domenica 29 gennaio 2012

IRAQ-USA:LIBERO MARINE RESPONSABILE STRAGE HADITHA

Gli abitanti della città dove vennero uccisi 24 civili dai soldati Usa condannano la decisione dei giudici militari americani di lasciare libero il sergente Frank Wuterich, principale esecutore del massacro.

Roma, 26 gennaio 2012, Nena News – Due giorni fa Barbara Surk, giornalista dell’agenzia Ap inviata in Iraq, ha raccontato bene la frustrazione della gente di Haditha per come si è concluso negli Stati Uniti il processo per la strage di 24 civili iracheni – tra i quali donne, bambini, anziani e anche un ragazzo disabile – compiuta il 19 novembre del 2005 dal sergente dei marine Frank Wuterich, 31 anni, e alcuni suoi commilitoni in servizio nella provincia di Anbar. La procura militare aveva chiesto il carcere a vita per Wuterich che invece, dopo essersi dichiarato colpevole ed aver patteggiato la pena, non sconterà alcun giorno di carcere su raccomandazione del giudice militare di Camp Pendleton, David Jones.

Anche questo militare americano, come Mario Lozano che nel 2005 uccise il funzionario del Sismi Nicola Calipari e ferì la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, e tanti altri impegnati nell’invasione ed occupazione dell’Iraq, non pagherà per aver commesso un crimine orrendo contro civili indifesi. Gli Usa, che hanno imposto a molti paesi di accettare l’immunità per i suoi soldati impegnati in missioni di guerra all’estero, si dimostrano estremamente «comprensivi» nei confronti dei loro militari accusati di omicidi e stragi una volta tornati in patria per subire il processo. «Siamo delusi per l’accordo raggiunto da Wuterich con i giudici militari americani, la punizione (tre mesi di carcere a piede libero, degradato e riduzione dello stipendio, ndr) che questo soldato riceverà per ciò che ha commesso nella nostra città equivale ad una multa per violazione del codice della strada», ha commentato Khalid Salman Rasif, un membro del consiglio provinciale di Anbar (85mila abitanti, a 200 km a nord-ovest di Baghdad). Awis Fahmi Hussein, scampato alla strage e ferito alla schiena, si è detto allibito: «Mi aspettavo una condanna all’ergastolo (per Wuterich) e invece l’America ha dimostrato di non essere democratica ed equa».

Wuterich era l’ultimo degli otto marine finiti sotto processo per il massacro di Haditha: per sei militari le accuse erano già cadute, un altro è stato assolto. Il sergente era noto tra i suoi uomini per la linea di condotta mantenuta durante le operazioni in Iraq: «Spara prima, poi fai domande». Il 19 novembre del 2005 nella provincia di Anbar, i marine americani erano stati colpiti da un ordigno che aveva provocato delle vittime. La rappresaglia scattò nella vicina Haditha nei confronti di persone disarmate. Veri e proprio assassinii a freddo. Ma i giudici militari americani non hanno ritenuto questo crimine punibile con il carcere. Nelle scorse settimane se la sono cavata anche i vertici della “Blackwater” – l’agenzia dei contractors per la sicurezza responsabili di una strage di civili a Baghdad – che hanno accettato di risarcire economicamente le famiglie delle vittime e si sono rimessi a realizzare buoni affari in giro per il mondo.

Gli iracheni di Haditha sono allibiti anche per il comportamento del loro governo che non ha fatto nulla per ottenere giustizia dagli Stati Uniti. «Quei criminali andavano processati in Iraq ma le nostre autorità sono rimaste a guardare», si è lamentato Naji Fahmi, un impiegato statale di 45 anni ferito allo stomaco da Wuterich e i suoi compagni.Nena News

Marcia Globale verso Gerusalemme: 30 marzo 2012

Il 30 marzo 2012, provenendo da tutti i continenti, convergeremo e ci raduneremo lungo i confini palestinesi con l'Egitto, Giordania, Siria e Libano, con la partecipazione di delegazioni provenienti da ogni paese del mondo, in una marcia pacifica verso la Palestina.
Dall'occupazione sionista del 78% della Palestina nel 1948, e dalla successiva occupazione di Gerusalemme e del resto della Palestina nel 1967, siamo stati testimoni degli sforzi crescenti per giudaizzare Gerusalemme e per colonizzare la Palestina. Questi crimini contro l'umanità sono compiuti sotto la protezione politica e il pieno sostegno delle diverse amministrazioni USA e coperti grazie al loro potere di veto alle Nazioni Unite.
L'obiettivo dei sionisti è quello di spingere i residenti palestinesi fuori da Gerusalemme e dal resto della Palestina, attraverso atti di terrorismo di Stato, pressioni economiche, restrizioni legali, fino all'espulsione completa.
La città santa di Gerusalemme è chiamata falsamente da Netanyahu e dagli altri leader sionisti "la capitale eterna di Israele", i quali affermano chiaramente che “Gerusalemme non è negoziabile”. Queste dichiarazioni e le conseguenti azioni dei sionisti sono assolutamente incompatibili con tutte le principali risoluzioni delle Nazioni Unite su Gerusalemme e contrarie ai principi del diritto internazionale.
La posizione predominante nella leadership israeliana, a livello politico, militare e religioso, è che Israele ha il diritto di occupare tutta la Palestina storica. La "soluzione finale", come previsto dai sionisti, è quella di completare la pulizia etnica di tutti i palestinesi dalla Palestina storica e nel frattempo attuare un sistema di apartheid.
Ma Gerusalemme, oltre ad essere venerata dai seguaci di tutte le religioni monoteiste, è una eredità comune e universale. Questa straordinaria, storica e antichissima città è anche considerata, in tutto il mondo, patrimonio di tutta l'umanità.
La città di Gerusalemme è sempre stata un faro di emancipazione e di speranza per gli oppressi. Essa ha simboleggiato l'unità e l'uguaglianza di tutti gli esseri umani e un messaggio di amore, misericordia e compassione. Milioni di persone che amano Gerusalemme sono preoccupate per la sicurezza e la santità della moschea di Al-Aqsa, della Cupola della Roccia, della Chiesa del Santo Sepolcro e di altri luoghi sacri, minacciati dal progetto sionista teso a cambiare e smantellare la struttura della società di Gerusalemme, distruggendo la sua identità araba e islamica e stravolgendo il carattere della città.
Gerusalemme e tutta la Palestina devono essere liberate, redente, e restituite come luoghi di libertà e di coesistenza di tutti i cittadini del mondo, quali che siano le loro tradizioni religiose e culturali.
Come parte di questo movimento e su invito dei palestinesi, abbiamo deciso di organizzare una Marcia Globale verso Gerusalemme (GMJ è il suo acronimo in inglese) volta ad aumentare la consapevolezza della minaccia mortale che pesa su Gerusalemme e su tutta la Palestina per mano dei sionisti, contribuendo così ad avvicinare il giorno della liberazione.
Il 30 marzo 2012, provenendo da tutti i continenti, convergeremo e ci raduneremo lungo i confini palestinesi con l'Egitto, Giordania, Siria e Libano, con la partecipazione di delegazioni provenienti da ogni paese del mondo, in una marcia pacifica verso la Palestina.
Chiediamo a tutte le persone di coscienza di unirsi a noi.
Il Comitato internazionale della Marcia Mondiale verso Gerusalemme

Per altri documenti vedi www.globalmarchtojerusalem.org/main/
oppure www.ism-italia.org/2012/01/global-march-to-jerusalem
Seguiranno appena disponibili le indicazioni organizzative.
traduzione a cura di ISM-italia, www.ism-italia.org, info@ism-italia.org

sabato 28 gennaio 2012

NO TAV:Arresti arbitrari e assurdi

http://www.eilmensile.it
26 gennaio 2012

No Tav: “Arresti clamoroso autogol. Non si risolve la questione con la polizia”.
di Angelo Miotto

Il blitz all’alba, gli arresti, la reazione dei NoTav. Manifestazioni e fiaccolate, mentre per sabato è previsto corteo a Torino, e gli incontri con gli studenti di tutta Italia in Valsusa. L’operazione di questa mattina è stata definita come un vero e propio attacco contro il Movimento. E da domani mattina la grande stampa riprenderà il tema dello scontro e della violenza, offuscando i motivi di una resistenza ce dura da 22 anni nella Valle, contro il progetto dell’Alta velocità.

Massimo Zucchetti, professore al Politecnico di Torino è consulente scientifico per la comunità montana della Valsusa. E milita da anni nel Movimento No tav.

Professore, come legge gli arresti di oggi?

Le valutazioni che possiamo fare andranno confermate con tutti i dati degli arrestati. È una operazione che nell’ambito di noi NoTav, noi che siamo molto diversi fra di noi e che oggi ci sentiamo uniti di fronte a questa stupida repressione, era attesa. Casualmente è partita quando il consenso verso il movimento sta crescendo in maniera netta nel resto del paese. Ci sono iniziative come le visite degli studenti di tutta Italia che sabato e domenica verranno in valle per capire le nostre ragioni. Per fatti successi a giugno e a luglio adesso come un fulmine a ciel sereno vengono arrestate persone che se non ci fosse un po di presunzione di intelligenza, persone scelte un po a caso.

Ricordiamo a Genova, luglio 2011, quando i No Tav erano i più applauditi e il segmento più partecipato. Una lotta che rappresenta una bandiera di un movimento. Si vuole colpire questo movimento, queste pratiche politiche?

Sì. Il movimento è presente da 22 anni. Questo urgentissimo progetto assolutamente necessario è da 22 anni in fase di studio. Negli ultimi anni ha assuntola caratteristica di movimento dei movimenti. Ci sono questi fenomeni molto belli di democrazia partecipativa in valle gente che non ha mai fatto attività politiche, che partecipa e decide in maniera democratica. Tutto questo è fastidioso per questa congrega che lega il PD e il Pdl che ha promesso una serie di prebende e azioni legate all’attuazione di questo progetto inutile dannoso e vecchio, adesso la terra manca sotto i piedi perché la verità sale inesorabilmente a galla e cercano in qualche modo di salvare il salvabile e le loro tangenti. Ma questo non si fa con azioni poliziesche, Non funziona.

Repressione, violenza e un dibattito che in Italia stenta a essere affrontato: una resistenza comporta un conflitto con gradi diversi di opposizione, Ma in Italia si parla subito di ‘terrorismo’. Lei è frequentatore della Valle, che ne pensa?

È un processo strano. In qualche modo si cerca guardando il dito che indica la luna non guardare la luna. Un processo di resistenza di fronte a una valle militarizzata e all’imposizione di procedure fasulle perché non esiste un cantiere, ma una base militare, le modalità di lotta non violenta comportano anche il non dare fastidio, se no che lotta sarebbe. Le faccio un pio di esempi. Hanno arrestato Tobia Imperato vecchio anarchico incapace di dare fastidio a una mosca, sempre con la sua bandiera nera e autore di un bellissimo libro “Le scarpe dei suicidi”, che racconta in maniera netta la vicenda di Sole e Baleno, suicidati in carcere nel 98 dopo che si pensava che fossero degli anarcoterroristi No Tav.

E dentro è finito anche Guido Fissore, il consigliere comunale di Villarfocchiardo, noto in tutta la valle per essere un non violento pacifista che cercava sempre di tenere a bada le vaire intemepranze dei giovani. Un signore nato nel 1945. Gli è stata sequestrata in casa la sua stampella. Perché in uno degli eventi o il 27 giugno o il 3 luglio, Guido cercava di fare barricata con il suo corpo grosso e cin la stampella perché recentemente operato. Ha respinto lo scudo di uno dei poliziotti con la stampella ecco “l’atto di violenza grave e uitlizzo di arma improrpia’. Per questo sta in carcere. Ci siamo chiesti fra noi No Tav, docenti, non docenti, persone normali. Se lui è finito in carcere allora possiamo finirci tutti.

Ma le diranno che c’è stata guerriglia nei boschi.

Io ritengo che in un movimento che fa opposizione e che si trova a doversi scontrare anche con le forze dell’ordine e con ordinanze che prevedono senza motivi di impedire accesso a cittadini in territorio pubblico possono succedere delle cose. Sono atti ritualizzati, non è una guerra. La polizia non ha usato proiettili di gomma ok veri. Non è una guerra. È una sorta di azione di opposizione, ritualizzata da una parte e dell’altra. Le sassaiole come si vede su youtube erano da una parte e dall’altra. Gli atti violenti da ambo i lati. Non me ne stupisco. Quando si è in mezzo ai lacrimogeni e ici si trova nei boschi si cerca di passare un cancello, nonostante l’azione di persone come Perino, come Imperato, che cercano di moderare e immagino anche dall’altra parte, si rischia di inciampare. Ma non vedo come questo debba essere il punto di cui discutere. Il punto è un altro. Devono andare via perché è un progetto inutile. Quando andranno via non ci saranno più problemi.

