muro dell'Apartheid intorno a Gerusalemme. Gerusalemme che sanguina ogni giorno... Gerusalemme i cui bambini sono senza casa sotto la pioggia. Questi giovani, ragazzi e ragazze, a cui è stato promesso dal presidente martire Yasser Arafat che avrebbero issato la bandiera palestinese sulle chiese e sulle moschee di Gerusalemme. Moschee e chiese , i cui luoghi sacri sono state profanati mentre noi aspettavamo passivamente la salvezza incosapevoli della responsabilità che incombeva su ognuno di noi.
Per Gerusalemme e per la Palestina è fondamentale ricostruire la resistenza popolare. Con questa iniziativa ci appelliamo a ritornare alle conquiste della sollevazione popolare che cominciò il 9 dicembre del 1987. Quest'anno, il 9 dicembre, chiamiamo la popolazione ad andare in massa verso Gerusalemme. Ci appelliamo che si formi una leadership nazionale unitaria e che guidi una sollevazione popolare di massa di cui tutto il popolo palestinese, i gruppi e le fazioni politiche sono parte. Questa sollevazione popolare sarà innovativa e produrrà altre iniziative insieme a una strategia di mobilitare il sostegno internazionale per la giustizia della nostra causa, come un modo per uscire dall'attuale impasse politica. Noi useremo questo sostegno per creare una pressione internazionale per porre fine all'occupazione, creare uno Stato indipendente palestinese con Gerusalemme come capitale e restaurare l'unità nel nostro popolo, dalla Cisgiordania a Gaza.

sabato 31 ottobre 2009

Le terribili condizioni delle donne palestinesi nei carceri israeliani

*
Non sono infatti poche le famiglie che hanno uno o più membri nelle carceri degli occupanti israeliani.

Oggi, un piccolo barlume di speranza si scorge all’orizzonte, poiché è in corso una trattativa al cui centro vi è uno scambio di prigionieri. Ma intanto, il numero dei prigionieri palestinesi non cessa di aumentare. Essi non sono solo maschi: molte donne soffrono nelle carceri israeliane, senza diritti né rispetto. E gli israeliani si fanno beffe della loro dignità.

Ancora trentatré prigioniere. All’inizio di ottobre sono state liberate circa venti prigioniere palestinesi, ma ne restano in carcere ancora trentatrè, afferma il ministero dei Prigionieri. Venticinque sono della Cisgiordania, quattro di Gerusalemme, tre dei Territori occupati nel 1948 ed una della Striscia di Gaza.

Ventuno di esse sono nella prigione di al-Sharun, undici in quella di al-Damoun. La prigioniera di Gaza, Wafa, si trova in quella di ar-Ramla.

Riyad al-Ashqar, direttore dell’Ufficio informazioni del ministero, afferma in un rapporto che il numero delle prigioniere palestinesi non è mai stabile. Alcune vengono fermate per una giornata, ma altre restano in galera per molto tempo in attesa di giudizio.

Le condizioni di detenzione. Bisogna innanzitutto sapere che alcune prigioniere vengono arrestate assieme ai loro parenti: tre con i loro mariti, due con i loro fratelli. Poi, che esse si trovano in condizioni molto difficili, a causa delle quali soffrono di diverse malattie, talvolta gravi. A titolo d’esempio, Fayza Jum‘a soffre di un tumore al collo dell’utero, ma non riceve le cure necessarie. Idem per Wafa Samir, che soffre di ulcera.
Già da questo s’intuisce che gli israeliani fanno di tutto per far patire le prigioniere palestinesi. Le celle sono mal aerate; l’umidità, i topi e gli insetti sono la regola.

Esse soffrono molto della mancanza di cure mediche, di consultori, di analisi, di radiografie, di visite specialistiche, soprattutto ginecologiche. Infezioni d’ogni tipo, spesso di origine sconosciuta, logorano le detenute esponendole a vari pericoli.

