sabato 31 marzo 2012

la macchina vandalizzata

A un ebreo romano vandalo e vigliacco!

Voglio esprimere la mia solidarietà al compagno e carissimo amico Mariano Mingarelli per l'atto vandalico ai danni della sua macchina da parte di uno dei facinorosi che ieri durante il presidio davanti all'ambasciata israeliana si sono appostati poco lontano con l'intento di disturbare e aggredire la manifestazione, tentativo non riuscito per fortuna.

A un ebreo romano vandalo e vigliacco!

Dov’eri giovane (?) ebreo sionista romano quando ieri, venerdì 30 marzo, verso le 17 ho parcheggiato la mia auto il via Carlo Linneo, prima del n°1, per potermi recare in prossimità dell’ambasciata di Israele, dove si celebrava la ricorrenza della Giornata della Terra insieme alla Marcia Globale per Gerusalemme? Dov’eri? Forse, nascosto dietro le tende di casa tua, mi hai osservato mentre estraevo dal baule la bandiera della Palestina, e a quella vista ti ha preso un improvviso sussulto di odio. Prudentemente hai aspettato che mi allontanassi, che nessuno potesse notarti e, solo a questo punto, sei uscito e “coraggiosamente” hai sfregiato l’auto tracciandovi sopra, non una, ma ben tre stelle di Davide, belle, grandi, ben visibili, sul cofano e sugli sportelli laterali, di colore azzurro com’è la bandiera che tanto adori.


Com’hai fatto a nasconderti alla vista degli altri? Ti sei mimetizzato tra le foglie dei cespugli o nell’ombra delle case, fors’anche della tua, prima di fare sparire la bomboletta dello spray usato, l’arma della tua audace vendetta? Quando ho visto l’effetto del tuo gesto vandalico, pur turbato dal dover portare con me il simbolo di ciò che più di ogni altro si identifica con l’arroganza della violenza, con l’illegalità fatta sistema di potere e di oppressione, con la menzogna della disinformazione “corretta”, mi sono ripreso pensando che, in fin dei conti, non me l’avevi incendiata, com’è prassi per la gente come te!

Non credo poi di sbagliare pensando che tu eri solo mentre tracciavi, nell’inebriante orgasmo dell’avventura, le stelle di Davide. E’ vero, una quindicina di facinorosi con le bandiere dello stato di Israele avevano cercato di turbare la tranquillità della manifestazione , ma erano state tenute a distanza dalle forze dell’ordine. Se qualcuno di loro ti fosse stato complice nel tuo atto ardimentoso, di certo avrei trovato l’auto decorata da un firmamento di stelle, oppure totalmente distrutta. Ma in questo sta il tuo orgoglio: hai affrontato il pericolo tutto da solo! Non credo, però, che sarai tanto stupido da farti avanti e gridare: sono stato io!

Un ufficiale del corpo dei carabinieri della Stazione Roma – Parioli ha fatto tutti i rilievi del caso, comprese le foto delle tue opere d’arte. Qui, a Firenze, ho fatto la denuncia dell’atto vandalico subito alla Stazione dei Carabinieri di Campo di Marte.

Ma tu starai ridendo al pensiero: che ingenuo! Altre aggressioni sono state fatte a Roma, nel passato più o meno recente, da esponenti della comunità ebraica nei confronti di manifestanti a favore della Palestina e mai nessuno è stato inquisito! Certo, per una svastica nazista, tutti si sarebbero mossi, una pletora di rappresentanti politici avrebbero fatto sentire la loro doverosa condanna dello sfregio, tutti i media ne avrebbero parlato. Che cosa vuoi che sia un’auto vandalizzata da tre azzurre stelle di Davide? Che sarà mai che dei pacifici manifestanti filo-palestinesi debbano chiedere alle forze dell’ordine, preposte, garanzie di sicurezza per potersi allontanare dal luogo dell’evento? E’ assurdo!

Ma la comunità ebraica romana che nutre nel proprio seno una carica di tale violenza, che fa? Come mai non espelle, ma anzi tutela, chi fa della violazione del diritto degli altri una prassi di vita? Come fa a credersi sempre una vittima, sempre aggredita, e mai un aggressore irresponsabile? Come fa a ritenere che la tragedia subita nel passato rappresenti l’alibi per qualsiasi crimine, per qualsiasi violazione del diritto, quasi che le norme che regolano il comportamento tra le persone civili non la riguardino?
Mariano Mingarelli

checkpoint di betlemme

LAND DAY: UN MORTO A GAZA, DECINE DI FERITI

Dispiegamento massiccio di polizia ed esercito nei Territori Occupati in occasione della Giornata della Terra (Land Day). Scontri tra soldati e manifestanti, feriti a Gerusalemme Qalandia e Gaza. Marcia anche in Giordania con religiosi ebrei pacifisti.

DALLA REDAZIONE

Gerusalemme, 30 marzo 2012, Nena News – Sono decine i feriti durante gli scontri al checkpoint di Qalandia vicino a Ramallah e alla Porta di Damasco della città vecchia a Gerusalemme. Centinaia i manifestanti che si sono riuniti per la Giornata della Terra e la concomitante Marcia globale su Gerusalemme.

E’ stata confermata questa sera la morte di un manifestante durante gli scontri a Gaza, particolarmente violenti nella “buffer zone”, la zona militare imposta da Israele che contorna il muro attorno alla Striscia. Si tratta di Mahmoud Zaqout, di 20 anni, colpito in pieno pezzo da un proiettile sparato dai soldati israaliani. La polizia di Hamas, in assetto anti-sommossa, ha fatto di tutto per contenere le manifestazioni ed impedire che i dimostranti arrivassero al valico di Erez con Israele. La fotoreporter italiana Rosa Schiano ha riferito che oltre all’ucciso ci sono almeno altri 16 palestinesi feriti.

A Gerusalemme, la polizia israeliana a cavallo ha caricato i manifestanti riunitisi subito dopo la preghiera del venerdì. Più di cinquecento persone hanno sfilato dalla moschea Al Aqsa verso la porta di Damasco, dove hanno trovato ad attenderli centinaia di poliziotti. I manifestanti hanno sfilato gridando “il popolo vuole la fine dell’occupazione” e si sono protetti dalle cariche dietro barricate di cassonetti della spazzatura sulla Nablus Road, all’uscita della città vecchia. All’escalare della violenza della polizia, gruppi di donne hanno incitato il corteo a proseguire la manifestazione.

A Qalandia (Ramallah) due feriti gravi: uno colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno, l’altro centrato da un proitettile di gomma. Secondo le prime stime, più un centinaio i feriti portati via in ambulanza, tra cui Mustafa Barghouti, leader del partito di “Iniziativa nazionale” (Mubadara), apparentemente aggredito da ragazzi palestinesi di un partito avverso, innervositi dal suo rifiuto di coordinare il corteo con loro. Sin dalla mattina si erano verificati scontri tra bambini che lanciavano pietre e l’esercito che rispondeva con candelotti di gas lacrimogeni e bombe assordanti. Dopo la preghiera del venerdì, centinaia di persone si sono avviate in corteo verso il checkpoint, accolti da uno spiegamento massiccio di militari israeliani muniti di bombe sonore, gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Un gruppo di soldati ha sfondato il portone di un edificio non lontano dal checkpoint per appostarsi sul tetto.


Meno tesa la situazione a Betlemme, dove un cordone di poliziotti palestinesi si è disposto a protezione del checkpoint. Una cinquantina di ragazzi ha sfondato il blocco e lanciato pietre contro la torretta militare israeliana, all’ingresso del passaggio per le macchine. Staccato il cartello che a caratteri cubitali annunciava “Benvenuti a Gerusalemme” all’ingresso del checkpoint. Il fuoco israeliano ha ferito seriamente un giovane.

Diversi gli arresti: a Nabi Saleh un gruppo di palestinesi all’ingresso del villaggio, a Qalandia un attivista internazionale, che, isolato dal gruppo, è stato portato via in camionetta.

Migliaia di uomini sono stati schierati da Israele in vista della Giornata della Terra (Land Day), giorno in cui un milione di persone, tra i territori palestinesi, il mondo arabo e diversi altri paesi commemora le vittime del 30 marzo 1976. In vista della marcia verso Gerusalemme, i principali checkpoint di collegamento tra il nord e il sud della Cisgiordania, così come quelli di ingresso alla Città Santa, sono stati chiusi sin dal mattino.

Alle frontiere nesun incidente particolare sino al primo pomeriggio. In Libano, i gruppi di palestinesi che hanno tentato di dirigersi verso la frontiera sono stati fermati molto prima dalle forze di sicurezza libanesi. In Giordania migliaia di manifestanti, tra i quali anche diversi cittadini europei e una delegazione di ebrei pacifisti, si sono riversati verso il confine con Israele tra imponenti misure di sicurezza. La protesta, organizzata dal movimento islamico, ha visto la partecipazione di delegazioni anche da Siria, Iraq, Malaysia e India. “Siamo qui – ha detto il rabbino canadese David Fieldman – per dire che l’occupazione di Gerusalemme, della Palestina, è sbagliata. Questo non è ebraismo, questa non è la voce degli ebrei. Questa è una catastrofe per il popolo palestinese. Non possiamo permettere che ciò continui”. Nena News

giovedì 29 marzo 2012

MARCIA SU GERUSALEMME: LA VIGILIA

Un milione di persone nel mondo parteciperanno alle manifestazioni per ricordare le vittime palestinesi della repressione israeliana per il 36° anniversario della “Giornata delle Terra”. Le proteste principali in Cisgiordania: Israele si mantiene in massima allerta.

MARTA FORTUNATO

Beit Sahour, 29 marzo 2012, Nena News – “Per la prima volta il popolo palestinese non sarà solo in occasione della celebrazione della Giornata della Terra. Quest’anno c’è stata una trasformazione qualitativa del livello di solidarietà ed un’internazionalizzazione dell’evento con il sostegno di oltre 60 paesi del mondo”. A meno di 24 ore dall’inizio delle manifestazioni e delle proteste organizzate in occasione del 30 marzo, Adnan Ramadan, direttore esecutivo dell’OPGAI (Occupied Palestinian and Golan Hights Advocacy Initiative) è speranzoso – da mesi associazioni palestinesi ed internazionali stanno preparando la Marcia Globale su Gerusalemme. Ed ora, finalmente, tutto è pronto, le attività possono cominciare”.

Gli eventi avranno inizio domani, verso mezzogiorno. In totale gli organizzatori prevedono un milione di persone per le strade. Nelle piazze delle principali città del mondo ci saranno manifestazioni e proteste davanti alle ambasciate israeliane, mentre in Medio Oriente quattro diverse marce, dalla Giordania, dall’Egitto, dalla Siria e dal Libano, si dirigeranno contemporaneamente verso i confini israeliani. In Israele, i palestinesi del ‘48 saranno gli unici ai quali sarà permesso raggiungere la Città Santa. In Cisgiordania centinaia le attività previste. “Nell’area di Betlemme l’evento principale è una manifestazione davanti al posto di blocco che separa Gerusalemme da Betlemme (il check-point 300)” ha spiegato Ramadan– ma ci sono moltissime altre piccole iniziative: ad esempio nei villaggi di al-Khader e di al-Walaje attivisti palestinesi ed internazionali pianteranno alberi di olivo su terre a rischio di confisca come segno di lotta e di resistenza”. Un’altra grande manifestazione è prevista presso il check-point di Qalandya.

“Saranno dimostrazioni pacifiche, non ci sarà nessun tentativo diretto di sfidare le autorità israeliane, cercheremo di evitare ogni tipo di violenza” annunciano gli organizzatori. Ma Israele si prepara: secondo una dichiarazione ufficiale dell’IDF, l’esercito israeliano “è pronto a qualsiasi eventualità e farà tutto il necessario per difendere i confini ed i cittadini di Israele”. Tuttavia, come ha spiegato Adnan “a differenza delle manifestazioni che hanno avuto luogo l’anno scorso in occasione della Nakba che hanno colto di sorpresa l’esercito israeliano con risultati catastrofici [12 palestinesi uccisi e centinaia feriti], domani si cercherà davvero di evitare ogni scontro diretto tra le de parti”.