OCEANICA MANIFESTAZIONE IN EGITTO

Cari amici e amiche,

trilioniya è il termine che ha usato oggi un utente di Twitter (Shady Sherif) per descrivere quello che è successo oggi in Egitto, che ha lasciato a bocca aperta persino gli attivisti più ottimisti. Milioni di egiziani hanno invaso le strade del Cairo, Alessandria, Suez, Ismailiya, Mahalla al-Kubra e si potrebbero citare tutti i nomi delle città più importanti. E' stato un vero oceano di gente, a sentire molti dei presenti, più grande di quello che c'era stato l'11 febbraio 2011, quando Mubarak aveva lasciato il potere. Una massa di gente così grande che uno dei tanti cortei della giornata (più numerosi di quelli previsti dal programma) ha impiegato 45 minuti solo per attraversare il ponte Galaa, faticando a entrare nella straripante piazza Tahrir. C'era così tanta gente che si sono registrati centinaia di feriti a causa del sovraffollamento, per fortuna gli unici della giornata, che finora è trascorsa in pace, se si esclude il tentativo di attaccare una stazione di polizia ad Assyut.

Ma cosa è stata, infine, questa enorme manifestazione? Una protesta o una festa? A giudicare dagli slogan, è prevalsa nettamente la protesta, seppur in un clima di gioia per essere di nuovo così in tanti. Gli slogan, quasi tutti contro i militari, hanno avuto il sopravvento sulla musica e la retorica degli islamisti, i quali non sono riusciti a imporre la propria direzione degli eventi. Si sono occupati della sicurezza delle entrate della piazza (le forze di sicurezza erano assenti), hanno eretto un palco (che è crollato due volte, sotto la pressione della folla) e hanno cercato di dare un tono celebrativo all'evento. Tuttavia, la massa di chi invocava la fine del governo militare li ha quasi sommersi, come una goccia in mezzo al mare.

Durante la manifestazione, i partecipanti non hanno certo dimenticato le vittime della rivoluzione, alle quali è stato fatto un omaggio gigantesco: un obelisco di 15 metri, eretto nel bel mezzo di piazza Tahrir, con su scritti tutti i loro nomi, molti purtroppo. I loro volti, poi, erano ovunque, sulle foto che i dimostranti portavano in giro. Come sempre, in piazza c'erano proprio tutti, donne e copti compresi. Gli egiziani rimasti a guardare dalla finestra, o ai lati delle strade, hanno mostrato molta solidarietà, contrariamente al timore che la maggioranza degli egiziani fosse contro le manifestazioni. Non contro tutte le manifestazioni, evidentemente.

In effetti, a parer mio, è sbagliato attribuire alla famosa maggioranza silenziosa un'opinione uniforme, sfavorevole ai rivoluzionari e favorevole ai militari. Questa maggioranza silenziosa è probabilmente molto composita, sceglie quando partecipare a una manifestazione e quando no, e anche se non partecipa può essere solidale in altro modo, o critica senza essere ostile, o altro ancora. Qualche giorno fa, il governo ha rivelato i risultati di un sondaggio che ha indicato come più dell'80% degli egiziani è favorevole alla rivoluzione. Anch'io mi sono inizialmente stupita di questa alta percentuale, ma a giudicare da quel che è successo oggi, non pare un risultato sbagliato. Il problema è che gli egiziani hanno idee diverse, come è giusto che sia, su quale dovrebbe essere il corso della rivoluzione e sull'impegno di ciascuno nel compierla. Tuttavia, sia il sondaggio sia la grande manifestazione di oggi, confermano che gli egiziani non vogliono tornare indietro, né a uno stato di polizia né a uno stato militare. Vogliono il cambiamento e un sistema democratico di rappresentanza, anche se poi divergono, anche molto, sulla forma di quest'ultimo.

E l'enorme partecipazione popolare alla manifestazione di oggi conferma anche un'altra cosa, proprio all'indomani dell'insediamento del nuovo Parlamento che sembrava aver "sistemato le cose": la verà, grande, importante novità della primavera araba è la rinascita di un'opinione pubblica forte, di una nuova coscienza politica collettiva, di una società civile che non ha più paura di nessuno, si fa sentire e non accetta di essere scavalcata da nessun governo autoritario. Mai più. Questa società si sta ancora riprendendo dallo stordimento della dittatura, sta imparando a muoversi (anzi, secondo me sta facendo miracoli) ed è ancora oggettivamente svantaggiata rispetto a realtà storiche come i Fratelli Musulmani, molto più antichi del regime che è in via di disfacimento. Questa società (che ha tutti i colori e comunque non esclude nemmeno gli islamisti) ha lanciato un bel messaggio di avvertimento oggi, anche al nuovo Parlamento, al quale nessuno - come ho sentito ripetere spesso - ha mai firmato un assegno in bianco. E' su questa società che bisognerebbe scommettere. Chi parla di inverno arabo (sembra la moda del momento!), l'ha completamente trascurata.

Naturalmente, la manifestazione non finisce qua. Alcuni movimenti hanno già annunciato l'inizio di un sit-in a oltranza, finché i militari non lasceranno il potere. Molti manifestanti, anche a causa dell'impossibilità di ammassarsi tutti in piazza Tahrir, hanno spostato la protesta altrove. Il Maspero, il palazzo della tv, è stato una scelta quasi naturale, perché lì risiedono i "portavoce del regime" e l'idea di un assedio alla sede della (mala)informazione egiziana è un'idea che frulla da tempo nella testa di molti. Speriamo, tuttavia, che le proteste procedano pacificamente.

Non c'è bisogno di dire, comunque, che la rivoluzione egiziana ha ripreso fiducia e ottimismo. Si spera che anche le altre rivolte arabe (o processi di riforma che siano) ne saranno contagiate. Gli egiziani, di certo, non le hanno dimenticate, né vogliono proseguire da soli sulla strada della democrazia. L'ha testimoniato oggi il grande spazio che piazza Tahrir ha dato alla Siria.

Un caro saluto a tutti,

Elisa

ANCORA DEMOLIZIONI

COMUNICATO STAMPA

Nuove demolizioni nel villaggio beduino di Umm Al Kheer

Dopo le demolizioni l'IDF ha sequestrato un trattore nel villaggio palestinese di Khallet el Mayya


25 gennaio 2012


At-Tuwani – La mattina del 25 gennaio l'esercito israeliano ha prima demolito due abitazioni nel villaggio beduino di Umm Al Kheer e successivamente ha sequestrato un trattore nel villaggio di Khallet el Mayya.

Attorno alle ore 9:00 due bulldozer, scortati da alcune jeep militari e dal Dco (District Coordinating Office) dell'esercito israeliano, hanno fatto irruzione nel villaggio di Umm Al Kheer. Le due abitazioni che sono state demolite non avevano ricevuto alcun avviso di demolizione, sebbene ad oggi pendano sul villaggio 20 ordini di demolizione. La prima struttura apparteneva ad una coppia di anziani, mentre la seconda ad una donna con 9 figli. Durante le operazioni i palestinesi, che hanno cercato di ostacolare le attività interponendosi fra le abitazioni e i bulldozer, sono stati spintonati dai soldati. L'anziano proprietario di una delle abitazioni ha avuto un malore dopo esser stato strattonato dai militari. Intanto nel vicino insediamento israeliano di Karmel 2 ruspe lavoravano alla costruzione di nuove unità abitative.

Poco dopo aver terminato le demolizioni, i mezzi dell'IDF (Israeli Defence Force) si sono recati nel villaggio palestinese di Khallet el Mayya per sequestrare un trattore col rimorchio utilizzato da operai palestinesi per costruire una casa, a cui la settimana precedente il DCO aveva consegnato l'ordine di fermo dei lavori. Nel corso dell'operazione gli abitanti del villaggio si sono interposti e un palestinese si è sdraiato sotto il rimorchio per impedire il sequestro del mezzo, rischiando di essere investito. Gli ufficiali del Dco hanno quindi sganciato il rimorchio portando via solo il trattore.

Umm Al Kheer è un villaggio beduino nato nel 1948, situato nelle colline a sud di Hebron in area C, sotto controllo civile e militare israeliano. Trovandosi a pochi metri dall'insediamento israeliano di Karmel, sorto negli anni '80, il villaggio è soggetto a vessazioni ed a maltrattamenti da parte dei coloni dell'insediamento e dall'esercito israeliano.

La politica portata avanti da Israele in area C è quella di impedire lo sviluppo delle comunità palestinesi negando ogni permesso di costruzione e demolendo ogni struttura considerata “illegale”. Allo stesso tempo, gli insediamenti ed avamposti israeliani presenti nell'area, pur essendo illegali secondo il diritto internazionale, continuano ad espandersi senza sosta mentre i coloni continuano ad attaccare impunemente i palestinesi.

Questa politica di restrizioni, chiusura, demolizioni, evacuazioni e soprusi, unita alle continue violenze da parte dei coloni presenti nell'area, nega di fatto i diritti umani dei palestinesi, ostacolando la possibilità di vivere nei propri villaggi e coltivare le proprie terre impedendo lo sviluppo delle comunità locali.

Ciò nonostante, le comunità palestinesi delle colline a sud di Hebron sono fortemente impegnate nell'affermare i propri diritti ed a resistere in modo nonviolento all'occupazione israeliana.


Operazione Colomba mantiene una presenza costante nel villaggio di At-Tuwani e nell'area delle colline a sud di Hebron dal 2004.

mercoledì 25 gennaio 2012

Lettera al Manifesto a proposito dell'intervista a Gitai

“La meravigliosa arte della vita”


Vorrei brevemente commentare un'intervista ad Amos Gitai condotta da Cristina Piccino apparsa di recente sul Manifesto. Noto nell'articolo alcuni passaggi che risuonano a me, ebrea di una certa età che conosce la storia, fastidiosi e partigiani fino al filosionismo.

Abbiamo qui la storia di una giovane nata in Israele nel 1909. Poichè viene definita una “sabra” si capisce che la sua famiglia non appartiene alla comunità ebraica presente da sempre in Palestina, ma a quegli ebrei che hanno compiuto le prime alyhot, ben prima della guerra e della tragedia della Shoah. E' vero che dopo il 1903 vi fu un'ondata di pogrom che spinsero alcuni a trasferirsi in Palestina, è altrettanto vero che in quell'epoca chi vi si trasferiva erano soprattutto convinti sionisti e spesso selezionati dai dirigenti sionisti. Del resto lei stessa coltiva un sogno pionieristico che è un eufemismo per descrivere il primo tentativo di colonizzare la Palestina che potè pienamente realizzarsi solo grazie e dopo la tragedia della Shoah abilmente strumentalizzata politicamente dal sionismo. La “terra senza ombra e senza acqua” suppongo sia la Palestina che però all'occorrenza era anche la “terra del latte e del miele”. Spesso il sionismo di sinistra (non diverso negli intenti e obiettivi da quello di destra, la diversità era nel metodo ma non nel merito) ha gettato fumo negli occhi con la conduzione socialisteggiante dei kibbuz, che però sono sempre stati spazi esclusivamente ebraici e vietati rigorosamente ai palestinesi che furono da subito privati anche della possibilità di lavorare come di risiedere nei paraggi. L'intervista continua affermando che “il suo percorso si snoda dall'Europa alla terra promessa”. Promessa a chi? Ai colonizzatori sionisti? Apprendiamo che la giovane e suo marito lavorano insieme alla costruzione di una nuova realtà. Quale? Nel 37' non era ancora scoppiata la guerra, ma l'occupazione della Palestina, appoggiata dagli inglesi del mandato britannico aveva già fatto molta strada e solo nel 39 i sionisti ebbero i primi problemi con gli inglesi. A questo si dedica la nostra eroina, è una donna colta che scopre l'Europa ma non il Medio oriente dove vive. E' intrisa di romantico orientalismo (vedi Edward Said). Quale paese voleva costruire la madre di Gitai? Il paese esisteva già, si chiamava Palestina ed era il paese più colto e sviluppato del Medio Oriente (vedi Eli Aminov). “La Palestina è la salvezza, poi ci sarà Israele...” La salvezza non certo per i palestinesi che avrebbero, come già avevano fatto, accolto volentieri dei profughi in pericolo, ma non dei colonizzatori che li hanno trasformati in un popolo di profughi (6 milioni) che tra l'altro non sono mai potuti rientrare in patria neppure dopo la guerra, mentre come si sa Israele istituì immediatamente la legge del “diritto al ritorno” per gli ebrei di tutto il mondo. Ritorno in che senso? Si trattava di persone che non erano mai vissute prima in Palestina. Il “mondo diverso tutto da inventare” era l'occupazione di un territorio altrui che era ben altro che “una terra senza popolo”. Leggiamo oltre “Una storia viva, emozionante che riflette il nostro passato e ci permette di interrogare i conflitti del presente”. Una simile descrizione non solo non ci permette affatto di interrogare i conflitti del presente ma al contrario li falsa e li riduce alla visione sionista della storia. La madre di Gitai “racconta il progetto di Israele prima che questo esistesse” ma in questo progetto che parte avevano i palestinesi? Lo sappiamo bene: quello di togliersi dai piedi e andarsene in Giordania o altrove mentre i nostri eroici pionieri si appropriavano della loro terra e la trasformavano in un pezzo di Europa e/o di America nel cuore spezzato e ferito del Medio Oriente. Compare nel testo continuamente la relazione tra Israele e Europa nell'esperienza dei due coniugi, è evidente che la loro visione della storia è quella europea, sebbene la donna sia nata in Palestina in realtà non c'entra niente con la Palestina se non all'interno di quel famoso progetto coloniale secondo cui gli europei si sentivano in diritto di sottomettere le popolazioni non europee (orientali) perchè umanità inerte, e rubarne le risorse (ma per il loro bene poiché li civilizzavano) nel caso di Israele anche eliminando la popolazione autoctona (vedi Ilan Pappe “La pulizia etnica della Palestina”). Come sua madre anche Gitai si sente più europeo che mediorientale. Gli israeliani raccontano la storia guardando solo a se stessi, sono autoreferenziali e sebbene abbiano rubato tutto alla Palestina non si sentono palestinesi, ma europei, quindi di razza superiore alle prese con un'umanità inferiore che essi descrivono rozza e terrorista, sebbene i palestinesi siano gente colta e istruita e abbiano una lunga tradizione letteraria. Mai gli israeliani, compresi i romantici membri del kibbuz, si sono interessati alla cultura e letteratura palestinese e araba. Essi erano rivolti all'Europa, all'America, al mondo occidentale e “civilizzato”.