Il Rapporto sottolinea infine che le detenute sono anche oggetto di ispezioni umilianti, quali le visite a sorpresa durante la notte o le ispezioni corporali che comportano il loro denudamento di fronte ai carcerieri.
tratto da Infopal
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venerdì 30 ottobre 2009

Presentazione del mio libro "Gabbie" a Firenze

Venerdì 6 novembre 2009


Presso la Libreria Café La Cité

Borgo San Frediano 20 rosso Firenze alle ore 18:30

a cura dell’ Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus di Firenze

presentazione del libro “Gabbie” di Miriam Marino - Città del sole edizioni, 2009

in contemporanea lettura di brani tratti dal medesimo libro
ad opera di Cecilia Gallia



Miriam Marino, scrittrice, artista e attivista per i diritti umani, è impegnata in tre associazioni. Ha pubblicato libri di narrativa, poesia e saggistica, tra cui Non sparate sul pianista (1978), romanzo politico sul movimento del ’77, il piccolo saggio Il misticismo nell’arte contemporanea (1987), le raccolte di poesie sulle donne della Bibbia Madri d’Israele e Ruth (1999), Ingiustizia infinita, racconti sul conflitto israelo-palestinese e Handala (2008), raccolta di articoli e relazioni pubbliche degli ultimi anni. Collabora con riviste d’arte e letteratura e ha partecipato ad alcune mostre di arte contemporanea, in Ungheria e in Italia.


GABBIE
di Miriam Marino
Città del sole edizioni 2009

“L'autrice ha voluto scrivere, in modo profondo e semplice, di una situazione molto difficile, lasciando da parte il peso ideale, ideologico e storico del conflitto mediorientale. Riuscire a compiere una scelta politica e umana in un mondo e un conflitto così complicato, il sacrificio e le conseguenze che abbiamo patito, noi palestinesi li conosciamo, li apprezziamo, ma non tutti li comprendono…
Miriam Marino sogna un mondo semplicemente senza armi, senza guerre, più giusto e colorato, il mondo possibile nel quale crede, nel quale tutti noi ci riconosciamo ed al quale viene dedicato il pensiero costante che l'umanità possa realizzare solo attraverso la giustizia la promessa di pace.
Abbiamo bisogno di ponti, non di muri”.
Yousef Salman
Delegato della Mezza Luna Rossa Palestinese in Italia

BRUTTE NOTIZIE SU GAZA

Da Paola
In genere invio notizie solo di cui sono ragionevolmente sicura. Questa invece è un'ipotesi grave, che invio perché temo fondata. Il governo israeliano ha stabilito una lista nutrizionale minima, in base a cui permettere l'invio di alimenti a Gaza? In altre parole, gli abitanti che non fruiscono dell'economia dei tunnel e non hanno famigliari che lavorano per ONG estere, sono costretti a vivere della quantità minima di alimenti necessaria? Fin qui, l'ipotesi di Gisha (se è così, i tenutari israeliani del ghetto di Gaza somigliano ai proprietari di uno zoo, con la differenza che sono inumani). (In realtà, se è così, i più forti si accaparrano più del minimo di calorie e proteine necessarie, lasciando i più deboli al di sotto del minimo vitale. Come per l'appunto capita nei ghetti, non negli zoo, in cui gli animali sono in gabbie separate, ed a ciascuno dei quali è fornito il necessario). (Il mondo, intanto, tace, perché, come ognuno sa, 'Hamas è malvagio'). Gisha: http://www.gisha.org/index.php?intLanguage=2&intItemId=1618&intSiteSN=113

giovedì 29 ottobre 2009

La confessione di Silvio

La confessione di Silvio - DA LEGGERE ATTENTAMENTE!!