E intanto a Gerusalemme sono già iniziate alcune attività: attivisti palestinesi ed internazionali stanno piantando ulivi e svolgendo azioni di solidarietà. Domani, in molte aree di Gerusalemme Est ci saranno manifestazioni e proteste “per sottolineare l’importanza e la centralità della città nella questione palestinese”- ha spiegato il direttore di OPGAI.

“Quello che sta avvenendo nella città santa è un processo di giudaizzazione e di espulsione della popolazione palestinese” ha affermato Sergio Yahni dell’Alternative Information Center – più del 65% della famiglie palestinesi vivono sotto la soglia di povertà e la situazione peggiora giorno dopo giorno”.

Gerusalemme è stata inizialmente dichiarata territorio internazionale secondo il piano di spartizione ONU del 1947 e tale status è stato rinforzato con la risoluzione ONU 194 del 1948. In seguito, nel 1967 Israele ha annesso dal punto di vista amministrativo le aree appartenenti a Gerusalemme Est per poi annetterle ufficialmente nel 1980. Tuttavia, secondo il diritto internazionale, Gerusalemme Est è territorio occupato. “Gli abitanti palestinesi, non cittadinai ma semplice residenti s- sono trattai alla streua di immigrati, a cui lo Stato può ritirare a suo piacimento “il favore” di aver diritto alla residenza” – chiarische Yahni. Dal 1967, sono 8 269 i permessi di residenza ritirati ai Palestinesi di Gerusalemme. Oggi la popolazione totale della città è pari a 773.800 abitanti (dati del 2009), di cui il 65% sono cittadini israeliani ed il rimanente 35% sono palestinesi. Tuttavia non bisogna dimenticare che ci sono più di 100.000 residenti che sono stati isolati da Gerusalemme Est dopo la costruzione del muro di annessione. Sono i quartieri di Kufr Aqab, al-Izzariyeh, Abu Dis, tagliati fuori non solo dalla città santa ma anche dalle statistiche ufficiali. Ed è proprio in queste località che domani ci saranno manifestazioni e proteste, per mettere l’accento sulla centralità di Gerusalemme nella questione palestinese. Nena News

MARCIA SU GERUSALEMME: LA VIGILIA

Un milione di persone nel mondo parteciperanno alle manifestazioni per ricordare le vittime palestinesi della repressione israeliana per il 36° anniversario della “Giornata delle Terra”. Le proteste principali in Cisgiordania: Israele si mantiene in massima allerta.

MARTA FORTUNATO

Beit Sahour, 29 marzo 2012, Nena News – “Per la prima volta il popolo palestinese non sarà solo in occasione della celebrazione della Giornata della Terra. Quest’anno c’è stata una trasformazione qualitativa del livello di solidarietà ed un’internazionalizzazione dell’evento con il sostegno di oltre 60 paesi del mondo”. A meno di 24 ore dall’inizio delle manifestazioni e delle proteste organizzate in occasione del 30 marzo, Adnan Ramadan, direttore esecutivo dell’OPGAI (Occupied Palestinian and Golan Hights Advocacy Initiative) è speranzoso – da mesi associazioni palestinesi ed internazionali stanno preparando la Marcia Globale su Gerusalemme. Ed ora, finalmente, tutto è pronto, le attività possono cominciare”.

Gli eventi avranno inizio domani, verso mezzogiorno. In totale gli organizzatori prevedono un milione di persone per le strade. Nelle piazze delle principali città del mondo ci saranno manifestazioni e proteste davanti alle ambasciate israeliane, mentre in Medio Oriente quattro diverse marce, dalla Giordania, dall’Egitto, dalla Siria e dal Libano, si dirigeranno contemporaneamente verso i confini israeliani. In Israele, i palestinesi del ‘48 saranno gli unici ai quali sarà permesso raggiungere la Città Santa. In Cisgiordania centinaia le attività previste. “Nell’area di Betlemme l’evento principale è una manifestazione davanti al posto di blocco che separa Gerusalemme da Betlemme (il check-point 300)” ha spiegato Ramadan– ma ci sono moltissime altre piccole iniziative: ad esempio nei villaggi di al-Khader e di al-Walaje attivisti palestinesi ed internazionali pianteranno alberi di olivo su terre a rischio di confisca come segno di lotta e di resistenza”. Un’altra grande manifestazione è prevista presso il check-point di Qalandya.

“Saranno dimostrazioni pacifiche, non ci sarà nessun tentativo diretto di sfidare le autorità israeliane, cercheremo di evitare ogni tipo di violenza” annunciano gli organizzatori. Ma Israele si prepara: secondo una dichiarazione ufficiale dell’IDF, l’esercito israeliano “è pronto a qualsiasi eventualità e farà tutto il necessario per difendere i confini ed i cittadini di Israele”. Tuttavia, come ha spiegato Adnan “a differenza delle manifestazioni che hanno avuto luogo l’anno scorso in occasione della Nakba che hanno colto di sorpresa l’esercito israeliano con risultati catastrofici [12 palestinesi uccisi e centinaia feriti], domani si cercherà davvero di evitare ogni scontro diretto tra le de parti”.

E intanto a Gerusalemme sono già iniziate alcune attività: attivisti palestinesi ed internazionali stanno piantando ulivi e svolgendo azioni di solidarietà. Domani, in molte aree di Gerusalemme Est ci saranno manifestazioni e proteste “per sottolineare l’importanza e la centralità della città nella questione palestinese”- ha spiegato il direttore di OPGAI.

“Quello che sta avvenendo nella città santa è un processo di giudaizzazione e di espulsione della popolazione palestinese” ha affermato Sergio Yahni dell’Alternative Information Center – più del 65% della famiglie palestinesi vivono sotto la soglia di povertà e la situazione peggiora giorno dopo giorno”.

Gerusalemme è stata inizialmente dichiarata territorio internazionale secondo il piano di spartizione ONU del 1947 e tale status è stato rinforzato con la risoluzione ONU 194 del 1948. In seguito, nel 1967 Israele ha annesso dal punto di vista amministrativo le aree appartenenti a Gerusalemme Est per poi annetterle ufficialmente nel 1980. Tuttavia, secondo il diritto internazionale, Gerusalemme Est è territorio occupato. “Gli abitanti palestinesi, non cittadinai ma semplice residenti s- sono trattai alla streua di immigrati, a cui lo Stato può ritirare a suo piacimento “il favore” di aver diritto alla residenza” – chiarische Yahni. Dal 1967, sono 8 269 i permessi di residenza ritirati ai Palestinesi di Gerusalemme. Oggi la popolazione totale della città è pari a 773.800 abitanti (dati del 2009), di cui il 65% sono cittadini israeliani ed il rimanente 35% sono palestinesi. Tuttavia non bisogna dimenticare che ci sono più di 100.000 residenti che sono stati isolati da Gerusalemme Est dopo la costruzione del muro di annessione. Sono i quartieri di Kufr Aqab, al-Izzariyeh, Abu Dis, tagliati fuori non solo dalla città santa ma anche dalle statistiche ufficiali. Ed è proprio in queste località che domani ci saranno manifestazioni e proteste, per mettere l’accento sulla centralità di Gerusalemme nella questione palestinese. Nena News

1967-2012: Storia del movimento dei prigionieri palestinesi

1967-2012: Storia del movimento dei prigionieri palestinesi
di Emma Mancini


La prigione israeliana non è solo sbarre, umiliazione, materassi a terra, cibo di bassa qualità, isolamento. Può trasformarsi in rinascita, lotta, coscienza. Questo è quello che le decine di migliaia di prigionieri palestinesi hanno saputo costruire nel tempo: fare della prigione una forma di educazione politica. Dall’epoca d’oro negli anni Ottanta fino al declino individualista di oggi.


“Sono tre le fasi che il movimento dei prigionieri ha vissuto dal 1967 ad oggi”, spiega all’Alternative Information Center Khader Abu Kabbara, presidente del Club Ortodosso di Beit Jala ed ex direttore dell’YMCA di Ramallah. Khader, da membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ha trascorso nove anni in diverse prigioni israeliane, negli anni Ottanta, poi di nuovo nel 1994 e infine all’inizio della Seconda Intifada.



“Nella lotta per la liberazione della Palestina – racconta – il movimento dei prigionieri ha avuto ed ha un ruolo fondamentale. È nelle prigioni che si è formata una generazione politica, una presa di coscienza. La cella è diventata per molti un’università”.

All’indomani dell’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967, le carceri si sono riempite di combattenti, molti provenienti dalla Giordania, giovani spesso analfabeti e con una scarsissima preparazione politica. “La prima fase del movimento dei prigionieri inizia nel 1967 e arriva fino al 1978-1980 – continua Khader Abu Kabbara – La situazione nelle carceri era terribile: si viveva in celle sovraffollate, si dormiva in materassi di gomma, non si poteva parlare né leggere. E la stragrande maggioranza dei prigionieri non era alfabetizzata e non possedeva conoscenze politiche o sociali”.

Una fase in cui la protesta non era ammessa: “Non si chiedeva nulla ai secondini. Domandare il rispetto dei propri diritti era considerato poco dignitoso, una vergogna. Nessuno doveva interagire con l’amministrazione carceraria. E quindi nessuno pensava di organizzare proteste per ottenere quanto spettava di diritto. Ma proprio le condizioni disumane in cui si era costretti a vivere nelle prigioni israeliane ha portato alla nascita di una nuova presa di coscienza. La consapevolezza che si trattava di diritti basilari ha permesso l’avvio delle prime forme di protesta e di organizzazione interna”.

Parte la transizione verso la seconda fase, attraverso due eventi di fondamentale importanza per il movimento dei detenuti palestinesi: i due scioperi della fame collettivi del 1976 e del 1980, il primo nella prigione di Ashkelon, il secondo in quella di Nafa. “Così siamo entrati in quella che definiamo ‘l’era d’oro’ – prosegue Abu Kabbara – La comunità dei prigionieri si organizza, diventa strutturata. Le proteste sono continue e collettive: tre scioperi della fame nel 1984, nel 1985 e nel 1987 attraverso i quali i detenuti ottengono vittorie importantissime: letti e non più solo materassi, celle meno affollate, coperte, televisione e radio, libri. Ma soprattutto sfidano il divieto dei carcerieri: i prigionieri si incontrano, parlano, condividono esperienze e posizioni politiche”.

Si sviluppano e si rafforzano le condizioni necessarie alla lotta politica, non solo dentro le carceri, ma anche al di fuori: se prima la comunità dei prigionieri viveva della propria quotidianità, di propri valori e tradizioni completamente separati da quelli della società esterna, nella seconda fase le due realtà si intersecano e si condizionano.

“La grande differenza tra il 1967 e il 1980 – spiega Khader all’AIC – è anche il tipo di prigionieri che finiscono in carcere: professori, insegnanti, medici, intellettuali, laureati. Le celle diventano aule universitarie. Ricordo che le mie lezioni di filosofia erano sempre affollate, ne tenevo anche cinque al giorno. Ma non solo: aumentano anche i contatti con la società esterna e con le altre carceri. Utilizzavamo il metodo delle capsule: arrotolavamo pezzi di carta con i messaggi da inviare fino a farli diventare piccoli come una pillola, li coprivamo con il nylon e poi li ingoiavamo. Lo facevamo quando avevamo visite e quando sapevamo di essere trasferiti, per poter recapitare il messaggio. Oppure, tagliavamo il cemento delle celle, ci nascondevamo dentro libri e archivi e poi fondevamo il pavimento di nuovo. Ogni volta che gli israeliani perquisivano le celle, non riuscivano a trovare nulla”.

“Pensate che nel 1994 nascosi l’intero archivio del PFLP, nomi, indirizzi, letteratura, nel pavimento della mia cella in Negev. Quando nel 2002 venni di nuovo arrestato in detenzione amministrativa, mi portarono in Negev, nella stessa cella. Ho controllato: l’archivio era ancora là”.

“La terza fase è cominciata con gli accordi di Oslo – continua Abu Kabbara – ed è considerabile la fase del declino. Proprio la nascita dell’Autorità Palestinese ha spezzato le gambe al movimento dei prigionieri. Con quegli accordi, è stata sconfitta la cultura della lotta e della resistenza. Sono cambiati i valori di base della società palestinese, ora alla caccia di una pacificazione a tutti i costi. La maggior parte dei prigionieri allora detenuti sono stati rilasciati e quelli ancora dietro le sbarre sono frustrati e incapaci di lottare come prima”.