Tutto ciò non mi stupisce, quello che mi stupisce e mi indigna come lettrice di questo giornale è che simili concezioni siano fatte proprie da una vostra giornalista che mai, neppure una volta, ha fatto cenno in tutta l'intervista alle conseguenze che questo sogno romantico pionierista hanno avuto sulla popolazione palestinese.

Cordialmente

Miriam Marino



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lunedì 23 gennaio 2012

CON IL CUORE E CON LA MENTE

Pieno appoggio alla sollevazione del popolo siciliano!

Da alcuni giorni la Sicilia è in subbuglio, paralizzata da un movimento di protesta senza precedenti. Iniziato da alcune categorie di lavoratori autonomi (camionisti, agricoltori, pescatori, artigiani) esso ha poi coinvolto disoccupati, precari, studenti, casalinghe.
Contro questa protesta la stampa di regime ha scelto un omertoso silenzio, con lo scopo evidente di coprire la spalle al governo di centro-sinistra-destra presieduto da Monti. C’è chi ha fatto di peggio. C’è chi ha diffamato la rivolta come una “emanazione della criminalità organizzata e della borghesia mafiosa”. Ci riferiamo a certa sinistra con il cuore di pietra e la testa nel pallone, oramai sorda alle istanze della maggioranza dei cittadini, siciliani anzitutto, interessata soltanto a riacciuffare seggi e poltrone.

Il Movimento dei Forconi, così come qualsiasi altro soggetto di lotta si giudica dalle sue rivendicazioni, dalle persone che mobilita, dal rapporrto che instaura con le forze al potere, certo anche dai suoi esponenti. Non c’è dubbio che le rivendicazioni dei siciliani sono sacrosante. Il popolo lavoratore è alla fame e l’isola sta naufragando nel degrado e nella corruzione, anche a causa dei poteri politici siciliani e nazionali i quali, invece di ascoltare i cittadini, rispondono solo al comando del capitalismo predatorio globale. Il carattere di massa della protesta è indiscutibile, segno che malgrado i disagi provocati dalla rivolta i siciliani stanno dalla parte di chi sta lottando. La legittimità di un movimento popolare, per sua natura spontaneo, pluralista e non pilotato da questo o quel partito, non si può mettere in discussione a causa delle simpatie politiche, magari non condivisibili, di questo o quel dirigente. Chi compie questa operazione, ammesso che lo faccia in buona fede, fa il gioco di un governo che con le sue misure antipopolari getta tutto il paese nel baratro.

Sosteniamo la sollevazione popolare siciliana quindi, affinché pieghi l’avversario e raggiunga i suoi obbiettivi. La sosteniamo perché essa ci indica la strada da seguire, che solo con la lotta dura e di massa il popolo lavoratore può difendere i propri diritti ed evitare di precipitare nella miseria. Siamo quindi per la sua estensione al resto del paese, affinché tutti coloro la cui vita è lesa e distrutta dalla crisi e dalle misure adottate dal governo, escano dal torpore e alzino finalmente la testa.
Le classi dominanti hanno fallito. Il regime dei partiti ha fallito. L’Unione europea ha fallito.
Un futuro migliore è possibile solo imboccando un’altra strada, questa strada passa per la lotta sociale.

Solo con una rivoluzione democratica e popolare si potrà uscire dal marasma. Una rivoluzione che passo dopo passo saprà riconoscere chi sono i veri amici del popolo, coloro che hanno proposte alternative serie alla politica economica di chi fino ad ora ha guidato il paese distruggendolo.

Dalla Sicilia arriva un segnale di cambiamento, dobbiamo raccoglierlo, farlo crescere, farlo maturare.
La prossima settimana la rivolta si estenderà alla Sardegna con alla testa il Movimento dei Pastori.
Al popolo in rivolta non si devono mai voltare le spalle, tutte le energie si devono concentrare contro i vecchi rottami
della politica siciliana, sarda e italiana.

Movimento Popolare di Liberazione
sollevazione.blogspot.com
20 gennaio 2012

domenica 22 gennaio 2012

Appello palestinese per riaprire Shuhada Street

> A CALL TO ACTION!!!
>
> "Youth Against Settlements" (http://www.youthagainstsettlements.org/) vi invita a partecipare al 3• anno della Giornata di Azione Globale per la riapertura della Shuhada Street (la strada dell'Apartheid)!

Quest'anno gli attivisti palestinesi della città di Hebron stanno pianificando una settimana di attività per commemorarw il Massacro di Baruch Goldstein, e chiedere la reapertura della Shuhada Street. Le azioni pianificate ad Hebron sono le seguenti:

Lunedì 20/02/2012: esposizione di photo sul massacro della Moschea di Abramo e la resistenza non violenta palestinese

Martedì 21/02/2012: tour per deputati israeliani (se possibile)

Mercoledì 22/02/2012: proiezione di filamati sulla Shuhada Street

Giovedì 23/02/2012: presentazione del sistema di apartheid di Hebron

Venerdì 24/02/2012: manifestazione principale

Sabato 25/02/2012: visita alle famiglie delle vittime del massacro e le famiglie nella zona H2.

Come già fatto negli scorsi anni, chiediamo a chi si oppone all'apartheid israeliana di Hebron di organizzare azioni di solidarietà il 25 febbraio 2012. Di seguito una lista di azioni di solidarietà che speriamo vogliate intraprendere.

1.dimostrazioni, marce, veglie e flashmobs
2. Presentazioni sull'apartheid di Hebron
3. Esibizioni fotografiche sull'apartheid di Hebron
4. Twitter: usate questo hastag #OpenShuhadaSt per diffondere il messaggio e educare le masse sulla situazione ad Hebron, cosa particolarmente importante in questa settimana d'azione.
5. Messaggi video: create e inviate messaggi video a forum, media e social network che chiedano alla comunità internazionale di utilizzare tutta la pressione diplomatica per riaprire la Shuhada Street.
6. Scrivete lettere e petizioni all'Ambasciatore israeliano e le cariche elette del vostro paese chiedendo loro di intervenire.
7. Scrivete lettere alle famiglie palestinesi di Hebron per dimostrare solidarietà.
8. Chiudete strade per mostrarecal pubblico gli effetti delle chiusure della strada principale di Hebron.
9. Visitate la città di Hebron per ottenere una maggiore comprensione della situazione e della sofferenza quotidiana della gente che vi vive.
10. Ogni altra azione non violenta che vi sentite possa sostenere la causa, siate il più creativi possibile!! *

Fateci sapere se e come pensate di partecipare!

Grazie a tutti!

Open Shuhada Street Coalition * --

- Traduzione a cura di Elisa Reschini - Assopace- Palestina

venerdì 20 gennaio 2012

Israele minaccia una nuova guerra

Gideon Levy è un giornalista israeliano. Scrive per il quotidiano Ha’aretz.

15 gennaio 2012
10.12

La situazione è chiara. Khaled Meshal, il capo di Hamas, ha ordinato all’ala militare della sua organizzazione di sospendere gli attacchi terroristici contro Israele, dicendo che si limiterà alla protesta popolare.

Hamas si dichiara favorevole a uno stato palestinese nei confini del 1967, e l’Autorità Nazionale Palestinese si è detta disposta a rinunciare – in cambio di cento suoi prigionieri detenuti nelle carceri d’Israele – alla richiesta di congelare la costruzione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, avanzata finora come precondizione per la ripresa delle trattative di pace. Che altro vogliono gli israeliani?

Purtroppo la situazione è chiara anche sull’altro versante: Israele continua a ignorare i cambiamenti nelle posizioni dei palestinesi. Quasi tutti i mezzi d’informazione si dedicano sistematicamente a confondere le acque. Fonti degli apparati di sicurezza dicono che si tratta solo di mosse tattiche. Inoltre Israele respinge le condizioni assolutamente accettabili poste dall’Anp con la solita serie di ripetuti “no”.

Ma stavolta lo stato ebraico non si accontenta: all’improvviso, nel terzo anniversario dell’operazione Piombo fuso scatenata a Gaza, si leva dagli alti gradi militari un coro di minacce di un nuovo attacco contro la Striscia. Il capo di stato maggiore delle forze armate israeliane, insieme all’ex capo del comando meridionale e al comandante della brigata sud, sostengono all’unisono che non ci sono alternative a un Piombo fuso II. Il comandante della brigata ha addirittura promesso che la nuova edizione sarà “più dolorosa” e “più energica” della prima. Come dice, signor comandante? Più dolorosa della prima operazione Piombo fuso?

Lasciamo perdere il costante rifiuto israeliano del processo di pace. Perché si sa, noi israeliani prendiamo sul serio i palestinesi solo quando parlano di guerra e di terrorismo, mentre quando parlano di pace e di trattative li ignoriamo. Ma cos’è questa storia di un nuovo attacco a Gaza? Perché? Cos’è successo? Qualcuno è in grado di spiegare questo brutto e stonato rullo dei tamburi di guerra, a parte l’esigenza innata di Israele di minacciare continuamente?

Bisognerebbe ricordare al capo di stato maggiore dell’esercito che la prima operazione Piombo fuso ha inflitto a Israele danni enormi. Magari dalle basi militari non se ne saranno accorti, ma da allora l’opinione pubblica mondiale ha cambiato completamente atteggiamento verso Israele, isolandolo come mai era accaduto prima. Le immagini trasmesse da Gaza si sono impresse per sempre nella coscienza del mondo.

Ed ecco un altro promemoria per i comandanti militari: sotto i nostri occhi sta prendendo forma un Egitto nuovo, un paese che probabilmente non se ne starebbe a guardare nel caso di un nuovo brutale attacco a Gaza. Gli esponenti dei Fratelli musulmani che in questi mesi si stanno affermando sulla scena politica egiziana sono fratelli di Hamas, e sarebbe meglio non andare a stuzzicarli quando non occorre.

Nei primi giorni dell’anno i comandi militari israeliani hanno comunicato tutti fieri che nel corso del 2011 a Gaza le nostre truppe hanno ucciso cento palestinesi mentre di israeliani, grazie a Dio, ne è stato ucciso solo uno. Insomma, abbiamo fatto “un passo avanti” rispetto al raccapricciante conteggio delle vittime dell’operazione Piombo fuso: allora la proporzione è stata 1 a 100, ma nel secondo anno successivo è stata praticamente 0 a 100. Un affarone.

Le raffiche di razzi contro il sud di Israele, anche se intollerabili, sono state sparate quasi tutte per reazione alle operazioni omicide dell’esercito israeliano a Gaza. E allora perché abbiamo bisogno di un’altra guerra? Se Israele volesse davvero cercare la pace, si affretterebbe ad accogliere con favore i cambiamenti nelle posizioni dei palestinesi.