Berlusconi: 'Signor parroco, mi vorrei confessare' Parroco:
'Certo figliolo, qual'è il tuo nome?' Berlusconi: 'Silvio
Berlusconi, padre.' Parroco: 'Ah! Ah! Il presidente del
Consiglio!?' Berlusconi: 'Si, padre.' Parroco: 'Ascolta,
figliolo, credo che il tuo caso richieda una competenza superiore.
E' meglio che tu ti rechi dal Vescovo.' Così Berlusconi si
presenta dal Vescovo, chiedendogli se può confessarlo. Vescovo:
'Certo, come ti chiami?' Berlusconi: 'Silvio Berlusconi' Vescovo:
'Il presidente del Consiglio? No, caro mio, non ti posso
confessare: il tuo è un caso difficile. E' meglio che tu vada in
Vaticano.' Berlusconi va' dal Papa. Berlusconi: 'Sua Santità,
voglio confessarmi.' Papa: 'Caro figlio mio, come ti chiami?'
Berlusconi: 'Silvio Berlusconi' Papa: 'Ahi! Ahi! Ahi! Figliolo!
Il tuo caso è molto difficile per me. Guarda qui, sul lato del
Vaticano c'è una cappella. Al suo interno troverai una croce. Il
Signore ti potrà ascoltare.' Berlusconi, giunto nella cappella,
si rivolge alla Croce: 'Signore, voglio confessarmi.' Gesù:
'Certo, figlio mio, come ti chiami?' Berlusconi: 'Silvio
Berlusconi.' Gesù: 'Ma chi? Il Presidente del Consiglio?'
Berlusconi: 'Si, signore.' Gesù: 'L'ex amico di Craxi ?'
Berlusconi: 'Si, signore.' Gesù: 'L'inventore dello scudo fiscale
per far rientrare dalle isole Cayman e da Montecarlo tutti i
soldi che i tuoi amici hanno sottratto al fisco ?' Berlusconi:
'Si, signore.' Gesù: 'L'amico dei Neo-Fascisti e Neo-Nazisti,
particolare che si è dimenticato di riferire al Congresso
americano ?' Berlusconi: 'Ehm... si, Signore.' Gesù: 'Quello che
ha abbassato dell'1% le tasse dirette e costretto
comuni/province/regioni ad aumentare le tasse locali del 45% per
tenere aperti asili, trasporti, servizi sociali essenziali ?'
Berlusconi: 'Si, signore.' Gesù: 'Quello che ha ricandidato 13
persone già condannate con sentenza passata in giudicato?'
Berlusconi: 'Si, signore..' Gesù: 'Quello che ha modificato la
legge elettorale in modo che siano le segreterie di partito a
scegliere gli eletti e non più i cittadini ?' Berlusconi: 'Si,
signore.' Gesù: 'Quello che ha omesso qualsiasi controllo
sull'entrata in vigore dell'Euro permettendo a negozianti e
professionisti di raddoppiare i prezzi in barba a pensionati e
lavoratori a reddito fisso ?' Berlusconi: 'Si, signore.' Gesù:
'Quello che ha abolito la tassa di successione per i patrimoni
miliardari e subito dopo ha cointestato le sue aziende ai figli?'
Berlusconi: 'Si, signore.' Gesù: 'Quello che ha quadruplicato il
suo patrimonio personale e salvato le sue aziende dalla
bancarotta da quando è al governo e che dice che è entrato in
politica gratis per il bene degli italiani?' Berlusconi: 'Si,
signore.' Gesù: 'Quello che ha epurato dalla RAI I personaggi che
non gradiva?'
Berlusconi: 'Si, signore.' Gesù: 'Quello che ha fatto la
Ex-Cirielli, la Cirami e la salva-Previti ?' Berlusconi: 'Si,
signore.' Gesù: 'Quello che ha fatto una voragine nei conti dello
stato e ha cambiato 3 volte ministro del tesoro ?' Berlusconi:
'Si, signore.' Gesù: 'Quello che ha dato, a spese degli italiani,
il contributo per il decoder digitale per permettere al fratello
di fare soldi con una società che li produceva ?' Berlusconi:
'Si, signore.' Gesù: 'Quello che ha depenalizzato il falso in
bilancio ed ha introdotto la galera per chi masterizza I DVD ?'
Berlusconi: 'Si, signore.' Gesù: 'Quello che ha permesso alla
Francia di saccheggiare la BNL e si è fatto prendere a pesci in
faccia quando ENEL ha tentato di acquisire una società francese
?' Berlusconi: 'Ehm... sono sempre io, Signore.' Gesù: 'Figlio
mio, non hai bisogno di confessare. Tu devi solamente
ringraziare.' Berlusconi: 'Ringraziare???? E chi, Signore?' Gesù:
'Gli antichi Romani, per avermi inchiodato qui. Altrimenti sarei
sceso e t'avrei fatto un CULO COSI'!!! NOTA: TUTTI gli ITALIANI
che riceveranno questa comunicazione hanno 'obbligo CIVILE e
MORALE di inoltrarla agli AMICI: non sia mai che qualcuno lo voti
di nuovo!!!!!!!!!