Un obiettivo per cui le autorità israeliane hanno lavorato a lungo: un nuovo programma diretto alle carceri e volto a distruggere quello che resta di un movimento collettivo e strutturato. “Prima di tutto, l’aumento del costo di essere prigionieri. È lo stesso detenuto che paga il suo costo: deve comprarsi il cibo, i vestiti, le coperte, perché l’amministrazione carceraria non passa nulla se non cibo di scarsa qualità e quantità. In secondo luogo, i rilasci: nel 1985 ci fu lo scambio tra tre soldati israeliani e 1.150 prigionieri palestinesi: vennero liberati i leader del movimento e dei partiti politici che poi guidarono la Prima Intifada. Nello scambio dello scorso ottobre, Israele ha rilasciato pochissimi leader politici, molti sono stati arrestati poco dopo e altri sono stati deportati a Gaza o all’estero. Israele ha compreso la pericolosità di un ex prigioniero nella società”.

“Infine, si distraggono i prigionieri attraverso lavori manuali oggi consentiti che poi possono essere venduti all’esterno. Il tempo viene utilizzato individualmente, per produrre qualcosa di vendibile, e non più per la formazione politica, lo scambio e la condivisione. Non c’è tempo per leggere”.

“E proprio questo fattore ha spinto la comunità dei detenuti palestinesi a passare da un livello collettivo ad uno individuale – conclude Khader – Da un interesse comune e politico ad un interesse personale. basta guardare alle lotte messe in piedi in questo periodo da Khader Adnan e Hana Shalabi. In passato non sarebbe mai stato possibile uno sciopero della fame individuale e non collettivo”.

http://www.alternativenews.org/italiano/index.php/topics/11-aic-projects/3497-1967-2012-storia-del-movimento-dei-prigionieri-palestinesi

mercoledì 28 marzo 2012

colonie

ISRAELE E LE SUE COLONIE: NO AL CONSIGLIO ONU PER I DIRITTI UMANI

Lo Stato ebraico ha interrotto i rapporti dopo che il Consiglio Onu per i diritti umani ha deciso di inviare nei Territori occupati una commissione per accertare le ripercussioni «civili, politiche, economiche, sociali e culturali» delle colonie ebraiche sulla vita della popolazione palestinese.

Gerusalemme, 27 marzo 2012, Nena News – Israele ha deciso di interrompere ogni rapporto di lavoro con il Consiglio Onu per i diritti umani (Unhrc). «Non risponderemo più nemmeno alle telefonate», ha avvertito una fonte ufficiale dopo il passo fatto ieri dal ministro degli esteri Avigdor Lieberman di «rompere ogni contatto» con l’Unhrc, che ha sede a Ginevra. All’origine di questa decisione c’è il voto di giovedì scorso al Consiglio per i diritti umani di inviare nei Territori occupati, su richiesta dell’Anp, una commissione incaricata di raccogliere informazioni sulle ripercussioni «civili, politiche, economiche, sociali e culturali» delle colonie ebraiche – costruite da Israele in violazione della legge internazionale – sulla vita della popolazione palestinese. Una risoluzione adottata con 36 voti favorevoli e dieci astensioni: solo gli Stati uniti hanno votato contro.

Tel Aviv si prepara a non dare alcuna cooperazione alla commissione che, come ha fatto capire domenica il vice ministro degli esteri Moshe Ayalon, con ogni probabilità non sarà autorizzata a raggiungere i Territori palestinesi. Lo stesso accadde con la commissione d’inchiesta Goldstone, formata per indagare sui crimini di guerra commessi durante l’offensiva israeliana «Piombo fuso» (dicembre 2008 – gennaio 2009), che fu costretta ad entrare a Gaza passando per il valico di Rafah con l’Egitto. Israele potrebbe inoltre decidere ritorsioni nei confronti dei dirigenti dell’Anp che, afferma, avrebbero adottato «un approccio unilaterale… e usano la questione delle colonie per giustificare qualsiasi cosa». Giovedì scorso, dopo aver appreso del voto a Ginevra, il premier Benyamin Netanyahu aveva subito bollato la risoluzione come «ipocrita», ricordando che il Consiglio «ha finora assunto 91 decisioni, 39 delle quali relative a Israele, tre alla Siria e una all’Iran. Non tutti però in Israele condividono la linea del primo ministro di difesa ad oltranza delle colonie e, quindi, dell’occupazione. Nelle prossime settimane, ad esempio, tre giovani “refusnik” andranno in prigione, perché «colpevoli» di aver rifiutato il servizio di leva in protesta con la linea militarista del governo. Una scelta che lo Stato ebraico non riconosce come diritto. «Rifiuto il servizio militare per solidarietà con i palestinesi che lottano contro l’occupazione – ha spiegato Alon Gurman, 18enne di Tel Aviv, che entrerà in carcere il prossimo 16 aprile – Spero d’incoraggiare altri a fare lo stesso». Nena News

Dichiarazione sull’ «Acqua in Palestina»

Posted by fame2012 mar - 20 - 2012 0 Comment

I partecipanti al FAME, svoltosi dal 14 al 17 marzo 2012 a Marsiglia, dopo aver discusso della situazione dell’acqua in Palestina, segnata – stando alle diverse comunicazioni presentate - da un vero e proprio “apartheid dell’acqua”, sono giunti alle seguenti conclusioni:

1 – il conflitto israelo-palestinese ha radici e ragioni essenzialmente politiche. Tuttavia l’acqua è al centro di tale conflitto.

2 – In base alle convenzioni di Ginevra, ricade su Israele, in quanto occupante, la responsabilità di garantire l’erogazione di acqua necessaria alla popolazione palestinese sotto occupazione.

3 – In questo conflitto Israele utilizza l’acqua come arma politica e come strumento di pulizia etnica, applicando in particolare le Ordinanze militari n. 92 del 15 agosto 1967 e n. 158 del 30 ottobre 1967.

4 – Israele conduce una vera e propria politica di “apartheid idraulico” contro i Palestinesi per costringerli ad abbandonare le loro terre ai coloni illegali. Per questo un palestinese ha a disposizione solo un quarto di quanto invece consuma un israeliano e gli è persino proibito di raccogliere l’acqua piovana.

5 - Il muro di separazione – o meglio della Vergogna – considerato illegale dalla giustizia internazionale, separa le famiglie, ruba ai Palestinesi la loro acqua a vantaggio dei coloni, e impedisce loro di coltivare i campi e gli uliveti. Il che è ancor più grave tenuto conto che l’agricoltura rappresenta il 15% del PIL palestinese.

6 – Mekorot – Gestore del National Water Carrier (NWC) – attua una politica discriminatoria nei confronti dei Palestinesi che fa loro dire che essi vivono nel “paese della sete”.

7 – Israele impedisce ai Palestinesi di accedere a una depurazione corretta. Il che mette in pericolo la loro salute e rischia di contaminare le falde alle quali attingono sia i Palestinesi sia gli occupanti israeliani.

8 – La situazione di Gaza sia dal punto di vista dell’”acqua potabile” sia della “depurazione” è un attentato alla dignità umana ed è francamente insopportabile.

9 – Le popolazioni nomadi vivono situazioni intollerabili per quanto riguarda l’acqua la cui penuria, organizzata dall’occupante, rende la loro vita impossibile e decima i loro armenti (l’accesso ai pascoli è proibito)

Per tutte queste ragioni, i partecipanti al FAME condannano con forza le politiche israeliane nei confronti dei Palestinesi per quanto riguarda l’acqua, che non possono non essere considerate criminali. Denunciano nel contempo le continue violazioni del diritto all’acqua dei Palestinesi.

Chiedono l’istituzione di una Commissione di verifica di tale situazione e la costituzione di un Tribunale Internazionale dell’Acqua per mettere fine alla giustizia negata in questo campo.

Fanno appello a tutte le donne e uomini amanti della giustizia e della pace nel mondo intero affinché partecipino alla campagna BDS “Boicottaggio – Disinvestimento- Sanzioni” lanciata dalla società civile palestinese nel 2005 per costringere Israele a garantire i diritti fondamentali delle tre componenti del popolo palestinese: i profughi, i Palestinesi colonizzati (Cisgiordania e Gaza) e i Palestinesi che vivono in Israele (i Palestinesi del 48).

Fanno appello a tutte le donne e uomini amanti della giustizia e della pace nel mondo intero affinché facciano pressione verso le rispettive autorità nazionali per porre fine alla condizione disumana imposta ai Palestinesi e far cessare le violazioni del diritto che minacciano la pace nel mondo.

Come Nelson Mandela, essi sostengono che “La nostra libertà resterà incompleta finché i Palestinesi non avranno recuperato la loro”

martedì 27 marzo 2012

Israeliani torturatori e assassini

40esimo giorno di sciopero della fame di Hana Shalabi.



Aggiornamento: Hana Shalabi è al 40esimo giorno di sciopero della fame

Addameer ed i Medici per i Diritti Umani-Israele sono costernati del fatto che a dispetto delle gravi condizioni di salute di Hana Shalabi, la Corte d'Appello Militare Israeliana ha rifiutato l'appello contro l'ordine di detenzione amministrativa della Signora Shalabi, 25 marzo. La decisione delle corte ordina alla signora Shalabi di restare in detenzione per tutta la durata del suo ordine di detenzione amministrativa di quattro mesi, fino alla fine del 23 giugno. La signora Shabali è oggi al suo 40esimo giorno di sciopero della fame in protesta contro il suo arresto violento ed il trattamento degradante seguito al suo arresto, in aggiunta alla detenzione amministrativa.

Nella sua decisione, il giudice militare non tiene conto delle critiche condizioni mediche della signora Shalabi; piuttosto, egli ha asserito che lei è responsabile del proprio ricovero. Il giudice militare non ha considerato neanche le proteste delle signora Shalabi di tortura e trattamento violento durante e dopo l'arresto per il suo rilascio, invece non è stata avviata ancora alcuna indagine sull'oggetto della sua lagnanza. Gli avvocati della signora Shalabi hanno inoltrato all'Alta Corte una domanda per il suo rilascio.

Oggi, un dottore volontario del PHR-Israel ha visitato la signora Shalabi nell'Ospedale Meir di Kfar Saba, dove la signora è stata ricoverata dalla notte del 20 marzo. A seguito della visita, il dottore ha riferito che sabato 24 marzo, a causa del drastico deterioramento dei risultati delle sue analisi del sangue, la signora Shalabi ha accettato di ricevere calcio e vitamina k, che la proteggono da un improvviso attacco cardiaco. A seguito della visita odierna, il dottore del PHR-Israel ha affermato che la signora Shalabi presenta un aumento di atrofia dei muscoli e deterioramento, che ora include anche il muscolo cardiaco. La signora Shabali rifiuta ancora il nutrimento eccetto che vitamine e sali ed è in pericolo di morte. Il Comitato etico dell'ospedale sta pianificando di incontrarsi domani mattina presto e potrebbe considerare la possibilità di un'alimentazione forzata, non considerando i principi etici della medicina e le linee guida dell'Associazione Medica Mondiale e l'Associazione Medica Israeliana.

Dal momento che la signora Shalabi continua lo sciopero della fame, Addameer e PHR-Israel considerano Israele responsabile della sua condizione e si appellano per il suo immediato rilascio.

Fascisti israeliani contro professori solidali con Hana Shalabi. L'università di Tel Aviv non meno fascista

BDS accademico: l’Università di Tel Aviv ha intenzione di fare indagini sulla Solidarietà con Shalabi.

di Sergio Yahni

L’Università di Tel Aviv esaminerà il caso della docente a contratto Dr.sa Anat Matar per la sua partecipazione a una manifestazione di solidarietà con la detenuta palestinese Hanaa Shalabi che sta facendo lo sciopero della fame.


La manifestazione, che si è svolta mercoledì 21 marzo nel campus universitario, sollecitava il rilascio di Hanaa Shalabi che è in carcere senza accuse dopo essere stata rilasciata nel mese di ottobre 2011 in quanto parte dello scambio israelo-palestinese di prigionieri.