Se il governo fosse stato un po’ più ragionevole, almeno avrebbe lanciato una sfida: liberiamo cento prigionieri di Al Fatah e torniamo al tavolo delle trattative. Anziché incoraggiare la moderazione – autentica o tattica che sia – Israele si affretta a strozzarla nella culla. E allora perché Hamas dovrebbe diventare moderato, se la reazione israeliana è minacciare Gaza? E perché Abu Mazen dovrebbe dar prova di disponibilità se lo stato ebraico reagisce sempre con un rifiuto? Siamo forse troppo presi a contrastare l’estremismo degli ebrei ultraortodossi per poterci occupare degli altri nostri problemi, che sono più importanti?

Oggi Israele non ha assolutamente alcun motivo di scatenare un altro attacco a Gaza. Nulla danneggia di più lo stato ebraico della mancanza di una soluzione al conflitto con i palestinesi. E allora, forse, sembrerà noioso tornare a chiedere: se la risposta è no e ancora no, a cosa gli israeliani diranno di sì? Se dicono no all’Anp e no ad Hamas, no al presidente palestinese Mahmoud Abbas e no a Khaled Meshal, no all’Europa e no anche agli Stati Uniti, a chi mai diranno di sì? Ma soprattutto, dove sta andando il paese?

La situazione effettivamente è chiara. Ed è molto preoccupante.

Traduzione di Marina Astrologo.

Internazionale, numero 931, 13 gennaio 2012

martedì 17 gennaio 2012

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L’ALLUCINAZIONE ECONOMICA PALESTINESE

L’economia palestinese è tenuta in ostaggio. Ma negli ultimi anni, i media hanno presentato la Cisgiordania, dipendente dagli aiuti stranieri, come un economia robusta e in crescita. SAM BAHOUR, uomo d’affari palestinese e scrittore, destruttura questa illusione.

Ramallah (Cisgiordania), 17 gennaio 2012, Nena News – L’anno è finito ed è tempo di voltare pagina dopo un po’ di riflessione. Quale miglior modo di riflettere se non quello di paragonare immaginazione e realtà, soprattutto quando la questione è l’economia palestinese? Ai principianti chiedo: “Abbiamo un’economia, reale o immaginaria?”. Per lungo tempo, in molti hanno semplicemente nascosto la questione sotto il tappeto dell’occupazione militare israeliana, rispondendo di no. Come potremmo averla, se ogni aspetto delle nostre vite è gestito dal governo israeliano?

Ma una simile istintiva risposta non ha avuto più senso dopo gli accordi di Oslo e la creazione dell’Autorità Palestinese. Da quel momento in poi, la realtà economica sotto occupazione è stata condita con pesanti dosi di auto-immagini artificiali. L’idea di partenza, se la memoria non mi inganna, era: “Costruiremo una Singapore”. Possa Dio dare riposo all’anima di un tale sognatore. Spero che la vera Singapore non chieda mai ai palestinesi di risarcirla per il danno causato al suo buon nome.

Quei famigerati negoziatori palestinesi che firmarono l’accordo di Parigi nell’aprile 1994, il cosiddetto “Protocollo sulle Relazioni Economiche tra Israele e l’OLP” (meglio conosciuto come Protocollo di Parigi), erano concordi su quello che la nostra economia poteva e non poteva fare. Il Protocollo di Parigi fu, con pochissime modifiche, incorporato all’Accordo ad Interim – l’ugualmente famigerato Oslo 2, firmato nel settembre 1995.

Così con gli accordi di Oslo, calati su di noi come un paracadute, dall’alto, è emersa la spettacolare idea: l’Autorità Palestinese. L’AP non ha perso tempo nel produrre tutti i finimenti di un’economia reale. Prima qualcuno poteva dire: “L’AP è un’autorità orwelliana, dal doppio linguaggio”. Ministeri, leggi, politiche, regolamenti, e anche piani strategici che comparivano di qua e di là.

Fin dall’inizio, il potere che ha strizzato la parola “Nazionale” tra Autorità e Palestinese ha cercato di dare alla gente una pelle d’oca patriottica. Ma tutti quelli impegnati nel costruire una vera economia hanno avuto poco più di un’eruzione cutanea permanente.

Un decennio dopo, l’economia palestinese ci si è presentata davanti. L’immagine di un’economia aveva preso forma. I supereroi non erano i negoziatori che avevano firmato il Protocollo di Parigi, e neppure i felici ministri palestinesi, ma piuttosto i finanziatori e i loro agenti che hanno costruito un’industria degli aiuti utilizzando gli accordi, compreso Parigi, come base.

Quando la realtà ha iniziato ad affondare, dopo il collasso dei negoziati di Camp David II nel 2000, sempre più persone hanno cominciato a vedere quando la nostra economia fosse artificiale – una farsa. Siamo tornati a sentire: “Come possiamo avere un’economia se ogni aspetto della nostra vita è gestito dal governo israeliano?

Ma poi è arrivato l’attivista israeliano (e buon amico) Jeff Halper che ha compiuto questa analogia: anche una prigione ha una sua economia, sebbene il 95% della prigione sia occupato (non militarmente occupato, attenzione) da prigionieri. La guardia carceraria ha bisogno solo di una piccola percentuale di spazio per controllare tutte le porte, le entrate, le uscite e le finestre. Quello che viene scambiato in una prigione è quello che le guardie permettono che entri e venga contrabbandato: sigarette, droghe, libri, lavoretti, favori, e così via.

Questa “scomoda verità”, per usare le parole di Al Gore, che l’intero territorio occupato altro non è che una prigione dove i prigionieri sembrano avere il loro spazio, ma nessuna capacità di movimento e di accesso liberi, ha aperto gli occhi di molti. Quando poi si aggiunge il fatto che il 60% della Cisgiordania è stata classificata da Oslo come Area C – fuori dal controllo palestinese e quindi dal suo sviluppo economico – in molti hanno cominciato a vedere la prigione come un passo avanti rispetto alla realtà nota come economia palestinese.

Poi sono venute le lotte politiche interne dovute ai ritardi nelle elezioni. Un nuovo futuro conveniente era nato per riproporre i fallimenti economici del passato.

Per troppi anni, se si leggono i report, si ascoltano tutti i discorsi, si guardano i cartelloni pubblicitari, si analizzano le pubblicità sui giornali, si fa attenzione a tutti i prezzi offerti dal sistema bancario, non si crederebbe mai che un’economia reale qui non è mai esistita. E solo nel caso in cui si inizi ad avere la sensazione che questa sia un’economia artificiale, il sistema bancario salterebbe fuori dalla sua camicia di forza conservatrice e convincerebbe i clienti a contrarre debiti. Non un prestito, non due, ma il più possibile. Perché no? È successo così fin da quando i donatori si sono tranquillamente nascosti nei caveau delle banche, garantendo ogni mossa e facendo il tifo per il cambiamento strutturale che si stava realizzando con l’accettazione piena del governo palestinese.

Indebitamento! Il buon indebitamento del modello americano. Hai bisogno di un prestito per gli studi? Nessun problema. Hai bisogno di un prestito per l’automobile. Semplice. Ti vuoi sposare? Di quanto hai bisogno? Di una casa? Perché affittarne una quando puoi comprarla? Hai l’ultimo modello di iPhone? Non preoccuparti, firma qua e pagherai cinque shekel per i prossimi 200 anni. E se ogni casa ha bisogno di un computer, qual è la differenza tra cinque shekel e sette? E la lista potrebbe andare avanti.

Ok, sono stato un po’ troppo sarcastico, ma non così tanto. Lasciatemi condurre questa allucinazione verso la sua analisi.

Torniamo alla base. Cosa diavolo è in fondo un’economia? Bene, il dizionario dice che un’economia è “il sistema di produzione, distribuzione e consumo”. Ok, questo è un buon punto di partenza, ma riflette una condizione normale. La Palestina, la sua parte occupata, è lontana dall’essere normale. La fase del suo sviluppo non è solo produzione, distribuzione e consumo. Si dovrebbe realizzare la rimozione dello stivale dell’occupazione militare dal nostro collo, mentre allo stesso tempo si costruisce uno Stato che necessita di base economiche per sopravvivere. Sì, dobbiamo mangiare, dormire, vestirci nel frattempo, ma questo non è sicuramente abbastanza.

Quindi, cosa fa un’economia per servire al meglio le necessità di uno Stato sovrano? Qualche bar in più? Un supermarket più grande? Un fast food? Un altro hotel o una sala da bowling? Risposta sbagliata. Tutto ciò va bene, sono cose un po’ dandy da avere, ma non ci permettono di muoversi verso la libertà e l’indipendenza economiche.

Le risorse economiche di cui abbiamo bisogno sono note a tutti coloro che hanno bisogno di conoscerle, prima di tutti la comunità dei finanziatori. Le risorse economiche strategiche per la costruzione di uno Stato sono la terra, l’acqua, le strade, i confini, la rete elettrica, lo spazio aereo, il movimento, le libere relazioni di mercato, e soprattutto le risorse umane. Tutto ciò e anche di più sono al 100% controllate e gestite dall’occupazione militare israeliana.

Senza fare un passo indietro e prendere nota dell’integrazione sistematicamente pianificata (meglio nota come dipendenza forzata) dell’economia palestinese con Israele, continueremo a credere ad una realtà economica che è semplicemente un’economia nell’idea dell’occupante.

La chiamata alla sveglia è arrivata. Stato o non Stato, questa occupazione è illegale e deve finire ora. Nel mondo delle occupazioni militari gli Stati terzi, firmatari della IV Convenzione di Ginevra, portano il peso e la responsabilità di mantenere viva l’occupazione. Basta con questo vuoto e glorificato parlare delle istituzioni e con questi negoziati bilaterali. Le nostre risorse economiche vengono violentate mentre i cappuccini dei nostri donatori lasciano aperte le porte dei nostri bar.

Se i finanziatori non sono in grado di concretizzare i loro sforzi nei loro Paesi, allora gli si dovrebbe gentilmente chiedere, sia noi che la loro gente, di smettere di sprecare le tasse dei loro cittadini per mantenere qui l’illusione della costruzione di un’economia palestinese, fragile come un castello di carte. Se le nostre risorse idriche continuano ad essere deviate, se le nostre frequenze continuano ad essere commercialmente abusate da operatori di telecomunicazione israeliani senza licenza, se il nostro movimento è ancora ostaggio di una carta d’identità, una carta magnetica, un biglietto da visita, un permesso; se uno studente di Gaza non può studiare in un’università in Cisgiordania e se l’illegalmente annessa Gerusalemme rimarrà un tema troppo difficile da trattare per i finanziatori, allora perché stiamo sprecando il nostro tempo?

Sembra che la “leadership” palestinese abbia acquistato il suo primo specchio lo scorso settembre e abbia cominciato a vedere il riflesso di quello che ha creato e a compiere qualche aggiustamento. Vorrei sperare che il riflesso sia un onesto approccio di quello che abbiamo realizzato, su tutti i fronti. I tempi non richiedono interventi clamorosi o cambiamenti cosmetici di una realtà deformata.

L’allucinazione economica della Palestina ha il potere di mantenere un’immagine di una realtà che sta crescendo più del 9% l’anno. Ci volevano 20 minuti di viaggio per andare da Ramallah a Betlemme. Ora, siamo costretti a circumnavigare Gerusalemme, tra muri di cemento e checkpoint israeliani. Oggi ci vuole più di un’ora. Per la crescita del PIL, è una buona notizia. Durante questi 40 minuti in più bruciamo più benzina, abbiamo bisogno di illuminazione in strade più lunghe, mangiamo più panini sulla via, spendiamo più tempo per guidare, prendiamo più buche che richiedono maggiore lavoro per gli operai al mattino ecc. Tutte queste spese extra sono fondamentali alla crescita del PIL ma catastrofiche per la nostra vita e la creazione di uno Stato.

È tempo per un nuovo modello economico, costruito sulla giustizia economica, il welfare sociale, la solidarietà e la sostenibilità. Dovremmo avere un solo obiettivo in testa: abbassare il costo di vivere sotto occupazione così che più persone possano resistere a questi tempi problematici. Se non mi credete, nessun rancore: sentitevi liberi di trasferire i vostri salari in un’altra banca, stanno già dando via il miglior premio: un biglietto di sola andata per la vostra famiglia verso una qualsiasi destinazione, ma non la Palestina. Buon viaggio!

Sam Bahour è un palestinese americano di Al Bireh/Ramallah. È un consulente d’affari freelance e ha lavorato alla creazione della Compagnia di Telecomunicazione della Palestina e al PLAZA Shopping Center. Bahour scrive spesso in merito all’economia palestinese. È co-editore di “Homeland: Storie orali sulla Palestina e i palestinesi”. Può essere contattato a sbahour@palnet.com. Il suo blog: www.epalestine.com.