IISRAELE RAZIONA L'ACQUA AI PALESTINESI

| di Michele Giorgio -
GERUSALEMME
APARTHEID
Amnesty: acqua, ai palestinesi il 20% agli israeliani l'80%
Israele lascia ai palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza una porzione minima dell'acqua della falda acquifera montana che si trova in gran parte nei territori occupati nel 1967. A denunciarlo è Amnesty International con un rapporto che arriva nel momento in cui la crisi idrica regionale si fa più acuta.
Esperti e ambientalisti hanno avvertito che ci vorranno due inverni molto piovosi per evitare razionamenti drastici dell'acqua. È perciò alto il rischio che i palestinesi paghino il prezzo più caro della siccità. La discriminazione più eclatante, evidenzia Amnesty, è che «gli insediamenti israeliani ricevono forniture illimitate d'acqua». I quasi 500 mila coloni israeliani (inclusi quelli a Gerusalemme est) ne consumano una quantità uguale o maggiore di quella disponibile per i 2,3 milioni di palestinesi della Cisgiordania. Israele, riferisce Amnesty, «usa più dell'80% della falda acquifera montana e limita ai palestinesi l'accesso a un mero 20%».
Sotto accusa l'intera distribuzione dell'acqua, gestita fin dal 1967 dalla israeliana Mekorot. Un cittadino israeliano ha a sua disposizione quotidianamente 300 litri d'acqua, contro i 70 di un palestinese. In alcune comunità rurali dei Territori occupati il consumo pro capite scende a 20 litri. In contrasto rispetto a quella della popolazione palestinese è la situazione negli insediamenti colonici dove, dice Amnesty, «ci sono fattorie a agricoltura intensiva, giardini lussureggianti e piscine».
Di eccezionale gravità la situazione a Gaza, dove il 90-95% dell'acqua viene da una falda costiera contaminata, e Israele pone restrizioni all'ingresso nella Striscia dei materiali necessari per riparare e sviluppare le infrastrutture. Attraverso la sua responsabile per il Medio Oriente, Donatella Rovera, Amnesty chiede allo Stato ebraico di mettere fine «alle sue pratiche discriminatorie e alle restrizioni imposte ai palestinesi per l'accesso all'acqua». L'acqua, sottolinea Rovera, «è una necessità fondamentale e un diritto, ma per molti palestinesi anche ottenerne quantità scadenti necessarie per la sopravvivenza è divenuto un lusso».
E proprio la situazione di Gaza arroventa le relazioni tra Israele e Turchia. Ieri il premier turco Erdogan, in una intervista al quotidiano britannico Guardian, ha accusato il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman di aver minacciato di attaccare Gaza con un ordigno nucleare. «Le bombe al fosforo (usate da Israele a Gaza) - ha aggiunto il primo ministro turco a proposito di «Piombo fuso» - sono armi di distruzione di massa. Rimanere in silenzio riguardo ad esse non sarebbe giusto».