Hanaa Shalabi era stata rilasciata il 18 ottobre 2011 dopo una detenzione amministrativa di oltre due anni come parte dell’accordo sullo scambio di prigionieri concluso tra il governo israeliano e Hamas. Quattro mesi dopo, è stata tratta in arresto nella casa della sua famiglia a Burqin, un villaggio vicino a Jenin. Cinquanta soldati israeliani hanno fatto irruzione in casa la mattina presto, accompagnati da un ufficiale dei servizi segreti e un gran numero di cani.

Dopo il suo arresto, Shalabi è stata tradotta al Centro Detentivo di Salem, dove è stata sottoposta a pestaggi e a trattamenti umilianti. Il primo giorno del suo arresto ha iniziato lo sciopero della fame, per protestare contro i maltrattamenti a cui era stata assoggettata.

Secondo il sistema di sicurezza dell’Università di Tel Aviv, la manifestazione in solidarietà con Shalabi era illegale. Un’organizzazione radicale di destra, Im Tirzu, ha svolto nella zona una contromanifestazione. Più tardi gli studenti affiliati a Im Tirzu hanno riconosciuto la Dr.sa Anat Matar, docente al Dipartimento di Filosofia dell’Università di Tel Aviv, come partecipante all’iniziativa di solidarietà con la Shalabi. Successivamente Im Tirzu ha avviato una petizione contro Matar e ha istigato decine di studenti a presentare denuncia contro di lei presso l’Amministrazione dell’università.

L’Università di Tel Aviv ha annunciato che farà una verifica sulla questione.

In risposta, la Dr.sa Anat Matar ha ribadito che la manifestazione non era un atto illegale, e che “la persone erano rimaste in silenzio sul prato, con gli occhi e le mani legate, e la cosa, secondo la mia opinione, non richiedeva autorizzazione.”

Im Tirzu ha dichiarato che “è spiacevole scoprire che all’Università di Tel Aviv ci sono persone che agiscono contro lo stato.”

Questo attacco alla Dr.sa Matar, che non è il primo con il quale Im Tirzu tenta di fare tacere le voci dissidenti all’interno del campus, ed ha ricevuto una risposta positiva da parte dell’amministrazione universitaria.

Nel gennaio di quest’anno, Im Tirzu aveva preso di mira il prof. Yehuda Shenhav, anch’egli della Tel Aviv University, per i commenti fatti in classe dallo stesso. Questi aveva definito il movimento Im Tirzu come gruppo fascista.

sabato 24 marzo 2012

INCREDIBILE!

La regione Toscana è uscita pazza! Con chi vuole discutere il "grande tema dell'acqua?" Udite udite: con Israele!
Qui c'è qualcuno che si vuole attrezzare contro la desertificazione e giustamente si rivolge all'esperto. Come si fa? Israele lo sa bene: rubando l'acqua ai palestinesi, come pensa di fare altrettanto la regione Toscana? Siamo al ridicolo, all'insulto alla ragione oltre che ai palestinesi privati delle loro fonti idriche e costretti a fare arricchire la società Mekorot che rivende loro la loro acqua a caro prezzo.
Israele sarebbe forte delle sue esperienze di sottrare terra al deserto? Ma questo è veramente demente! Israele è forte solo delle sue esperienze di sottrarre l'acqua ai palestinesi e il deserto lo ha portato in una regione che prima era rigogliosa e ora dopo Israele è devastata.
Regione Toscana, vergogna!


Toscana-Israele, aprire prospettive di scambio su razionalizzazione idrica

FIRENZE – Dare il via a un programma di scambio tra la Regione Toscana e lo Stato di Israele che abbia al centro il grande tema dell’acqua e della razionalizzazione dei suoi usi, per fronteggiare i cambiamenti climatici e gli effetti di desertificazione. Con questa prospettiva si è concluso oggi l’incontro del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi con il neo ambasciatore di Israele in Italia Naor Gilon.

“Di fronte ai cambiamenti climatici che hanno forti effetti anche in Toscana – ha detto il presidente Rossi – dobbiamo attrezzarci per affrontare nuove situazioni di scarsità d’acqua e di vera e propria desertificazione. Da questo punto di vista lo stato di Israele, forte delle sue esperienze di sottrazione di terra al deserto, può dare un contributo importante anche a livello di innovazione tecnologica”.

Nel corso dell’incontro con l’ambasciatore israeliano, che ha trascorso in passato un periodo di studio proprio a Firenze, affascinato dalla “culla del Rinascimento”, il presidente Rossi ha ricordato la collaborazione, riconfermata dalla Regione Toscana ogni anno, con il Centro Peres per la Pace di Tel Aviv per un progetto che provvede a far curare negli ospedali israeliani dei bambini palestinesi gravemente ammalati.

Progetti di scambio e collaborazione sono in atto tra Italia e Israele soprattutto a livello commerciale, turistico, e di innnovazione tecnologica. Un ambito in cui la Toscana intende inserirsi, e ciò contribuirà, come ha sottolineato Rossi, a rinsaldare i rapporti reciproci.
Lorenza Pampaloni

“Non sarò parte di questi crimini”: parla una refusenik

“Non sarò parte di questi crimini”: parla una refusenik

di Jillian Kestler-D’Amours (The Electronic Intifada)



Qualche giorno fa, la 18enne israeliana Noam Gur ha pubblicamente annunciato la sua intenzione di rifiutare l’obbligo al servizio militare.

Nella lettera aperta, Gur comincia dicendo: “Rifiuto di entrare nell’esercito israeliano perché non intendo far parte di un esercito che, fin dalla sua creazione, è stato impegnato nel dominio di un’altra nazione, nel saccheggio e il terrorismo contro una popolazione civile sotto il suo controllo”. (“I refuse to join an army that has, since it was established, been engaged in dominating another nation: An interview with Israeli refuser Noam Gur,” Mondoweiss, 12 March 2012).

La corrispondente di Electronic Intifada, Jillian Kestler-D’Amours, ha parlato con Gur sulle ragioni che l’hanno portata alla decisione di rifiutare il servizio militare, su quali reazioni abbia finora ricevuto e su quello che vuole che altri giovani israeliani sappiano in merito alla realtà dell’esercito israeliano.

JKD: Perché hai deciso di rifiutare il tuo servizio militare?
NG: Israele, dal giorno della sua creazione, sta commettendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità, dalla Nabka (il trasferimento forzato di 750mila palestinesi tra il 1947 e il 1948) ad oggi. Lo vediamo nell’ultimo massacro a Gaza, lo vediamo nella vita quotidiana dei palestinesi sotto occupazione nella Striscia e in Cisgiordania, lo vediamo nella vita dei palestinesi in Israele, il modo in cui vengono trattati. Non credo di appartenere a questo posto. Non credo di poter personalmente prendere parte a tali crimini e penso che abbiamo il dovere di criticare l’istituzione militare e i crimini che compie e uscire allo scoperto per dire che non serviremo in un esercito che occupa un altro popolo.

JKD: Questo porta ad un’altra domanda: perché hai deciso di rendere pubblico il tuo rifiuto, invece di – come in genere fanno altri israeliani che non svolgono il servizio militare – usare una scusa?
NG: Dieci anni fa ci fu un imponente movimento di refusenik e negli ultimi due o tre anni è quasi scomparso. Sono la sola refusenik quest’anno, per me è un modo per far sapere alla gente che ancora esistiamo, prima di tutto. In secondo luogo, non voglio restare in silenzio. Sento che fin dalle scuole superiori, siamo sempre rimasti in silenzio. Lasciamo sempre che le nostre critiche escano fuori in piccoli circoli. Il mondo non lo sa, i palestinesi non lo sanno. Non so se cambierà qualcosa, ma io posso solo provare. Mi sento meglio con me stessa, sapere che ho provato a compiere anche solo il più piccolo cambiamento.

JKD: La tua famiglia ha avuto un’influenza nella tua decisione di rifiutare il servizio militare?
NG: I miei genitori non sono politicizzati. Entrambi hanno servito nell’esercito. Mio padre ha preso parte alla prima guerra in Libano ed è stato ferito. Mia madre, la stessa cosa. La mia sorella maggiore era nella polizia di frontiera. Il mio destino era terminare gli studi e entrare nell’esercito. Era il mio percorso naturale. Da quando ho 15 anni, ho iniziato ad interessarmi alla Nakba del 1948. Ho cominciato a leggere e a comprendere il quadro completo. Non so esattamente perché, ma è successo. Più tardi, ho letto le testimonianze e le storie di palestinesi della Cisgiordania e di ex soldati, ho conosciuto amici palestinesi e partecipato a manifestazioni di protesta in Cisgiordania, vedendo cosa sta avvenendo con i miei occhi. A 16 anni, ho deciso di non servire nell’esercito.

JKD: Quale reazione c’è stata dopo il tuo annuncio pubblico?
NG: I miei genitori non mi hanno sostenuto. Credo che mia madre e mio padre sappiano che non hanno possibilità di fermarmi perché è la mia decisione e ho 18 anni. Non sono più in contatto con la maggior parte dei miei compagni di scuola, molti di loro sono nell’esercito. Ho ricevuto tante positive risposte negli ultimi giorni, ma anche commenti poco amichevoli.

JKD: Come ti hanno fatto sentire simili commenti?
NG: Mi hanno fatto capire che devo andare avanti con quello che sto facendo. Molti commenti mi hanno fatto sentire…anche se erano crudeli, mi hanno fatto capire che sto facendo la cosa giusta perché sto seguendo i miei ideali. È quello che penso sia giusto e non mi importa di quello che la gente dice.

JKD: Cosa accadrà quando formalmente rifiuterai il servizio militare?
NG: Il 16 aprile devo presentarmi al centro di reclutamento di Ramat Gan. Andrò lì e dichiarerò che rifiuto. Starò lì qualche ora e poi sarò giudicata e condannata alla prigione, da una settimana ad un mese. passerò il mio tempo in un carcere femminile e poi sarò rilasciata. Quando sarò fuori, andrò di nuovo a Ramat Gan e di nuovo sarò condannata, da una settimana ad un mese. Continuerà così fino a quando l’esercito deciderà di smettere.

JKD: Cosa deve cambiare dentro la società israeliana perché sempre più giovani decidano di rifiutare il servizio militare?
NG: Non sono sicura ch questo possa accadere. Credo che siamo ad un punto di non ritorno. Se davvero vogliamo cambiare qualcosa nella società israeliana, la pressione deve essere davvero forte, da fuori. È per questo che sostengo la campagna Boicottaggio Disinvestimento & Sanzioni. È davvero difficile cambiare qualcosa dall’interno. Quasi impossibile.

JKD: Cosa vorresti dire agli altri diciottenni israeliani che stanno per cominciare il servizio militare?
NG: Credo sia importante che ognuno guardi a cosa sta facendo. Penso che molti diciottenni, per mia esperienza personale, non sappiano cosa stanno per fare. Non sanno quello che accade a Gaza e in Cisgiordania. Il solo modo in cui vedranno i palestinesi per la prima volta sarà da soldati. Sarebbe intelligente per cominciare, prima di entrare nell’esercito, capire qual è la realtà. Cercare di realizzare, parlare con la gente. Non è così spaventoso. Cercare di leggere quello che la gente dice. Penso sia veramente importante capire quello che sta avvenendo.

Jillian Kestler-D’Amours è una reporter e regista di documentari a Gerusalemme. Potete trovare il suo lavoro su http://jkdamours.com

PALESTINESI RECLAMANO DIRITTO AD ACQUA

Oggi, giornata mondiale dell'acqua, raduno a Gerusalemme contro la distruzione di cisterne. Ma la crisi idrica nei Territori Occupati va ben oltre. Un palestinese dispone di 1/4 dell'acqua di un israeliano e il fabbisogno cresce.

di IKA DANO


Gerusalemme, 22 marzo 2012, Nena News – Oggi, in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, mentre in tutto il mondo si ribadisce che l’acqua è un diritto umano e un bene comune, una cinquantina di manifestanti si è riunita a Gerusalemme per protestare contro la demolizione delle taniche d’acqua nella zona C, 60% dei Territori Occupati, sotto completo controllo israeliano. La manifestazione è stata indetta da una coalizione di organizzazioni della società civile palestinese e israeliana. Inizialmente doveva tenersi davanti alla Corte di Giustizia israeliana ma alla fine è stata però confinata nella piazza di Agranat. Non si sono verificate, quindi, le previste tensioni con i coloni dell’avamposto di Migron, appena risparmiato dal governo israeliano che, nonostante lo consideri illegale, gli ha fornito servizi pubblici e ne ha congelato all`inizio di marzo l’ordine di demolizione.