Questo articolo e’ stato tradotto e inizialmente pubblicato dall’Alternative Information Center

lunedì 16 gennaio 2012

TUNISIA: I GIOVANI ASPETTANO ANCORA

Vivono la frustrazione di non aver visto cambiata la loro vita dopo la fuga di Ben Ali. Il lavoro continua ad essere un miraggio e se si guardano alle spalle vedono il ritorno alla marginalità come un rischio sempre più reale.

MAURIZIO MUSOLINO

Roma, 16 gennaio 2012, Nena News – Ad un anno dall’inizio delle rivolte che hanno portato alla caduta di Ben Alì in Tunisia la partita è ancora tutta aperta. Trecentosessantacinque giorni possono essere lunghi, ma nello stesso tempo può essere un periodo brevissimo. Tremendamente lungo per chi un anno fa scendeva in piazza per chiedere riforme sociali e lavoro; per quelle donne e quegli uomini delle aree agricole e minerarie del centro del Paese che vedevano come un miraggio la fine del mese. Zone, queste, da sempre depredate e costrette a vivere in una arretratezza cronica a vantaggio delle città della costa ricche di investimenti e infrastrutture. Una “questione meridionale” in chiave tunisina.

Proprio da queste regioni un anno fa iniziava la rivolta: una scintilla imprevista ai più, che covava sotto la brace della povertà e delle umiliazioni. Le prime manifestazioni spontanee nascono per reclamare uno sviluppo diverso, i diritti, la possibilità di poter puntare su di una agricoltura moderna e competitiva, la necessità di avere finanziamenti e su tutto la volontà di creare occupazione. Il lavoro, quel maledetto pensiero che come un tarlo scava giorno dopo giorno nelle teste dei giovani che riempiono le vie dei grossi paesi dell’entroterra. Il lavoro terminato, il lavoro rubato, quello sparito e quello che non c’è mai stato.

In testa alle manifestazioni giovani disoccupati, spessissimo ragazzi con un titolo di studio anche elevato, molti dei quali ritornati dopo esperienze migratorie in Europa: dalla Francia, dall’ Italia, dalla Spagna… Vittime anche loro della crisi economica che noi stiamo imparando a conoscere in questi giorni. Quei giovani che passo dopo passo diventano protagonisti di una lotta che ad un certo punto non può più tornare indietro. Ce lo raccontano oggi ad un anno di distanza: “La paura di essere arrivati ad un punto di non ritorno, la necessità di andare avanti, di arrivare alla caduta del regime come unica soluzione per non finire schiacciati dallo stesso”. Conoscevano bene questi giovani di cosa era capace Ben Alì e la banda che gli stava intorno. E così la rivolta passa dalle campagne alle città della costa, attraverso le vie di quella migrazione silenziosa che da anni affollava le periferie urbane. I giovani delle campagne fuggono agli arresti e si nascondono nei luoghi oscuri di Tunisi, Sfax, Sousse, diventando in breve ambasciatori della rivolta e nello stesso tempo gli agitatori delle città. Un mix che ha reso particolare quello che è successo in Tunisia, con caratteristiche veramente nazionali.

Oggi questi giovani vivono la frustrazione di non aver visto cambiata la loro vita. Il lavoro continua ad essere un miraggio e se si guardano alle spalle vedono il ritorno alla marginalità come un rischio sempre più reale. Parlando con questi giovani – poco importa se militanti dei partiti della sinistra o di associazioni o ancora senza nessuna “casa” – il ritornello è pressoché unanime: “Noi siamo stati usati come carne da macello”, “Abbiamo dato alla rivoluzione martiri e feriti… per avere cosa?”, “La rivoluzione ce la stanno scippando ancora una volta quelli della costa…”. Per questi giovani la rivolta significava emancipazione sociale, una vera rivoluzione se vincente. Per questo 365 giorni di stallo risultano insopportabili. Un tempo lunghissimo.

Ma tante cose sono cambiate in quest’anno. Innanzitutto si è votato, nell’ottobre scorso. Per la prima volta dopo decenni ci sono state elezioni vere, forse anche libere. Tantissimi i partiti che si sono sfidati per la formazione di una assemblea costituente che avrà il compito di ridisegnare lo Stato tunisino. Forse troppi. Molte persone si sono trovate spaesate davanti alla scheda elettorale che in alcune circoscrizioni sembrava un vero e proprio lenzuolo. I continui rinvii inoltre avevano fatto affiorare prima rabbia, poi una certa disillusione, uno dei tanti motivi che aveva portato pochi tunisini a iscriversi nelle liste elettorali. Infine il miracolo, avvenuto nelle ultime 24 ore. Come una febbre contagiosa tutti si sono ritrovati davanti ai seggi con la voglia di partecipare, di votare. Code lunghissime e infiniti problemi. Alla fine un risultato che non sorprende, se non nella partecipazione: la vittoria schiacciante del partito islamico Ennahda. Una forza islamico-moderata, che ha origine dalla corrente della fratellanza musulmana e che oggi guarda con estremo interesse alla Turchia di Erdogan e al Qatar. Come amano spesso ripeterci “qualcosa di simile alla Democrazia Cristiana”.

A dir la verità a sorprendere è invece la disfatta delle forze moderate e di sinistra. Il Pdp, forza di centrosinistra che aveva l’ambizione di contendere la vittoria al partito islamico si ritrova con una manciata di voti e di seggi. La sinistra, più o meno radicale, divisa in mille rivoli, raccoglie consensi ben al di sotto delle aspettative. Tutti dopo il voto riconoscono che l’essersi fatti trascinare in una sorta di guerra santa fra laici e religiosi ha favorito proprio Ennahda, che comunque nonostante la schiacciante vittoria non ottiene un risultato che gli consente di controllare da sola l’assemblea e di governare provvisoriamente il Paese. Lo ammette anche il suo leader storico, sheik Rashid Ghannouchi: “Il popolo ci ha dato una grande forza, ma ha anche detto che non dobbiamo governare da soli”. Il governo provvisorio – che resterà in carica durante i lavori della costituente (che però non ha una data limite per i suoi lavori) – è infatti composto da tre partiti, e la stessa maggioranza ha eletto il capo dello Stato.

E’ bene sapere che in Tunisia il concetto di laicità viene tradotto e quindi inteso come rivendicazione di ateicità. Un rifiuto dell’Islam che è risultato incomprensibile agli abitanti di uno stato che per oltre il 94 per cento si definisce islamico-sunnita, anche perché per anni era stato uno dei punti di forza, spesso strumentale, dei governi prima sotto Bourghiba e poi sotto Ben Alì. Oggi proprio su questo la discussione all’interno dell’assemblea costituente è serrata. Il primo nodo da dirimere è infatti se la Tunisia è una “nazione islamica” o se è uno “Stato islamico”. Un apparente gioco di parole che nasconde il futuro del Paese. Nessuno mette in discussione la prima formulazione, la Tunisia è araba e islamica, mentre dietro la seconda si nascondono le nubi di un integralismo che potrebbe invadere e trasformare la piccola nazione nordafricana.

Ma attenzione, Ennahda si vuole proporre come partner accettabile e affidabile dell’Occidente, non vuole fare nessuna forzatura (almeno in questa fase) e si trova a dover combattere la concorrenza delle forze salafite, che tra l’altro auspicano un ritorno al califfato. Pertanto sono gli stessi esponenti di Ennahda – nello specifico gli esponenti che del dipartimento cultura del Partito – ad affermare che i salafiti sono oggi i loro peggior nemici, insieme alle forze che vorrebbero una laicità “in stile francese”, con le loro pratiche violente e settarie. In pratica Ennahda si propone come forza centrista, di equilibrio. Per fare questo da qualche settimana cavallo di battaglia del partito islamico è diventato “il riportare la Tunisia all’ordine”. Frase sibillina, che fa temere prossime misure repressive verso quanti continuano a manifestare in tutto il paese.

Dietro lo scontro fra Ennahda e le forze salafite si nasconde però un conflitto ben più ampio e importante, quello che vede contrapposti da una parte il Qatar e dall’altra l’Arabia Saudita. Oggi il Qatar cerca di accreditarsi come protettore di gran parte delle forze islamico “moderate” e attraverso queste cerca di strappare ai sauditi il primato di stato connettore fra islam e capitalismo statunitense. La risposta di Rihad è pertanto difensiva e si risolve in un appoggio a quelle forze musulmane estreme, come i salafiti (da sempre legati al wahabismo della corona saudita). Su tutto comunque parlano i fatti, a partire dalla presenza dell’emiro del Qatar alle celebrazioni a Tunisi per il 14 gennaio, anniversario della rivolta e della cacciata di Ben Alì, per finire alla composizione del governo che vede al ministero degli esteri un politico legatissimo agli interessi quatarini, lo ha anche rappresentato anni fa alle Nazioni Unite, o al Ministero dello sport un calciatore che ha giocato a lungo proprio in Qatar.

Infine la sinistra. Sicuramente il ruolo avuto nei giorni della rivolta, specie da parte del Pcot (il Partito comunista operaio tunisino, forza che trae origine dalla tradizione della sinistra non Pc tunisino) aveva lasciato sperare ad un riscontro elettorale di ben altre proporzioni. Invece per stessa ammissione del suo segretario generale, Hamma Hammami, “è stato deludente”. Evidentemente la nuova fase politica che caratterizza la Tunisia obbliga anche i partiti storici, perseguitati sotto Ben Alì, a ripensarsi e a fare i conti con la necessità di conquistare consenso. Altro aspetto è poi la disgregazione e come questa abbia pesato con un sistema elettorale che penalizzava le piccole formazioni. Il sistema elettorale, infatti, è fondato su di un proporzionale, ma con collegi relativamente piccoli. In questo modo anche se in assenza di un vero e proprio sbarramento, nella pratica si hanno delle soglie altissime da superare per conquistare un seggio alla costituente. Una soglia spesso fatale per le forze della sinistra. Il 37 per cento dei voti espressi è stato disperso per non aver concorso ad eleggere nessun seggio. A proposito di sistema elettorale, questo ha prodotto un vero e proprio paradosso: dele 49 donne elette nell’Assemblea costituente, ben 42 sono di Ennahda. Come è possibile? L’arcano è svelato facilmente: in Tunisia è d’obbligo l’alternanza uomo-donna nelle liste elettorali, ma i tanti collegi fanno sì che solo la forza maggiore elegge due seggi in un collegio e siccome la donna è collocata come seconda ecco la risposta.

Di tutto questo la sinistra sta discutendo ed è di particolare interesse il processo che vede il Pcot insieme al Movimento progresso e democrazia (Watad) fra i promotori di una ricomposizione della sinistra marxista e antimperialista. Un percorso certamente non facile, anche perché si scontra con le incomprensioni e i sospetti che una fetta di movimento – potenzialmente vicino e alleato di questa sinistra – continua ad avere nei confronti dei partiti e dei suoi leader. Hammami comunque non si sottrae alle critiche ma ricorda come “le elezioni siano state condizionate dai soldi arrivati dal Qatar e dalla Turchia, l’Islam ‘atlantico’ insomma, e di come la stampa non ha avuto un ruolo neutro e libero”. Sempre per Hammami non bisogna scordarsi poi il ruolo strumentale della religione durante la campagna elettorale: “Nelle moschee la parola d’ordine era ‘votare Ennahda’”. Una cosa risulta chiarissima al variegato mondo della sinistra: gli Usa puntano per il futuro su di una classe dirigente islamista cosiddetta liberale, e Ennahda ha oggi una posizione liberista più spinta dello stesso Ben Alì.

C’è poi El Ettajdid, partito oggi di sinistra moderata anche se storicamente erede del Pc tunisino. El Ettajdid si propone di ricostruire intorno a se uno schieramento riformista capace di candidarsi come alternativa all’attuale maggioranza. Anche in questo caso i principali ostacoli sono dovuti alla frammentazione e alla diffidenza diffusa all’interno del movimento protagonista della rivolta. Non si perdona ad El Ettajdid l’ambiguità tenuta negli ultimi anni del regime di Ben Alì. Vera ambiguità o più semplicemente realismo e voglia di sfruttare gli spazi, seppur minimi, che si stavano aprendo? Questa è la domanda che molti si pongono. E’ comunque innegabile il buon lavoro che in questo anno El Ettajdid ha portato avanti specie nei centri urbani della costa e fra gli emigrati. Un impegno che ha ricevuto un riconoscimento apprezzabile, anche se del tutto insufficiente a divenire reale perno del sistema politico progressista. L’obiettivo è comunque la costruzione insieme al Pdp e al Fpt di un polo laico e democratico in grado di attrarre il voto di quella fetta di Tunisia che considera questi valori un fattore irrinunciabile. Un polo che al momento esclude volutamente la sinistra estrema, che al contrario ha più volte lanciato messaggi di dialogo ai vicini “fratelli-coltelli” del progressismo tunisino.