Non solo i coloni non si sono presentati, ma non è nemmeno arrivato nessuno dal coordinamento EWASH per l’Acqua, la Sanità e l’Igiene finanziato dall’Unione Europea: a detta della coordinatrice in loco, per evitare screzi diplomatici con i donatori. Proprio loro tre giorni fa, per mano dell’Alto rappresentante dell’Unione Europea Catherine Ashton, hanno firmato un accordo di 35 milioni di euro con l’Autorità Palestinese per un nuovo impianto di trattamento delle acque nere nel nord della Cisgiordania.

Il motivo della manifestazione è stato annunciato in un comunicato stampa, dove si legge che la demolizione di cisterne d’acqua nella zona C è illegale secondo il diritto internazionale e anche secondo gli Accordi di Oslo stipulati tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nel 1994. La coalizione chiede alla Corte “di ricordare allo Stato di Israele le sue obbligazioni legali”. Dalla Procura Israeliana, intanto, è pervenuta la comunicazione che tutti gli appelli di ricorso presentati alla Corte Suprema per i casi di demolizioni di cisterne d`acqua verranno passati a giudizio entro il 22 agosto.

Sono oltre 12 500 i casi di demolizione di strutture di sussistenza da parte delle autorità israeliane registrati solo nel 2010 nei Territori Occupati e a Gerusalemme, secondo il capo dell’Ùfficio per gli Affari Umanitari dell’Onu (OCHA). Tra questi, le demolizioni di cisterne d`acqua in zona C sarebbero la maggioranza. Alle demolizioni ordinate dalle autorità vanno ad aggiungersi le violenze dei coloni, coadiuvati dall`esercito. Una settimana prima della giornata mondiale dell’acqua, una nuova relazione dell’OCHA aveva riportato l’attenzione sulla crisi nei Territori Palestinesi Occupati, denunciando ben 56 sorgenti d`acqua passate sotto il controllo di coloni in Cisgiordania. “La violenza dei coloni – si legge nel report – è in costante aumento. Che con minacce, attacchi fisici a contadini ed erezione di barriere attorno alle sorgenti, ha reso impossibile l`accesso di intere comunità palestinesi alle fonti d`acqua, fondamentali per l’approvvigionamento e l`agricoltura.


Quando si parla di cisterne e di sorgenti in Palestina, non si parla dell`approvvigionamento riservato a una fetta marginale della società, ma piuttosto dei principali metodi di rifornimento di acqua: nei centri urbani con cisterne nere locate sui tetti, e nelle zone rurali con tubature collegate direttamente alle sorgenti. Queste ultime coprono, secondo l’Autorità per l’Acqua di Ramallah, il 49% del fabbisogno totale: non sono solo la fonte più importante per l`irrigazione agricola, ma anche per la sussistenza di tutte le comunità che, trovandosi in Area C, spesso non sono collegate ad alcun acquedotto, e dipendono dunque dal rifornimento dalla compagnia nazionale israeliana Mekorot. A prezzi triplicati rispetto a quelli dell`Autorità Palestinese, Mekorot soddisfa ben il 40% del fabbisogno idrico dei Territori Occupati , di cui il 56% addirittura nelle città, nominalmente sotto controllo dell`Autorità palestinese (Zona A). In altre parole, esplicita un rapporto dell`Istituto di Ricerca Applicata di Gerusalemme (ARIJ) “le risorse d`acqua palestinesi che vengono rubate da Israele, vengono ora rivendute ai Palestinesi, trasformandosi in profitti enormi per Mekorot”.


Così, lo Stato israeliano controlla, secondo ARIJ, l`80% delle risorse d`acqua, che nel caso eclatante della cittá di Qalqiliya, locata su uno del più consistenti bacini acquiferi della regione, si é anche preoccupato di circondare con il Muro di Separazione. Uno studio dell’istituto di Ricerca di Economia Politica Palestinese (MAS) annunciava giá nel 2009 che la situazione non può che peggiorare: la disponibilità d`acqua nei territori Occupati si é dimezzata dal 2003 (60.5 milioni di m³) al 2009 (30.6 milioni di m³), ma il fabbisogno non può che crescere. E, da un totale di 389 milioni di m³ del 2010, si passerà a un fabbisogno di 859 milioni di m³ nel 2020.

Oggi il consumo medio di un Palestinese è di 73 litri, compresi bisogni personali, domestici, industriali e agricoli. In alcune zone del Nord, scende addirittura a 37 litri pro capite. Al contempo, un cittadino israeliano ne ha a disposizione mediamente 242 in città e 211 nelle zone rurali. E mentre l`organizzazione israeliana per i diritti umani “B’Tselem” denuncia questa disparità, l`Organizzazione Mondiale della Sanità considera 100 litri pro capite la quantità minima necessaria al sostentamento. Sotto occupazione, l`acqua é ben lontana dall`essere un diritto umano. Figuriamoci un bene comune. Nena News

venerdì 23 marzo 2012

ISRAELE-ITALIA: FLORIDA E DISPENDIOSA «PARTNERSHIP STRATEGICA»

Nonostante la devastante crisi economica (e la conseguente austerità), l'interscambio militare fra i due paesi non fa che aumentare

ANTONIO MAZZEO*

Roma, 23 marzo 2012, Nena News – Può essere equipaggiato con tre differenti tipologie di testata bellica a seconda dell’uso: anticarro, antifanteria e per la distruzione di bunker. Lo “Spike” è l’ultimo gioiello di morte prodotto da Rafael, una delle più importanti industrie militari israeliane. E’ un missile aria-terra a corto raggio destinato agli elicotteri d’attacco. La prima versione, denominata “Er”, è capace di colpire bersagli fino a una distanza di 8 km. Gli israeliani però hanno in produzione un modello con una gittata superiore ai 25 km, lo “Spike Nlos. Secondo la World Aeronautical Press Agency i nuovi missili made in Israel saranno utilizzati dagli Eurocopter Tiger e Puma e dagli AW-129 Mangusta prodotti da AgustaWestland (gruppo Finmeccanica). I Mangusta sono quelli dei raid dell’esercito italiano nei principali teatri di guerra (Iraq, Afghanistan). Gli elicotteri, in numero di 60, sono in dotazione al 5° reggimento AVES “Rigel” di Casarsa della Delizia (Pn) e del 7° “Vega” di Rimini, inquadrati nella Brigata “Friuli”. I Mangusta vantano già una terribile potenza di fuoco: mitragliatrici FN da 12,5 mm, cannoni da 200 mm a canne rotanti e missili AGM-114 “Hellefire”, BGM-71 “Tow” anti-carro, FIM-92 Stinger” ed MBDA “Mistral” antiaerei. Con gli “Spike” si amplierà il ventaglio operativo degli elicotteri d’assalto e uscirà rafforzato l’interscambio bellico Roma-Tel Aviv e la partnership strategica tra le rispettive forze armate.
Dopo le recenti esercitazioni in Sardegna e nel deserto del Negev in compagnia dei cacciabombardieri d’Israele, l’Aeronautica militare italiana ha deciso d’installare a bordo degli elicotteri EH101 e degli aerei da trasporto C27J Spartan e C130 Hercules un nuovo sistema di contromisure a raggi infrarossi, denominato “Dircm – Directional infrared countermeasures”. Il sistema sarà sviluppato e prodotto dalla società Elettronica Spa di Roma assieme all’israeliana Elbit e comporterà una spesa di 25,4 milioni di euro. «Le prime consegne sono previste per la fine del 2013», secondo la Difesa. «Con il Dircm, l’Aeronautica italiana sarà la prima forza armata europea a dotarsi di un sistema con tecnologia non americana per la difesa dai Manpads, missili che possono essere lanciati con sistemi a spalla e che sono oggi una delle minacce più pericolose in fase di decollo ed atterraggio».
Il contratto con Elettronica-Elbit ha preceduto di qualche mese l’ordine del governo israeliano di 30 caccia-addestratori “avanzati” M-346 Master di Alenia Aermacchi (Finmeccanica). I velivoli sostituiranno entro il 2015 i vecchi A-4 Skyhawk utilizzati dalle “Tigri volanti” del 102° squadrone dell’aeronautica israeliana per formare i nuovi piloti dei caccia e come mezzo di supporto alla guerra elettronica. La manutenzione dei velivoli, per 20 anni, sarà invece affidata alla joint venture TOR costituita dall’industria aerospaziale israeliana IAI e da Elbit Systems.
Secondo quanto trapelato sui media Usa, per l’acquisizione dei caccia-addestratori italiani, Washington potrebbe offrire ad Israele una somma pari al 25% del valore della commessa nell’ambito degli aiuti militari previsti dal fondo US foreign military financing (FMF). Il Pentagono avrebbe confermato che l’Agenzia Usa per la cooperazione alla difesa e alla sicurezza avrebbe avviato colloqui ufficiali con il ministero della difesa israeliano per concordare che alcune componenti degli M-346 Master prodotte negli Usa siano acquisite con i fondi FMF. Un “aiuto” destinato a favorire il complesso militarindustriale Usa.
Non altrettanto vantaggioso per l’Italia il contratto fra Israele ed Alenia Aermacchi che prevede che l’Italia acquisti materiali bellici in Israele per non meno di un miliardo di dollari: sistemi satellitari spia e aerei radar. Per il memorandum of agreement che sarà firmato alla fine del mese tra Monti e Netanyahu, in cambio degli M-346, l’Italia si doterà innanzitutto di due satelliti elettro-ottici di seconda generazione “Ofeq” (200 milioni di dollari, lanciati entro il 2014), prodotti dalle Israel Aerospace Industries (IAI) ed Elbit.
Alle forze armate italiane giungeranno poi due velivoli di pronto allarme Gulfstream 550 con relativi centri di comando e controllo, prodotti dalle aziende IAI ed Elta Systems: costo stimato in 760 milioni di dollari, più del doppio del previsto nel 2009 dall’allora ministro La Russa per la messa a punto del sistema “multi-sensore e multi-missione” JAMMS, incentrato sui Gulfstream 550. «Il costo stimato del programma ammonta a 280 milioni di euro e avrà durata di 7 anni», aveva spiegato La Russa in parlamento alla vigilia del voto (unanime) a favore del JAMMS. «Esso supporterà le operazioni delle forze nazionali e alleate impegnate in operazioni militari in Patria e fuori dai confini nazionali nel controllo e nella sorveglianza dello spazio aereo». Dei 760 milioni previsti, 500 andranno all’acquisto dei due velivoli AEW&C e 260 per finanziarne i costi logistici e la manutenzione per un periodo di 15 anni dalla loro consegna nel ‘14-’15. Nena News

* Giornalista. Questo articolo e’ stato pubblicato il 23 marzo 2012 dal quotidiano Il Manifesto

giovedì 22 marzo 2012

Colonizzazione della Mente: questo è normalizzare!

(Trascrizione completa. Estratti di questo discorso sono stati presentati presso l'Università di
Sydney in Australia durante la Settimana contro l´Apartheid israeliano, 2012.)



Vorrei parlare di normalizzazione. Ho trovato la migliore definizione del termine
"normalizzazione" sul sito per la Campagna Palestinese per il boicottaggio culturale e
accademico:

"La normalizzazione è la colonizzazione della mente, per cui il soggetto oppresso arriva a
credere che la realtà dell'oppressore è l'unica realtà `normale´ da sottoscrivere, e che
l'oppressione è un fatto della vita che deve essere sopportato."

Quindi, i progetti che costituiscono normalizzazione non riguardano libertà, giustizia e
liberazione, ma cercano di anestetizzare le nostre menti all'orrore dell'occupazione, in modo
da accettarlo come normale, permanente, un´immutabile realtà fissa!