Tutti a sinistra – in forme esplicite e meno – non nascondono comunque di puntare su una “seconda fase della rivoluzione”. E pensando al futuro una segnalazione merita il lavoro del movimento Desturna, un’organizzazione giovane costruita su base innovativa che oggi si propone di essere “strumento programmatico di unità”. Una forza di sinistra che non vuole però essere partito. Da Desturna è arrivata nelle scorse settimane la proposta più interessante di ipotesi costituzionale, sicuramente la più completa, e non è casuale che proprio Ennahda abbia chiesto a questa associazione un incontro per discutere le proposte messe in campo.

Ma parlare dell’evoluzione della sinistra senza capire cosa succede dentro il sindacato unico tunisino è impossibile. Molti dei processi che investono le forze politiche di cui abbiamo sopra parlato si intrecciano con quanto accade all’interno del Ugtt. Il sindacato tunisino è stato l’elemento di svolta delle proteste dell’anno passato. La sua discesa in campo è coincisa infatti con gli ultimi giorni e poi con il crollo del regime. Una scelta non scontata, visto che i suoi dirigenti nazionali erano emanazione del regime di Ben Alì. La sua autorità e il suo prestigio quindi sono stati conquistati nelle piazze ed è stato da subito un elemento fuori discussione.

L’Ugtt è appena uscito da un congresso difficile, il primo veramente libero, che ha registrato una affermazione della componente di sinistra, che avrà una parte importante a definire il futuro del Paese. Il risultato non era scontato, Ennahda ha provato in tutti i modi a condizionare la dirigenza, ma alla fine l’elezione dei nuovi leader ha segnato una vittoria del fronte della sinistra.

Chiari e scuri dunque, che lasciano aperte tante porte. Nena News

domenica 15 gennaio 2012

A CHE PUNTO È LA NOTTE?

NEL POST PRECEDENTE HO PUBBLICATO LA LOCANDINA PER L'INCONTRO CHE AVREI DOVUTO AVERE DOMANI MATTINA CON I DETENUTI DI REGINA COELI, PER LEGGERE INSIEME IL MIO LIBRO DI RACCONTI "GABBIE". ERA UN INCONTRO A CUI TENEVO MOLTISSIMO E CHE ERA PREPARATO DA MESI, PER ME ANCHE UN'ESPERIENZA NUOVA E RITENGO ASSAI IMPORTANTE. STAMATTINA PERÒ È ARRIVATO IL COMUNICATO DEI SERVIZI SEGRETI CHE VIETAVA IL MIO INGRESSO IN CARCERE, I MOTIVI SONO MOLTO SUCCINTI "POSITIVO AI SERVIZI SEGRETI". POSITIVO? FORSE HO UNA TERRIBILE MALATTIA INCURABILE E CONTAGIOSA A CUI LE ANALISI HANNO DATO ESITO POSITIVO? EVIDENTEMENTE SI, LA MALATTIA È LA PESSIMA ABITUDINE A PENSARE CON LA PROPRIA TESTA E A SOSTENERE CHE TUTTI DOVREBBERO FARLO. lA MALATTIA È CRITICARE LO STATUS QUO, QUI E ALTROVE CON BUONE RAGIONI, LA MALATTIA È ESSERE AMANTE DELLA VERITÀ E DI LOTTARE CONTRO L'INFORMAZIONE FALSA E DI PARTE, DI ESSERE DALLA PARTE DI CHI SOFFRE E NON HA POTERE. È UNA MALATTIA DI LUNGA DATA ED EFFETTIVAMENTE INCURABILE E POTENZIALMENTE CONTAGIOSA.
PER QUANTO RIGUARDA I DETENUTI, NON SOLO ESSI SONO IN UNO STATO DI SOFFERENZA INUMANA, CON CARCERI SOVRAFFOLLATI, DOVE NON HANNO NEPPURE LA POSSIBILITÀ DI STARE IN PIEDI E SPESSO DEVONO ESSERE COSTRETTI A PASSARE LA VITA SDRAIATI IN BRANDA, CON SERVIZI INESISTENTI E FATISCENTI E SAPPIAMO BENE CHE LA GRAN PARTE DELLA POPOLAZIONE CARCERARIA È COMPOSTA PIÙ DA VITTIME CHE DA COLPEVOLI: POVERI CHE HANNO RUBATO UNA SCIOCCHEZZA, IMMIGRATI SORPRESI SENZA CARTE IN REGOLA, RAGAZZI CHE VENGONO DA SITUAZIONI CHE A DEFINIRLE DISAGIATE SI FA UN EUFEMISMO. I VERI COLPEVOLI NON VANNO IN GALERA. MA OLTRE A VIVERE IN QUESTE CONDIZIONI ESSI NON POSSONO VIAGGIARE NEPPURE CON LA MENTE SE I CONTENUTI DEL VIAGGIO NON SONO PRIMA CONTROLLATI E AMMESSI DAI CARCERIERI.

L'Associazione "A Roma, Insieme"

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"LEGGERE E CONVERSARE IN CARCERE"

Regina Coeli 2011 – 2012

16 gennaio 2012 alle ore 9.30

MIRYAM MARINO

Presenterà il suo libro

GABBIE

Miryam Marino scrittrice, artista e attivista per i diritti umani, è impegnata in tre associazioni: “Ebrei contro l’occupazione”, “Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese” e “Stelle cadenti – Artisti per la Pace”. Ha pubblicato libri di narrativa, poesia e saggistica, tra cui: “Non sparare sul pianista” 1978 romanzo politico sul movimento del ’77, il piccolo saggio: “ Il misticismo nell’arte contemporanea” 1987, le raccolte di poesie sulle donne della Bibbia Madri di Israele e Ruth (1999), Ingiustizia infinita (2003), racconti sul conflitto israelo-palestinese e Handala (2008) raccolta di articoli e relazioni pubbliche degli ultimi anni. Per Città del Sole Edizioni ha già pubblicato nel 2009 la raccolta di racconti Gabbie. Collabora con le riviste d’arte e letteratura e ha partecipato ad alcune mostre di arte contemporanea in Ungheria e in Italia.

La lettura è un momento di riflessione, di evasione dalla realtà, di conoscenza degli altri, di ciò che ci circonda e di conseguenza di noi stessi.
La conversazione è un modo ameno per uscire dal proprio io e confondersi con l'altro, con gli altri, uscire dal luogo dove questa avviene e lasciare respirare la mente.

Molti hanno difficoltà per diversi motivi ad accostarsi ad un libro, ma la maggior parte
di noi sono desiderosi di parlare ed ascoltare.
E' per tutto questo che desideriamo offrire a Voi che non possedete nulla altro che il Vostro spirito per vivere la libertà, una introduzione alla lettura di libri presentati dagli stessi autori ed un ciclo di conversazioni con personaggi capaci di attirare l'attenzione, stuzzicare la fantasia, indurre alla riflessione, provocare la gioia di una risata tutti insieme. Questo ciclo di incontri settimanali inizia a dicembre 2011 per terminare il novembre 2012

la Presidente Gioia Cesarini Passarelli la coordinatrice Misa Chiavari

sabato 14 gennaio 2012

Campo di Aida

L'inferno ddi permessi

La Palestina e i centouno permessi israeliani
Friday, 13 January 2012 08:55 Emma Mancini (Alternative Information Center)
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Centouno differenti permessi per regolare, gestire e ostacolare la libertà di movimento dei palestinesi residenti in Cisgiordania. Ad emetterli è l’Amministrazione Civile israeliana, autorità responsabile di rilasciare il via libera al movimento all’interno dei Territori e verso Israele.



Un potere unilaterale che permette a Tel Aviv di regolare la vita quotidiana di oltre due milioni di palestinesi. Permessi di lavoro, permessi medici, permessi religiosi, permessi per lavorare la propria terra. Permessi per partecipare ad un matrimonio, permessi per andare ad un funerale e permessi per prendere parte ad un processo. Permessi per entrare con l’ambulanza nella “seam zone” (zona cuscinetto tra il confine ufficiale della Linea Verde e il percorso del Muro di Separazione), permessi per costruire una casa nella propria terra.



Centouno diversi documenti, triplicati negli ultimi anni tanto da creare un sistema burocratico inestricabile, volutamente lento e inefficiente. Dietro, a regolare il tutto, c’è l’Amministrazione Civile, il braccio di Tel Aviv in Cisgiordania. Autorità creata nel 1981 per gestire ed amministrare la vita civile nei Territori occupati militarmente dallo Stato di Israele, opera attualmente sotto l’ombrello del Ministero della Difesa israeliano.



Un sistema, quello dei permessi, che Israele giustifica da decenni come necessario a garantire la sicurezza dei propri cittadini, ma che ha portato molti osservatori e organizzazioni internazionali a parlare apertamente di regime di apartheid nei confronti della popolazione palestinese. Il report dell’agenzia delle Nazioni Unite OCHA ha stimato che il 20% dei giorni lavorativi dei dipendenti di Ong o associazioni umanitarie viene sprecato dietro le pratiche e le attese per ottenere un permesso.



Ecco i tipi di permessi più comuni e le storie di palestinesi costretti a convivere con un sistema burocratico messo in piedi nell’intento di rendere la vita della popolazione impossibile.





PERMESSI DI LAVORO:



11 maggio 2011: 2410 persone sono passate stamattina al checkpoint di Betlemme in due ore e tre quarti, dalle 3.55 alle 6.40. “Una buona media rispetto al solito”, racconta all’AIC un volontario dell’associazione Ecumenical Accompaniment Programme in Palestine and Israel (EAPPI), che monitora il checkpoint due volte a settimana. “A volte restiamo qui fino alle 8 per lo stesso numero di lavoratori”.
Ogni giorno circa 2500 persone si recano in Israele a lavorare, ogni giorno impiegano almeno due ore per attraversare il Muro dell’apartheid che separa Betlemme da Gerusalemme.


Il checkpoint apre alle 4 ma già dalle 2 di notte ci sono centinaia di persone in attesa, soprattutto coloro che lavorano in luoghi lontani come Tel Aviv ed Haifa. Arriviamo al checkpoint alle 4.45, quando è ancora buio, quando Betlemme e Beit Sahour sembrano dormire tranquille. Già da lontano sentiamo le urla degli uomini, urla di un’umanità sfinita, che provengono dalla gabbia in cui vengono quotidianamente chiusi i palestinesi. Sono principalmente persone che lavoravano in Israele già prima della costruzione del Muro di Separazione e che hanno mantenuto il loro permesso di lavoro. Si tratta di permessi della durata di pochi mesi e validi dalle 5 alle 19; ogni ingresso o uscita dopo questi orari è vietato, pena il ritiro permanente del permesso (da “Alba al checkpoint di Betlemme insieme ai lavoratori” – Alternative Information Center).



Sono oltre 70mila i palestinesi che ogni giorno attraversano il Muro di Separazione per recarsi al lavoro in Israele, la metà di coloro che possedevano un permesso di lavoro prima della Prima Intifada. “Prima della Seconda Intifada – spiega Amira Mustafa dell’associazione DWRC – la forza lavoro palestinese era per lo più impiegata in Israele nel settore delle costruzioni o in Cisgiordania in agricoltura. La terra ha da sempre rappresentato la nostra maggiore ricchezza. Con lo scoppio della Seconda Intifada nel 2000 e la reazione violenta israeliana, tutto è cambiato in peggio. Le autorità israeliane hanno chiuso la Cisgiordania, hanno costruito il Muro di Separazione e hanno compiuto arresti indiscriminati” (da “Crisi in Cisgiordania tra lavoro nero e disoccupazione” – Alternative Information Center).



lavoratori

Lavoratori palestinesi al checkpoint 300 di Betlemme, all'alba, in attesa di raggiungere il posto di lavoro in Israele (Foto: Emma Mancini, AIC)





PERMESSI DI PREGHIERA:



5 agosto 2011: Primo venerdì di Ramadan. Al tragitto solito del checkpoint che divide Betlemme da Gerusalemme, alle grate di ferro e alle lamiere, sono state aggiunte delle nuove barriere: due fila di mura in cemento separano gli uomini dalle donne. All’ingresso un cartello ricorda che, su ordine delle autorità israeliane, possono recarsi a pregare nella Moschea di Al-Aqsa (il terzo luogo sacro dell’Islam) solo gli uomini sopra i 50 anni, le donne sopra i 45 e chi ha ottenuto un permesso d’ingresso permanente in Israele.