Progetto tipici di normalizzazione vedono palestinesi e israeliani insieme per parlare di come
accettarsi gli uni degli altri per ridurre l'odio che alimenta il conflitto! Ma senza prendere
provvedimenti di alcun tipo per cambiare l'ambiente che crea l'animosità. Come se la
resistenza palestinese fosse nata dalle emozioni di odio e non da atti di oppressione, dalla
rabbia irrazionale e non dall´esproprio, dall´ostilità insensata e non da atti di pulizia etnica!

Promotori della normalizzazione vorrebbero farci credere che le loro cosiddette iniziative
congiunte di pace sono la prova definitiva per distinguere fra un moderato e un terrorista. Un
moderato si farebbe coinvolgere, coopererebbe, sarebbe per la riconciliazione e la
co-esistenza, ma non contesterebbe direttamente l'oppressione. Un moderato avrebbe
imparato a convivere con lo status quo e tollerarlo. Chi rifiuta lo status quo e si adoperi per
cambiarla non è interessato alla pace, è pieno di odio, è un radicale, ed è un terrorista. E
fintanto queste etichette vengono propagandate, sperano che la gente si faccia intimidire fino
all´acquiescenza.

Una caratteristica importante dei progetti di "normalizzazione" è di creare l'illusione di
simmetria, sostenendo l'idea che palestinesi e israeliani condividono le stesse responsabilità
e che entrambe le popolazioni sono prigionieri di questa lotta che va avanti da tempi
immemorabili. Si sforzano di convincerci che le due popolazioni hanno semplicemente due
narrazioni differenti, riducendo i fatti alla finzione e la realtà alla narrazione. Insistono che se
ascoltiamo entrambi i racconti allora troveremo che la verità sta da qualche parte là fuori, in
un mondo astratto, forse in una terza versione che deve ancora essere raccontata.

Come vecchi che si scambiano panzane mentre prendono un caffè turco per passare il
tempo in un luogo dove nessuno si preoccupa della verità o delle conseguenze, noi
palestinesi siamo invitati a sederci con israeliani e ascoltare i loro racconti mentre ascoltano i
nostri ed ecco tutto fatto! Tornano alle loro città vivaci che una volta portavano nomi arabi, e
noi torniamo dietro il muro dove nulla cambia, salvo che i nostri Bantustan continuano a
ridursi con ogni giorno che passa!

Sottoscrivere a questa idea di 'narrazione' vuol dire cancellare la nostra memoria collettiva e
chiudere gli occhi alla nostra realtà presente. Vuol dire dimenticare la storia, le date, i numeri,
i documenti delle Nazioni Unite, i rapporti sui diritti umani, i villaggi distrutti e i campi pieni di
sfollati e profughi del 1948. Vuol dire dimenticare tutte le prove concrete perché, alla fine,
tutto si riduce a raccontare storie e narrazioni.

E mentre si parla di qualche incombente minaccia esistenziale dovremmo dimenticare che è
la Palestina che è stata cancellata dalla cartina geografica, e che i palestinesi sono quelli che
lottano ogni giorno per il loro diritto di semplicemente esistere sulla loro terra.

Forse sperano che dopo qualche seduta di scambi di narrative ci renderemo finalmente
conto della necessità di sparare un candelotto di gas lacrimogeni in faccia ad un
manifestante disarmato. Oppure che un paio di partite di calcio dove alcuni giocatori
palestinesi sfilano in campo ci farebbe finalmente capire perché bombe da una tonnellata
devono cadere sui rifugiati a Gaza. E forse, se partecipiamo insieme ad un campo estivo per
conoscerci l'uno e l'altro, avremo finalmente capito tutto e ci scuseremo per non esserci
tranquillamente messi da parte quando hanno preso le nostre case a demoliti i nostri villaggi.

Il messaggio trasmesso dai progetti di normalizzazione è consistente: noi israeliani dobbiamo
fare quello che facciamo perché VOI CI COSTRINGETE A FARLO e l'unico modo per
rallentarci (non fermarci) è se ci date l´idea che vi piacciamo e se ci fate sentire
sufficientemente sicuri. Ora, se scegliete di essere bravi palestinesi, partecipate a queste
iniziative e fermate quest´idiozia della resistenza, forse allora, vi porteremo nella casa dei
moderati in cui, è vero, non potete mangiare con noi in sala da pranzo, ma almeno vi
facciamo entrare dal freddo e vi permetteremo di sedervi per terra in cucina al caldo, dove è
sicuro.

Quindi questo è il modo in cui cercano di colonizzare le nostre menti e obbligarci di accettare
la disuguaglianza. Si aspettano che scambiamo la nostra libertà per delle briciole di pane e di
ridurre la nostra esistenza al solo far fronte a questa realtà deformata.

E mentre vivono nelle loro torri alte nella terra della narrativa, non ci vedono marciare
attraverso i nostri campi in cui gli ulivi piantati dai nostri antenati sono stati strappati dalla
terra dalle loro mani? Le radici tagliate che sporgono come arti amputati, che si svuotano di
vita, emanando odore di speranze e sogni infranti. Se semplicemente fermassero il rumore
dei loro bulldozer per un solo minuto, potrebbero finalmente sentire quel suono straziante
che la terra fa quando piange sotto i loro piedi.

Se cessassero il fuoco, spegnessero i motori dei carrarmati e abbassassero le armi,
potrebbero finalmente sentire le nostre voci. Cantavamo forte e chiaro! Gli abbiamo detto
che sono benvenuti a venire e co-resistere con noi per abbattere questo brutto sistema di
dominazione. Gli abbiamo detto: se volete conoscerci, venite a marciare con noi contro il
muro. Venite con noi a fermare i bulldozer. Venite a trovarci nelle nostre prigioni.
Proteggeteci dalle pietre che i coloni ebrei lanciano ai nostri figli.

L´abbiamo detto forte e chiaro: non co-esisteremo con voi nel vostro mondo di
disuguaglianza. Se volete co-esistere con noi, siete benvenuti ad unirvi a noi nella nostra
lotta per la libertà, perché in questo momento, questo è l'unico posto dove noi esistiamo!

Riconosciamo i loro tentativi di coprire l'oppressione. Nessun video di propaganda sul loro
Stato, presunto amante gay e democratico, cambierà la realtà che ogni famiglia palestinese
conosce, detenzioni arbitrarie, torture nelle prigioni, sfratti e demolizioni delle case.

Nessuna sofisticata campagna di "Brand Israele" potrà mai spiegare perché una donna a
Gerusalemme è crollata in ginocchio, abbattuta sul marciapiede, con i pezzi della sua vita
sparsi per terra, mentre coloni ebrei guardano attraverso le finestre di quella che fu la sua
casa.

Non c'è niente di normale in questo! Non c'è niente di normale in tutto ciò!

Non c'è niente di normale nel condannare bambini di nove anni nei tribunali militari. Non c'è
niente di normale nel costringere le donne incinte a partorire ai posti di blocco. Non c'è nulla
di normale nel bloccare un milione e mezzo di persone a Gaza, poi bombardarli a piacimento
sapendo che non hanno nessun posto dove correre e nessun posto dove nascondersi. Non
c'è niente di normale nel sigillare con chiodi le porte delle case a Hebron costringendo intere
famiglie a saltare da tetto in tetto per andare a scuola o lavoro. Non c'è niente di normale nel
rubare la nostra acqua, per poi costringerci a ricomprarla goccia per goccia. Non c'è niente di
normale nel fare pagare ai palestinesi la benzina dei bulldozer israeliani usati per demolire la
loro casa. Soprattutto, non c'è nulla di normale nella loro aspettativa che con sufficiente
brutalità noi ci arrenderemo.

Quindi, perché non normalizzano questa: Noi continueremo a resistere! I loro posti di blocco
ci hanno fatto amare la nostra libertà. Le loro bombe ci hanno reso forti di fronte alla paura. I
loro proiettili ci hanno fatto abbracciare la non-violenza. La loro ipocrisia ci ha fatto amare la
verità. La loro tirannia ci ha reso più coraggiosi. Il loro Muro dell'apartheid ci ha costretto a
stare così in alto, così in alto, che possiamo vedere il mondo intero, e tutto il mondo può
vedere noi. Mentre loro si nascondono dietro i loro cumuli di cemento e bugie.

Quindi, che i muri che hanno costruito li rinchiudano! Che la parola `apartheid´ li definisca! E
quando ti chiedono cosa pensi della normalizzazione, unitevi a noi e dite che state dalla parte
di coloro che sono rimasti irremovibili, gridando nelle canne dei loro fucili, "avete occupato i
nostri villaggi e città, ma non colonizzerete mai le nostre menti".

Non colonizzeranno mai le nostre menti!

Samah Sabawi

Samah Sabawi è una scrittrice palestinese ed è liaison con il pubblico di Australiani per la
Palestina

Fonte: Palestine Chronicle,
http://www.palestinechronicle.com/view_article_details.php?id=19175
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Saleh, Gaza

Tamer, Gaza

I feriti degli ultimi attacchi israeliani su Gaza. Visita allo Shifa Hospital

Leggendo il blog di Rosa Schiano e guardando le immagini si viene assaliti da una rabbia e un dolore infinito. Se si pensa poi che tutti questi morti e feriti non sono stati sufficienti per far pronunciare una sola parola d'informazione ai giornalisti di qualsiasi posizione politica e parte, tutti dediti al pensiero unico e d'accordo su quali notizie gonfiare e quali tacere. Dispiace che siano stati uccisi dei bambini ebrei a Tolosa da un pazzo criminale isolato, ma quelli di Gaza non sono bambini che meritano ugualmente attenzione? Non sono stati uccisi e feriti da un criminale isolato, ma vittime di un lento genocidio che non ha fine a Gaza.

Pubblicato da Rosa Schiano a 19:56
Questa mattina siamo andati a fare visitia ai feriti ricoverati allo Shifa Hospital.

La maggior parte di essi ha riportato ustioni e fratture.

Lascerò spazio alle immagini, più che alle parole.

Hani El-Qanoo ha 15 anni.
Sua madre, Reda, racconta che domenica mattina verso le 9.00 Hani e suo fratello erano andati a scuola, ma non c'era lezione. Stavano tornando a casa quando un drone ha lanciato un missile sulla strada in cui si trovavano, AlKhorondar street. Anche suo fratello, Moyad, è rimasto ferito insieme agli altri amici, mentre uno dei loro compagni, Nayif Qarmout, 15 anni, è rimasto ucciso.
Reda vive con i suoi 7 bambini in difficili condizioni di vita. Suo marito è morto qualche tempo fa.
"Stavamo tornando da scuola con sei compagni quando improvvisamente un drone ci ha colpito - racconta Hani - ho avuto la sensazione di volare."

Il dottore ci ha detto che Hani ha una frattura al femore ed alla gamba destra e diverse ustioni provocate dal missile.




Il fratello di Hani, Moyad Al-Qanoo, ha 16 anni.
Riporta ferite da ustioni di secondo grado, sul viso e alle gambe.
Ha schegge in diverse parti del corpo.





Anche Saleh Qarmout, 15 anni, tornava da scuola quel giorno insieme agli altri compagni.
Il dottore ci ha detto che durante quell'attacco, un bambino era morto, Naiyf Qarmout, e 9 bambini erano rimasti feriti. Cinque bambini sono stati portati allo Shifa Hospital, quattro bambini sono stati traferiti al Kamal Odwan Hospital.




Anche Tamer Azzam, 17 anni, stava tornando da scuola insieme a loro.
Lo abbiamo trovato disteso su un letto, sul suo viso smorfie di dolore.
Ha schegge sul viso ed al fianco, ed ustioni alle gambe.
Il dottore ha detto che hanno dovuto rimuovere dal suo corpo parte dell'intestino.
La guarigione potrebbe richiedere molto tempo.
Tamer ha 9 fratelli e 2 sorelle. Suo padre è disoccupato perché malato.
Prima che andassi via, Tamer ha fissato i miei occhi incessantemente.
L'ho guardato, ma per il dolore che ho provato ho distolto lo sguardo per un istante, poi mi sono voltata di nuovo verso di lui ed ho trovato i suoi occhi ancora fissi sui miei. Mi guardava in silenzio, dolorante, come a voler chieder aiuto attraverso i suoi occhi.
Avrei voluto sbattere i miei pugni contro il muro, avrei voluto gridare e piangere.
Il suo sguardo non lo dimenticherò mai più per tutto il resto della mia vita.