A vigilare ci sono i poliziotti palestinesi, donne e uomini in divisa, che in una scioccante e preoccupante atmosfera di normalizzazione del conflitto comunicano serenamente con gli omologhi israeliani dall’altra parte. Durante il Ramadan saranno le forze di polizia dell’Autorità Palestinese a fare da cani da guardia, a controllare quei documenti che di solito sono controllati da giovani soldati israeliani, a decidere chi può passare e chi no, in un’atmosfera surreale che sa di complice accettazione.



Al di là del checkpoint ad attendere i fedeli musulmani ci sono i soldati di Tel Aviv con metal detector portatili. Molti quelli che tentano di passare comunque, consapevoli che senza permesso Gerusalemme resterà un miraggio, e allora restano là in piedi, di fronte ad checkpoint invalicabile. Un uomo sulla quarantina scoppia in lacrime in faccia ai poliziotti palestinesi, “Voglio solo pregare ad Al-Aqsa, voglio solo poter pregare liberamente” (da “Venerdì di Ramadan: al checkpoint 300 è la polizia palestinese a fare il cane da guardia” – Alternative Information Center ).





PERMESSI PER LAVORARE LA TERRA:



Dopo la costruzione del Muro di Separazione, moltissime terre agricole di proprietà palestinese sono rimaste “intrappolate” al di là della barriera di cemento e filo spinato. In alcuni casi, le autorità israeliane hanno proceduto alla confisca diretta delle terre ormai irraggiungibili per i legittimi proprietari. In altri casi, permette l’accesso ai contadini palestinesi dietro ottenimento di un permesso.



Permesso che garantisce al contadino palestinese proprietario di un appezzamento di terra tra il Muro e la Linea Verde di lavorare la sua terra, tramite l’attraversamento ogni giorno di checkpoint controllati dall’esercito israeliano. In alcuni casi, come nel villaggio di Falamya nel distretto di Qalqiylia, il gate agricolo resta aperto al transito dei contadini dalle 5 del mattino alle 5 del pomeriggio. In altri casi, come nel vicino gate di Jeius, l’apertura è molto limitata: dalle 5.30 alle 6.30, dalle 12 alle 13 e dalle 15 alle 16. Si entra e si esce solo in questi lassi di tempo.



A rilasciare i permessi di lavoro agricolo è l’Amministrazione Civile. Si tratta di permessi temporanei, della durata variabile: a volte di 3 mesi, a volte di sei, altre di un anno. Per ottenere l’agognato permesso, il proprietario palestinese della terra “intrappolata” deve presentare all’Amministrazione Civile la carta d’identità, il documento che attesta la proprietà della terra e un certificato del tribunale che dimostra che la terra in questione si trova al di là del Muro di Separazione.



Dopo il decimo anno di età, ogni uomo e ogni donna palestinese deve richiedere tale permesso. Per coloro che hanno trascorso del tempo in una prigione israeliana o sono stati arrestati dalle forze di occupazione, la loro probabilità di ottenere questi permessi sono sostanzialmente inesistenti.


Secondo i gruppi per i diritti umani, circa 700 minori palestinesi vengono arrestati e portati davanti ai tribunali israeliani ogni anno. Ciò significa che la prossima generazione avrà ancora più difficoltà nel lavorare le terre dall’altra parte del Muro di Separazione. Come le autorità israeliane hanno dimostrato più e più volte, ogni scusa è buona per confiscare le terre solo apparentemente abbandonate (da “La lotta dei contadini di Qalqilya, al di là del Muro di Separazione” – Alternative Information Center).





PERMESSI DI COSTRUZIONE:



16 novembre 2011: Trenta mezzi blindati e più di cento soldati si sono presentati ieri mattina nell’area di Ein al-Duyuk al-Taht, vicino alla città vecchia di Gerico e, dopo aver dichiarato l’area zona militare chiusa, hanno dato il via alle demolizioni. Con il pretesto che le costruzioni edilizie mettevano in pericolo l’adiacente sito archeologico.



Un portavoce dell’autorità israeliana ha dichiarato che le quattro strutture “erano state costruite senza permesso su terra statale destinata all’agricoltura”. Permessi di costruzione che sono praticamente impossibili da ottenere, soprattutto nei territori dell’Area C, il 61% della Cisgiordania.
La struttura responsabile del rilascio dei permessi è l’Amministrazione Civile Israeliana. Secondo i dati della stessa autorità israeliana, dal 2001 al 2007 il tasso di approvazione delle richieste di costruzioni presentate dai palestinesi è stato del 5,5%, mentre il tasso di rifiuto è stato del 94,5% (da “Jericho: demolite 4 case palestinesi” – Alternative Information Center).





PERMESSI MEDICI:



I principali servizi medici specialistici sono concentrati a Gerusalemme Est, tuttavia sono inaccessibili per la maggior parte della popolazione palestinese. Le restrizioni di accesso alla città santa sono iniziate ben prima la costruzione del Muro di Separazione. Già a partire dal 1993 tutti i palestinesi che non avevano la cittadinanza israeliana o la residenza a Gerusalemme Est erano obbligati a chiedere un permesso speciale per accedere alla città. E la stessa cosa valeva per i permessi sanitari. Un sistema lungo e complesso per vedere il proprio diritto alla salute riconosciuto. Spesso i permessi non venivano concessi agli uomini di età compresa tra i 15 e i 30 anni, “per motivi di sicurezza”. E anche chi riusciva ad ottenerlo poteva stare a Gerusalemme per un periodo molto limitato di tempo, e spesso i familiari non avevano il permesso di accompagnarlo.

La situazione è precipitata a partire dal 2007, dopo la costruzione del Muro intorno a Gerusalemme: ora l’accesso alla città santa, e quindi alle cure mediche, è molto più limitato e anche per i pochi fortunati che lo ottengono, le file ai checkpoint sono interminabili, specialmente di mattina. Secondo i dati della Società della Mezzaluna Rossa Palestinese (PRCS), nel 2009 sono stati registrati 440 casi di ritardo o di blocco delle ambulanze presso i checkpoint dei Territori Palestinesi Occupati - e due terzi sono avvenuti presso i posti di blocco che conducevano a Gerusalemme (da “Nati e morti ai check-point militari israeliani” – Alternative Information Center).



L’Amministrazione Civile israeliana ha l’autorità di rilasciare i permessi per motivi di salute e anche in questo caso sa bene come rendere difficile la vita dei palestinesi dei Territori. E in alcuni casi con questa vita, ci gioca. Come successo alla nonna di Bilal, giovane palestinese del campo profughi di Aida a Betlemme, la cui casa è rimasta intrappolata nella cosidetta “seam zone”, tra il Muro e la Linea Verde. Né in Cisgiordania né in Israele.



Una zona grigia che ha assunto una tinta tragica quando due anni fa la nonna di Bilal è stata colpita da un attacco di cuore. Era la proprietaria della casa di famiglia, finita sette anni fa oltre il Muro, e ha sempre rifiutato di lasciarla. Quando ha detto di sentirsi male, la famiglia Jadou ha chiamato un’ambulanza israeliana. Gli israeliani hanno risposto che non erano autorizzati ad entrare in quell’area e hanno suggerito di contattare i servizi di emergenza palestinesi, al di là del Muro di Separazione.



“L’ambulanza palestinese ha dovuto attendere al checkpoint mentre noi provavamo ad ottenere un permesso per farla passare dall’esercito israeliano. Durante quella lunga attesa, circa tre o quattro ore, le condizioni di mia nonna peggioravano”, ricorda Bilal.



Nel disperato tentativo di ottenere assistenza medica per sua nonna, Bilal e la sua famiglia l’hanno legata alla schiena di un asino e hanno attraversato così il checkpoint. “È morta in ambulanza, mentre andavamo in ospedale” (da “Vita e morte nella seam zone” – Alternative Information Center).

giovedì 12 gennaio 2012

Come aiutare realmente la pace in Palestina.

Come aiutare realmente la pace in Palestina.
Lettera aperta alla Chiesa Evangelica Valdese.

Angelo Stefanini1



11 Gennaio 2012



La Chiesa Evangelica Valdese ha deciso di donare una consistente somma all’israeliano Centro Peres per la Pace, nello specifico al progetto denominato ‘Saving Children, Medicine for Peace’. Poiché ho grande stima del ruolo svolto dalla comunità valdese nella società, con scelte spesso coraggiose e controcorrente, mi rammarico di questa decisione: la ritengo, infatti, illusoria, illogica e inefficace per lo sviluppo della pace tra Israele e Palestina. Vorrei quindi condividere con la Chiesa Valdese, e con tutti coloro che appoggiano tale scelta, le ragioni di questa mia convinzione.

La Chiesa Valdese, per bocca del Pastore Ricca, giustifica questa scelta con la convinzione che il progetto ‘Saving Children’ sia rivolto a salvare bambini palestinesi che altrimenti non potrebbero essere curati perché “gli ospedali palestinesi non hanno le attrezzature necessarie”. In secondo luogo esso, afferma il Pastore, “costituisce un ponte di solidarietà tra israeliani e palestinesi” e quindi facilita la pace.i


Importanza del contesto geo-politico

Chi scrive conosce abbastanza bene la realtà israelo-palestinese. Da pochi mesi sono ritornato da Gerusalemme, dove ho trascorso più di quattro anni, in periodi separati; prima, nel 2002, come rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il territorio palestinese occupato (TPO, è il termine ufficiale delle Nazioni Unite), ossia Gaza e Cisgiordania compresa Gerusalemme Est; in seguito come responsabile del programma sanitario della Cooperazione Italiana nel TPO (2008-2011).

Un importante aspetto del mio lavoro era il coordinamento della comunità dei donatori internazionali nel settore sanitario, funzione tradizionalmente assegnata all’Italia per la sua storia di leader nella regione in quel settore. Come succede altrove, anche nel TPO, l’arena sanitaria, composta di una grande varietà di attori, rappresenta un caso estremo di complessa interazione sia all’interno della comunità internazionale dei donatori, sia tra questi ultimi, le organizzazioni non governative locali e la stessa Autorità Nazionale Palestinese.

In una situazione, come quello del TPO, in cui è necessario tenere conto non soltanto della fattibilità e della “evidence-base” dei progetti di assistenza, ma anche della loro legalità nei confronti della legislazione internazionale e del loro possibile impatto sul conflitto, anche gli interventi tecnici meglio intenzionati vengono inevitabilmente a fare parte di quel contesto. Nel mio ruolo di coordinatore sanitario italiano ho potuto conoscere i rappresentanti del Centro Peres, e seguire direttamente la fase del progetto ‘Saving Children’ corrispondente al mio periodo a Gerusalemme. Ciò che descriverò quindi è tratto dalla mia esperienza personale, da quanto riferito da persone informate dei fatti o da documentazione ufficiale, pertanto di dominio pubblico, cui ho avuto accesso.


Ragioni per diffidare

Il mio scetticismo sull’efficacia e la ragionevolezza del progetto 'Saving Children' si fonda sia su alcuni aspetti 'tecnici' del progetto stesso (che, come cercherò di spiegare, inevitabilmente trasbordano nel politico), sia sulla filosofia da cui muove il Centro Peres. Inoltre non potrò esimermi dal fare mie alcune perplessità, avanzate da più parti, sul ruolo svolto dal Centro Peres e sul reale spirito di pace che anima il Presidente Peres, suo fondatore e ispiratore.

Ragioni tecniche

Le obiezioni tecniche riguardano, come rilevato in dettaglio dal dossier (marzo 2005) del Coordinamento Toscano di Solidarietà con la Palestinaii:
Il mancato coinvolgimento di qualsiasi attore istituzionale palestinese, sia in fase negoziale sia di realizzazione del progetto, mancanza soltanto in seguito “riparata” con l’inserimento di una fantomatica ONG, Panorama, tanto sconosciuta ai palestinesi quanto amata dal Peres Centre cui è storicamente legata.iii Quando poi, con l’entrata della Cooperazione Italiana nel progetto, si è tentato, malvolentieri, di coinvolgere il ministero della sanità palestinese, l’esito è stato disastroso.
La totale assenza, almeno nella prima parte del progetto (2004-2008), del consolato italiano a Gerusalemme sia in termini di conoscenza del progetto sia di collegamenti tecnici attraverso la locale unità tecnica locale della Cooperazione Italiana.
La mancata considerazione dell’assoluta oggettiva difficoltà, se non a volte impossibilità, per i piccoli pazienti e le loro famiglie residenti nel TPO ad accedere alle strutture mediche israeliane a causa dell’impenetrabile struttura di controllo dell’occupazione israeliana composta di numerosi posti di blocco, esigenza di permessi speciali, improvvise chiusure ai movimenti, totale imprevedibilità delle condizioni logistiche e dei trasporti nel TPO.
La logica tortuosa e sospetta che sottende il meccanismo di finanziamento del progetto, in cui, allo scopo di curare bambini palestinesi, i fondi sono versati a una struttura israeliana (il Peres Centre) che ovviamente incassa una consistente percentuale (almeno il 14%iv) quale parcella per individuare l’ospedale idoneo in Israele, il quale ovviamente trattiene la sua parte. E’ evidente l’incongruità’ di un congegno in cui i fondi pubblici istituzionali destinati alla ‘cooperazione con paesi in via di sviluppo’ finiscono a finanziare strutture private di un paese ricco e tra i primi al mondo per sviluppo tecnologico.