Alaa Al-Looh ha 34 anni. Ha una frattura alla tibia ed ustioni sul viso.
Nello stesso giorno, domenica 12 marzo, un attacco israeliano aveva ucciso un padre ed una figlia all'interno della prorpia fattoria. Mohammed Mostafa El-Hsoni aveva 65 anni e sua figlia Fayza Mohammed El-Hsoni aveva 30 anni.
Alaa era in motocicletta, ha sentito una forte esplosione ed è rimbalzato a terra. Si è risvegliato in ospedale. Alaa è sposato ed ha tre figli, due maschi ed una femmina, e lavora in un negozio ortofrutticolo.
Quando il dottore ci ha mostrato la frattura, Alaa gridava dal dolore.
Alaa Al-Looh, 34 anni




Hussien Omer Abo Aqla ha 26 anni.
Nella stessa giornata di domenica 12 marzo, verso le 8.00 del mattino, Hussien tornava a casa dopo il lavoro. Hussien trasporta cibo alle scuole al mattino presto.
Improvvisamente un drone ha colpito la strada in cui si trovava, Salahadin street, in Al-Zeitoun, zona est di Gaza city.
Hussien è ferito alla schiena e soffre di pressione al torace.





Moath Nofal Abo El-Eash ha 20 anni.
Lunedì all' 1:30 di notte due missili hanno colpito il campo profughi di Jabalia, a nord di Gaza city. Il primo attacco è stato eseguito da un drone.
Il missile ha colpito la casa della famiglia Hammad. Più di 30 persone sono rimaste ferite, di cui 21 bambini. L'abitazione è stata completamente distrutta e le altre sono state danneggiate.
La sua casa era vicina a quella della famiglia Hammad. Moath aveva sentito una grande esplosione , i suoi vicini gli avevano chiesto di uscire per cercare di salvare la famiglia Hammad. Uscito di casa, un caccia F-16 ha lanciato un altro missile.
Moath ha ferite da ustioni su tutto il corpo, in particolare sul viso, e schegge in molte parti del corpo.

Gli ho chiesto se se la sente di lasciare un messaggio al mondo dopo quello che è successo.
Moath mi ha risposto: "La mia immagine è sufficiente per parlare al mondo".





Il Dr. Maher Sukkar, vicepresidente del reparto di chirurgia plastica allo Shifa Hospital, ci ha detto che faranno analizzare alcune schegge delle armi utilizzate per sapere se sono cancerogene.
Prima di salutarci, ci ha detto che le armi utilizzate sono americane. Ha aggiunto: "Abbiamo bisogno di un po'di libertà. Dite al mondo cosa avete visto in ospedale. Perché i nostri bambini non possono avere uno spazio dove giocare? Perché siamo palestinesi? Io e mia moglie abbiamo vissuto fuori per un periodo ma siamo tornati a Gaza, nonostante le difficili condizioni di vita, perché il nostro paese ha bisogno di noi."

Penso ai bambini che ho incontrato, alle loro vite ed al loro dolore, penso agli occhi di Tamer mentre gli F-16 continuano a volare sul cielo di Gaza.

mercoledì 14 marzo 2012

Da GAZA

qui a Gaza siamo al quarto giorno dell'escalation militare esplosa venerdì pomeriggio intorno alle 16 con l'ennesima esecuzione extra giudiziaria. L'esercito israeliano ha ucciso il segretario dei Popular Restance Committees e un altro suo membro, uno dei prigionieri liberati originario di Nablus, bombardando l'auto su cui viaggiavano a Tel El Hawa, in quartiere a sud di gaza city.
Immediata è stata la reazione da parte dei gruppi armati dei Comitati di Resistenza Popolare e della Jihad Islamica che hanno iniziato a lanciare razzi Qassam e Grad e seguiti a ripetizione dalle bombe israeliane.
Gli ultimi quattro giorni sono stati un susseguirsi di bombardamenti e di lanci di razzi. Qui dalla zona del porto ci prende un tuffo al cuore ogni volta che in lontananza sentiamo l'eco delle bombe che cadono a distanza di qualche chilometro e il nostro pensiero va alle persone che conosciamo. Dopo parecchio allenamento abbiamo imparato a distinguere il tonfo delle bombe dal tuono decollante dei Grad.
Il drammatico bilancio qui a Gaza è finora di 24 morti e 46 feriti e se, com'è prevedibile, stanotte bombarderanno ancora queste cifre sono destinate ad aumentare. Anche il suono degli aerei e dei droni sulle nostre teste non lasciano ben sperare. Tra le vittime civili anche un ragazzino di 12 anni del campo rifugiati di Jabalia colpito ieri mattina mentre stava andando a scuola e un altro di 15 anni oggi colpito sempre a nord della striscia.
Circa 180 razzi sono stati sparati da Gaza, molti dei quali intercettati dal sistema di difesa israeliano o esplosi prima di superare il confine. A lanciare i razzi sono stati per lo più i bracci armati di Islamic Jihad, popular resistance Committe e oggi ad essi si è aggiunto anche quello del PFLP, mentre Hamas non ha finora mai preso parte. Un decina di persone sono state ferite dal lato israeliano. Mentre nel sud di Israele la chiusura delle scuole lascerà a casa 200 mila bambini, è sorprendente come qui a Gaza invece la vita quotidiana sia andata avanti "normalmente". Oggi è stata anche inaugurata all'università AzZahar la settimana anti-apartheid.

E' chiaro che agli israeliani fa comodo in questo momento aumentare il livello di tensione per cercare di ostacolare il processo di riconciliazione tra Hamas e Fatah. I bombardamenti di questi giorni si aggiungono a un situazione umanitaria già insostenibile. Da metà febbraio è iniziata la crisi del carburante e da settimane le ore di elettricità sono state drasticamente ridotte. Nelle case ci sono solo 6 ore di elettricità e anche chi ha il generatore non riesce a reperire la benzina. Dai benzinai ci sono code lunghissime di auto e di gente con le taniche da riempire.
Non finisce mai di sorprendere l'inesauribile capacità dei gazawi di resistere a tutto questo.
Speriamo che questo disastro umanitario finisca al più presto,
un abbraccio da gaza
adriana

martedì 13 marzo 2012

NO F-35

BASTA GUERRA - BASTA ARMI


SMILITARIZZIAMO I TERRITORI


Si è rotto un silenzio assordante e molte voci hanno ripreso il nostro NO agli F-35. Oggi il Governo Monti annuncia di voler ridurre l'acquisto da 131 a 90 esemplari, ma non rinuncerà alla versione B, abbandonata dalla Gran Bretagna per il costo eccessivo.


Questo non ridurrà in modo sostanziale la nostra spesa che andrà ben oltre i 10 miliardi per l'acquisto e oltre i 30 miliardi per la gestione e manutenzione, senza considerare il lievitare dei costi.

Come è emerso anche nelle audizioni della Commissione Difesa della Camera, nessun posto di lavoro in più sarà creato dalla produzione in Italia degli F-35: i lavoratori saranno semplicemente trasferiti da altri siti produttivi.


Non ci sarà nessuna ricaduta tecnologica e queste risorse saranno sottratte ad altre attività socialmente utili che creerebbero davvero molti posti di lavoro e benefici sociali (energie pulite e rinnovabili, interventi per la bonifica e la tutela dell'ambiente, servizi sociali, istruzione, ricerca, cultura, difesa del territorio, ecc.).

Noi continuiamo a chiedere la cancellazione del programma


non solo per i suoi enormi costi pubblici (intollerabili in questo momento di grave crisi economica e sociale che tocca le tasche e la vita di tutti noi), ma anche perché i cacciabombardieri F-35 sono armi d'attacco e di distruzione di massa e quindi violano l'articolo 11 della Costituzione.

Mentre si tagliano sanità, pensioni, scuola, la spesa complessiva per la difesa militare ammonta per il 2012 a 23 miliardi di euro.

L'assemblaggio dei velivoli è previsto nello stabilimento che Lockheed Martin ed Alenia stanno facendo costruire all'interno dell'aeroporto militare di Cameri, a pochi chilometri da Novara. I lavori della ditta vicentina Maltauro, che ha vinto l'appalto per la costruzione dei capannoni dall'inizio del 2011, sono in una fase avanzata.

Il progetto più costoso della storia accumula difetti, ritardi, aumenti di costi, come ci dicono le relazioni interne al Pentagono. Vi sono rinunce di partner, rinvii, sospensioni e cancellazioni di acquisti in Olanda, Canada, Danimarca, Norvegia, Australia, Turchia, Inghilterra, USA.


Uscire oggi dal progetto non ci costerebbe nessuna penale.

Decidere di restarci è irresponsabile

e contrario agli interessi della vita sociale italiana.


GLI F-35 SONO UNA ENNESIMA GRANDE OPERA INUTILE E NOCIVA

CHE CONSUMA IN ARMI DI DISTRUZIONE I NOSTRI SOLDI



FERMIAMOLA!


MOVIMENTO NO F-35

MOBILITAZIONE CONTRO L’APARTHEID

In tutto il mondo, a Febbraio e Marzo si tiene l’iniziativa della Settimana contro l’Apartheid. Chiedendo di aderire al boicottaggio dell'Apartheid israeliano. Domani il via in Palestina, anche a Gaza ancora sotto le bombe.

IKA DANO

Beit Sahour (Cisigiordania), 12 Marzo 2012, Nena News – Inizia oggi in Palestina l’ottava edizione della Settimana contro l’Apartheid israeliano. Con attività in tutte le città della Cisgiordania, organizzazioni della società civile e coordinamenti popolari mirano a sensibilizzare l’opinione pubblica locale ed internazionale sulle discriminazioni strutturali perpetrate dallo Stato di Israele. Chiedendo al mondo di unirsi al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Negli ultimi anni, la risposta internazionale all’iniziativa è stata in costante crescita. Nel 2011, 97 le città che hanno aderito in tutto il mondo, quest’anno sono 109. E anche Gaza, nonostante i bombardamenti, partecipa per la terza volta.

Il concetto di Apartheid è entrato nel diritto internazionale con la convenzione ONU del 1973 – con i voti contrari di Portogallo, Sudafrica, Gran Bretagna e Stati Uniti in Assemblea Generale. La convenzione mirava alla condanna dell’apartheid sudafricano, adottando però una definizione applicabile anche ad altri contesti. “Il termine ‘crimine di apartheid’, – si legge nell’articolo 2 – “designa gli atti disumani, commessi in vista di istituire e di mante­nere la dominazione di un gruppo razziale di esseri umani su un qualsiasi altro gruppo razziale di essere umani e di opprimere sistematicamente quest’ultimo”.

Molteplici gli studi legali sulla natura dell’Apartheid israeliano, definito tale in virtù della violazione del diritto alla nazionalità, alla libertà di movimento e alla residenza dei Palestinesi, negati al fine “di stabilire e mantenere la dominazione di un gruppo su di un altro” – scrive il ricercatore Hazem Jamjoum sulla rivista Al Majdal – trattandosi nel caso di Israele del “popolo ebraico definito come tale dalla legge israeliana, posto al di sopra dei “Non-Ebrei”, esclusi dallo stesso statuto legale e politico”.

La condanna dello Stato di Israele che “assoggetta i Palestinesi ad un regime istituzionalizzato di dominazione equivalente all’apartheid come definito dal diritto internazionale” è arrivata lo scorso novembre dal Russell Tribunal sulla Palestina, istituito dalla società civile in seguito alle mancata implementazione di sanzioni per la costruzione del Muro di Separazione, dichiarato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004. Nella giuria, esperti legali di fama internazionale quali l’avvocato britannico Michael Mensfield e il professore di diritto internazionale John Dugard.

I paralleli tra il regime sudafricano e quello israeliano vengono riconosciuti nella natura coloniale dello Stato, nella creazione di cosidetti bantustans – aree circoscritte in cui confinare la popolazione “indesiderata” perchè non “eletta” – e nell’idea della necessità di supremazia “razziale”, che nel caso israeliano si traduce in pratiche di espulsione della popolazione palestinese, rincorrendo il sogno sionista “della terra senza popolo per un popolo senza terra”. E a testimoniare le similitudini tra l’Apartheid sudafricano e quello israeliano, si richiama spesso la voce dell’attivista e arcivescovo sudafricano Desmond Tutu che, invitato lo scorso anno alla conferenza dell’organizzazione Sabeel a Betlemme, ha dichiarato “qui [in Palestina] ho visto cose che non si sono viste neppure nell’Apartheid sudafricana, un livello di punizione collettiva che da noi non c`era”.

Diversi gli sforzi delle organizzazioni impegnate nella Settimana contro l’Apartheid di mettere l’accento sulla definizione legale e sulle similitudini con le politiche razziste di Pretoria, contro cui il mondo intero – seppur dopo anni – è stato disposto a solidarizzare. Tra le attività in Cisgiordania, la proiezione del documentario “Roadmap to Apartheid”- un paragone tra Sudafrica e Palestina, e dibattiti sul coordinamento del movimento anti-Apartheid. A Gaza – ancora sotto i bombardamenti - sono previste discussioni sull’importanza della Primavera Araba per la Palestina, il significato dell’esilio nella narrativa palestinese e il ruolo del BDS nel mondo arabo.

A livello mondiale, numerose le iniziative sull’importanza del movimento di boicottaggio come mezzo di resistenza pacifica, che propio nel caso del Sudafrica, aveva dimostrato la sua efficacia. Da Montréal a Glasgow, da Lublijana a Pisa, workshops e incontri per rispondere alla chiamata di oltre 170 organizzazioni della società civile palestinese, che all’immobilità della comunità internazionale nel 2005 ha risposto con un appello alla società civile di tutto il mondo ad unirsi al boicottaggio.

Chiari gli obiettivi: uguaglianza dei palestinesi cittadini israeliani, fine dell’Occupazione e della colonizzazione della Cisgiordania, di Gaza, delle Alture del Golan e di Gerusalemme Est, smantellamento del Muro e diritto al ritorno dei sei milioni di rifugiati palestinesi come stipulato dalla risoluzione ONU 194.

Grande assente europea della Settimana contro l’Apartheid, la Germania, dove la critica alle politiche israeliane viene bersagliata con molta facilità come antisemitismo. Ma al riparo da critiche non si è neppure altrove. Dal Canada, dove la risonanza dell’iniziativa nelle università è forte, echeggia il ministro dell’immigrazione Kennedy “Questa settimana non è altro che un sbilanciato tentativo di dipingere Israele e i suoi sostenitori come razzisti”. “Chiedo ai Canadesi di rifiutare l’antisemitismo – ha continuato – e tutte le forme di razzismo, discriminazione e intolleranza”.

Intanto, Israele si mobilita per contrastare un’iniziativa che evidentemente desta timori: il Ministro per la Diplomaza e gli Affari della Diaspora finanzia una delegazione di un centinaio di israeliani incaricati di diffondere l’immagine positiva di Israele in Europa, Africa and America del Nord.Nena News

lunedì 12 marzo 2012

GAZA GRIDA AL MONDO

«Non possiamo aspettare oltre», spiegava qualche giorno fa alla Casa Bianca il premier israeliano Netanyahu, giunto a Washington per strappare a Barack Obama il via libera ad un attacco aereo contro le centrali nucleari iraniane. E invece gli F-16 e i droni israeliani sono decollati verso Gaza, per colpire in modo ancora più devastante obiettivi che già prendono di mira a giorni alterni, spesso senza neppure la motivazione dei lanci di razzi palestinesi. Fanno il «loro dovere» i piloti israeliani e, intanto, si addestrano per missioni più audaci, sulla rotta di Tehran. I comandanti militari da parte loro si compiacciono per «la precisione» dei lanci di missili e bombe su Gaza. Poco importa se ogni tanto ci scappa il «danno collaterale», qualche civile innocente ucciso. Ormai chi si ricorda più dei pescatori palestinesi cacciati indietro dalle motovedette israeliane che entrano ed escono dalle acque di Gaza? Chi si cura delle migliaia di contadini della Striscia che non possono coltivare i campi all’interno della «zona cuscinetto» imposta da Israele? Vittorio Arrigoni ci raccontava tutto questo ogni giorno. Una mano assassina lo ha fermato.
Ci sono voluti 15 morti per far tornare l’attenzione sulla prigione a cielo aperto di Gaza e il suo milione e mezzo di detenuti-abitanti. E con essa la questione palestinese offuscata dalle rivolte arabe, dimenticata dai «fratelli arabi» e messa in soffitta dall’Amministrazione Usa. Appena qualche anno fa si diceva che solo la fine dell’occupazione israeliana dei Territori avrebbe portato la pace in Medio Oriente. Oggi solo gli attivisti internazionali non dimenticano i palestinesi. I primi ministri e i presidenti dell’Occidente fingono di non vedere, di non sapere. E si è affievolita pure la denuncia del governo di Hamas, anch’esso prigioniero a Gaza, intento a godersi il nuovo status che ha conquistato nella regione. Tace, colpevolmente impotente, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. E’ solo un ricordo sbiadito il sussulto che provocò tra la sua gente chiedendo (invano) lo scorso settembre all’Onu il riconoscimento dello Stato di Palestina, incurante dell’opposizione di Usa e Israele. Dopo è stato solo silenzio. I suoi sponsor occidentali ora lo ammoniscono dal riconciliarsi con Hamas, pena l’isolamento e la perdita delle donazioni internazionali. E dalla Casa Bianca gli fanno sapere di non aspettarsi passi americani in Palestina fino alle presidenziali. Perché, dopo, ci saranno?
Controlacrisi.org

Genocidio a Gaza, un bambino ucciso

GAZA, 24 MORTI. EGITTO TENTA MEDIAZIONE

Prosegue l’attacco militare: uccisi oggi due minori. Il Cairo media, ma il cessate il fuoco è lontano. Netanyahu: “Continueremo il tempo necessario”. Abbas chiede intervento Lega Araba e ONU. L’OLP accusa Israele: l’obiettivo è sabotare riconciliazione Hamas-Fatah.

EMMA MANCINI

Beit Sahour (Cisgiordania), 12 marzo 2012, Nena News – Continuano a piovere bombe sulla Striscia di Gaza, la furia militare israeliana si intensifica. Al quarto giorno consecutivo di bombardamenti aerei il numero dei morti sale a ventidue, mentre l’Egitto tenta di fare da mediatore con Tel Aviv per fermare un’escalation di violenza non giustificabile. Ma il cessate il fuoco non sembra essere nei piani del governo israeliano: il ministro Barak e il premier Netanyahu intendono proseguire nel massacro, “che durerà il tempo necessario”.

Stamattina a rimanere uccisi sotto il fuoco israeliano due giovani palestinesi: un ragazzo di 15 anni, Tamer Azzam, è stato ucciso da un drone mentre si recava a scuola a Sudanya. Cinque suoi compagni sono rimasti feriti nell’attacco. A Beit Lahiya, Nord di Gaza, il diciassettenne Nayif Shaaban Qarmout è stato centrato dall’aviazione israeliana. A Sud della Striscia uccisi anche due militanti della Jihad Islamica: a Khan Younis un aereo israeliano ha colpito l’automobile in cui viaggiava Raafat Abu Eid, 24 anni, mentre Hamadah Salman Abu Mutlaq, 24 anni, è stato ucciso vicino ad una moschea. Nei due attacchi feriti sei palestinesi.

Secondo quanto riportato dalla cooperante italiana a Gaza, Rosa Schiano, e da siti di informazione israeliani sarebbero morti due membri della famiglia Fakhoura, il padre e una figlia, a Beit Lahiya.

Il portavoce dei servizi sanitari di Gaza, Adham Abu Salmiya, ha fatto sapere che nei bombardamenti israeliani di questa mattina sono state centrate due abitazioni a Nord di Gaza: feriti 33 civili, per lo più donne e bambini. E se Israele afferma che l’aviazione sta prendendo di mira soltanto le basi militari dei gruppi armati palestinesi e i depositi di armi, pare difficile crederci: tra i morti numerosi civili, tra cui un bambino di soli 12 anni, Ayoub al Saliah, e un 60enne guardiano di campi, Adel al Asi.

I gruppi militanti di Gaza stanno rispondendo all’attacco militare di Israele: anche oggi numerosi i missili lanciati dalle Brigate Al-Quds (ala militare della Jihad Islamica), dalle Brigate Nasser Saladin (PRC) e dalle Brigate Abu Ali Mustafa (PFLP) contro le città israeliane a Sud: Ashkelon, Sderot, Beeri e Netivot i target, mentre le scuole israeliane restano chiuse. Negli ultimi tre giorni sarebbero circa 180 i razzi lanciati da Gaza verso Israele, molti dei quali abbattuti dal nuovo sistema difensivo “Iron Dome”.

Le autorità palestinesi intanto cercano una via d’uscita a livello internazionale e regionale. Ieri il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ha chiamato il Segretario Generale della Lega Araba, Nabil al-Arabi, per porre fine ai bombardamenti che ancora una volta mettono in ginocchio una striscia di terra sotto assedio.

Abbas ha prospettato l’idea di rivolgersi direttamente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: Israele è responsabile “del pericoloso deterioramento dei rapporti con il popolo palestinese: omicidi, incursioni e distruzione di infrastrutture”. Un’escalation di violenza intollerabile che molti osservatori imputano alla volontà israeliana di spezzare definitivamente il già debole processo di riconciliazione interno tra Fatah ed Hamas. Come spiegato ieri dall’ufficiale dell’OLP, Hanan Ashrawi, l’assassinio del capo dei Comitati di Resistenza Popolare è “una deliberata interferenza negli affari interni palestinesi nell’obiettivo di sabotare la riconciliazione nazionale”.

E mentre Fatah opta per la comunità internazionale (l’inviato dell’OLP alle Nazioni Unite ha inviato una lettera ufficiale al Segretario Generale Ban ki-Moon), Hamas punta sull’Egitto, da sempre mediatore tra Israele e il movimento islamista al potere nella Striscia. Il premier di Gaza Ismail Haniyeh ha apertamente chiesto al Cairo di intervenire per porre fine alle violenze contro la popolazione palestinese, aggiungendo che tutte le fazioni politiche di stanza a Gaza si sono mostrate propense all’intervento egiziano.

Lo stesso ambasciatore egiziano presso l’Autorità Palestinese, Yasser Othman, ha fatto sapere che il suo Paese è in contatto con entrambe le parti per giungere il prima possibile ad un cessate il fuoco duraturo. Un attacco “ingiustificabile”, secondo Othman: bombardare per giorni la Striscia con l’obiettivo di uccidere il presunto responsabile degli attentati di agosto a Eilat (ucciso venerdì, ndr) è una presa in giro. “Il Sinai è sotto il pieno controllo israeliano – ha detto l’ambasciatore egiziano – Questo è solo un tentativo di Israele di dare una giustificazione all’ennesime offensiva contro Gaza”.

Per oggi previsto anche l’incontro del Quartetto per il Medio Oriente (Nazioni Unite, Stati Uniti, Unione Europea e Russia) per discutere dell’andamento del processo di pace tra israeliani e palestinesi, alla luce della Primavera Araba.

Presenti il segretario di Stato americano Hillary Clinton, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, il Segretario Generale ONU Ban Ki-Moon, mentre Catherine Ashton, rappresentante UE per gli Affari esteri, era collegata in video conferenza. Il Quartetto avrebbe discusso delle vie per far tornare palestinesi e israeliani al tavolo dei negoziati, in vista della creazione dello Stato di Palestina. Mentre su Gaza continuano a piovere bombe.

Eppure una tregua a breve non appare nei piani del governo di Tel Aviv. Ieri il premier Netanyahu ha affermato che la campagna militare contro Gaza proseguirà “il tempo necessario”. Mentre il compagno Barak, ministro della Difesa, ha ipotizzato che i bombardamenti contro la Striscia potrebbero proseguire per almeno altri due giorni. “Un’operazione sul terreno non è in questo momento desiderabile”, avrebbe detto Barak, seppure non ci sia unanimità di vedute nella compagine dei ministri israeliani. Nena News