E’ anche immediatamente intuibile come viene a essere elusa la priorità, fondamentale in qualsiasi progetto di sviluppo, di contribuire al rafforzamento delle istituzioni destinatarie locali, ossia quelle palestinesi. Al contrario, in questo modo gli ospedali israeliani possono usufruire di prezioso ‘materiale umano’ senza il quale i supertecnologici reparti, soprattutto chirurgici, non potrebbero avere a disposizione la massa critica di pazienti necessaria a garantire un minimo livello di qualità delle prestazioni. Questo fatto viene inoltre a penalizzare i nascenti centri specialistici palestinesi in cui operano gratuitamente con regolare frequenza anche valenti professionisti italiani. Considerazioni di mera convenienza economica, inoltre, suggerirebbero l’opportunità di utilizzare strutture sanitarie non soltanto israeliane ma anche di altri Paesi limitrofi, come Giordania ed Egitto, per i diversi interventi terapeutici sui piccoli pazienti palestinesi.

Ragioni di principio: Il Centro Peres per la Pace

Nonostante gli ovvi risvolti politici dei punti sopra citati, vorrei anche brevemente analizzare i rischi e le contraddizioni evidenziabili, a mio avviso, nella filosofia che ispira il Centro Peres per la Pacev e altre iniziative che si propongono di favorire la pace tra Israele e Palestina attraverso collaborazioni di vario tipo.

Nei suoi aspetti generali, il Centro Peres per la Pace fa parte di quel genere di iniziative che, promuovendo la collaborazione culturale, sportiva o scientifica e il dialogo interpersonale tra le parti in conflitto, affermano di facilitare la pace e la riconciliazione. Ciò che purtroppo manca nel processo di dialogo che in questo modo viene promosso è la disamina e l’analisi del contesto, ossia delle questioni scottanti che stanno al centro del conflitto stesso. Questa ‘dimenticanza’ è molto comune anche nella stampa e nei media in genere. Si comprende quindi perché la maggioranza dell’opinione pubblica e dei governi sia in preda ad una sorta di amnesia storica che ha rimosso il fatto che fino a 64 anni fa esisteva una regione chiamata Palestina abitata da un suo popolo, dal 1922 al 1948 amministrato dalla Gran Bretagna per conto della Lega delle Nazioni, nel 1967 occupato e in seguito sistematicamente espropriato, represso e colonizzato da quello che oggi si chiama Israele. Questo parziale oscuramento mediatico delle vicende storiche e delle realtà odierne della questione palestinese è da alcuni ritenuto come uno dei maggiori successi della propaganda israeliana.

Come rivela uno studiovi sull’efficacia di analoghi progetti di promozione della pace nel contesto israelo-palestinese:
“… si possono organizzare quanti progetti si vuole su temi e con finalità superordinate [come la salute]…, ma finché le radici del conflitto non sono esplicitate e sempre più organizzazioni e individui non prendono posizione contro l’occupazione, tutto questo lavoro va perduto nelle realtà sistemiche che creano le condizioni dell’oppressione. [Questi progetti] non cambiano la percezione pubblica del problema. Non modificano le politiche governative. E non contribuiscono alla pace”(p.70). Insomma, in tali progetti di cooperazione scientifica la parola “pace” compare soltanto nel titolo.
Mi sembra inevitabile che le iniziative che si auto-definiscono promotrici della pace in Palestina, non accettando di riconoscere esplicitamente i diritti dei palestinesi e di opporsi in modo netto all’ingiustizia dell’occupazione, della colonizzazione e della discriminazione cui sono soggetti, finiscono per dare una falsa apparenza di uguaglianza tra i due contendenti. Esse inoltre contribuiscono ad ammantare con un velo di legittimità e magnanimità l’immagine pubblica di Israele nonostante le dozzine di risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite.vii Troppo spesso la tattica usata per evitare possibili stati di conflitto è fatta di silenzio, inazione e omissione.

La presunzione di queste iniziative 'a favore della pace' sta nel tentativo di porre sullo stesso piano l’occupante con l’occupato, l’oppressore e l’oppresso, oscurando il fatto che lo Stato di Israele, nonostante sia un’enorme potenza militare e nucleare, giustifica la sua costante violazione della legislazione internazionale e dei diritti umani palestinesi (regolarmente ma inutilmente denunciata da Nazioni Unite e altre organizzazioni) come legittima difesa nei confronti di una nazione priva di esercito e del controllo di beni e mezzi (come territorio, tempo, risorse umane e naturali) essenziali per godere di reale autonomia.

Ambigua neutralità e normalizzazione sono gli schermi illusori dietro di cui finiscono la gran parte delle iniziative che propongono la collaborazione scientifica tra israeliani e palestinesi come terreno, appunto, neutrale e utile a fare scoccare la scintilla della pace. Dietro l’illusoria pretesa di a-politica neutralità, essi in realtà contengono un’agenda politica ben chiara soprattutto per ciò che non dicono sull’enorme disparità nel rapporto tra le due parti, l’uno occupatore e l’altro occupato, l’uno padrone e l’altro servo. In questo gioco delle parti, a prescindere dalle intenzioni, professionisti e accademici della parte più debole sono attentamente blanditi e facilmente attratti da finanziamenti, attrezzature e opportunità troppo prestigiose e allettanti da permettere eroiche rinunce. Il tutto in una prospettiva di priorità spesso non rispondenti ai reali bisogni della popolazione. viii E senza che mai, durante tale interazione, il tema dell’occupazione, dei diritti dei palestinesi e dell’espropriazione da essi subita sia affrontata e discussa, ognuno portando le proprie ragioni.

Il Centro Peres non fa eccezione a questa anomalia e le sue profonde ambiguità sono state denunciate da importanti suoi connazionali, come l’ex vice sindaco di Gerusalemme Meron Benvenisti che così si è espresso:
“Nell’attività del Centro Peres per la Pace non c’è nessuno sforzo palese compiuto per un cambiamento dello status quo politico e socio-economico nei Territori Occupati, ma proprio l’opposto: gli sforzi sono fatti per addestrare la popolazione palestinese ad accettare la sua inferiorità e prepararla a sopravvivere sotto le costrizioni imposte da Israele per garantire la superiorità etnica degli ebrei”.ix

Necessità di riconoscere che cosa faciliti e che cosa ostacoli la pace

Ripensando all’esperienza fatta nel TPO, nonostante mi senta di potere guardare con sufficiente distacco e spirito critico al lavoro svolto, non posso sottrarmi alla spiacevole sensazione di avere perso preziose opportunità se non, forse, procurato danni. E’ verosimile, infatti, che nelle diverse circostanze in cui mi sono trovato in quel periodo la mia posizione di donatore e coordinatore del gruppo internazionale abbia contribuito a esacerbare o prolungare il conflitto in corso. In ogni caso non è potuta rimanerne assolutamente separata.

Per questo motivo credo sia importante rivedere sotto una nuova luce le modalità con cui intendiamo aiutare il popolo palestinese e il raggiungimento di una giusta soluzione del conflitto locale. Per ottenere tale obiettivo, credo sia indispensabile acquisire la capacità di riconoscere quanto vada effettivamente in aiuto della pace e quanto invece ne rappresenti un ostacolo.

Una ricercax sull’impatto dell’aiuto internazionale sui conflitti in corso ha evidenziato che:
1. Anche se i donatori internazionali mantengono una neutralità politica, l’aiuto offerto in una situazione di conflitto può non avere, e nella realtà non ha, un impatto neutrale sul dissidio all’interno del quale è fornito;
2. Le risorse offerte dai donatori, e le modalità in cui esse sono organizzate e distribuite, giocano un ruolo importante nel rinforzare o indebolire le relazioni tra i gruppi contendenti;
3. In qualsiasi società i gruppi contendenti sono sia ‘divisi’ da alcuni fattori (come opposti interessi, storia o competizione per risorse limitate) sia ‘connessi’ da altri (interessi comuni, strutture interdipendenti, valori, frammenti di storia).
4. L’impatto dell’aiuto dei donatori sui conflitti si manifesta quando, da una parte, le risorse fornite, e il modo in cui sono fornite, rinforzano o esasperano i fattori di divisione tra i gruppi con conseguente impatto negativo, in questo modo peggiorando il conflitto; oppure, dall’altra parte, indeboliscono i fattori di divisione (impatto positivo). Analogamente, gli effetti possono essere negativi se il donatore ignora, mina e indebolisce i fattori di connessione; oppure positivi se esso riconosce, rinforza o capitalizza sui fattori di connessione. L’esperienza dimostra che gli effetti sui fattori di divisione e di connessione tra gruppi in conflitto non sono mai neutrali.

Alla luce di quanto sopra ritengo che l’attività’ svolta dal Peres Centre, e nello specifico il progetto 'Saving Children', contenga elementi negativi di divisione e di indebolimento dei fattori di connessione necessari a facilitare la soluzione del conflitto.

Per esempio, l’opposizione continua del Centro Peres al coinvolgimento attivo del ministero della salute palestinese, ancorché previsto esplicitamente dagli accordi nella seconda fase con la Cooperazione Italiana (DGCS - Direzione Generale alla Cooperazione allo Sviluppo del Ministero Affari Esteri), e all’utilizzo dei canali istituzionali del ministero palestinese per identificare i pazienti candidati al trasferimento in Israele, non poteva non avere effetti negativi.

Non meraviglia che un tale atteggiamento abbia portato alla rottura di quella fase progettuale “allargata’ con l’uscita ingloriosa dalla scena della Cooperazione Italiana, e annessi fondi (quasi 3 milioni di Euro) rientrati a Roma. In data 17 novembre 2009 il ministro della salute palestinese scriveva al Console italiano informandolo di non avere raggiunto un accordo con il progetto Saving Children e con la Regione Toscana (portavoce anche di altre regioni italiane) sui temi sopra ricordati che, cito testualmente, “minano il sistema che stiamo lavorando a costruire e rafforzare.” Nel 2011 anche la Regione Emilia-Romagna decideva di non continuare il finanziamento.

È pure discutibile la scelta non negoziabile di canalizzare i fondi attraverso il Centro Peres per finanziare ospedali israeliani, anziché investire direttamente sulle infrastrutture mediche palestinesi e su altre attività finalizzate a rafforzare la capacità del settore sanitario palestinese a rispondere ai bisogni della propria popolazione. Una tale scelta avrebbe contribuito anche a diminuire gradualmente la dipendenza palestinese da Israele e a facilitare il processo di indipendenza e di sviluppo sostenibile della società palestinese.


La figura del Fondatore

Shimon Peres, attuale presidente di Israele, ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace nel 1994 assieme a Yasser Arafat, Shimon Peres e Yitzhak Rabin “per gli sforzi messi in atto per creare la pace nel Medio Oriente”. E’ considerato uno dei fondatori dell’industria militare israeliana; è stato uno dei primi sostenitori degli insediamenti colonici ebraici in Cisgordania la cui maggiore crescita in assoluto (del 50%, quattro volte quella della popolazione all'interno di Israele) avvenne proprio sotto l’amministrazione sua e di Rabin (1992-96)xi; ha partecipato alla costruzione dell’arsenale nucleare (stimato tra 75 e 400 testate) mai smentito da Israele.xii

Nel 1996, come Primo Ministro, lanciò l’operazione ‘Grapes of Wrath’ (‘Furore’) che portò allo sfollamento di 400,000 libanesi, 800 dei quali si rifugiarono nella base delle Nazioni Unite di Qana, nel Libano meridionale. Il 18 Aprile 1996 ordinava il bombardamento della base provocando la morte di 102 civili, soprattutto donne, bambini e anziani. Human Rights Watch, le Nazioni Unite e Amnesty International confermarono che quel bombardamento fu intenzionale e non un incidente.xiii Sembra essere questo il motivo per cui Shimon Peres non fu eletto alla carica di Segretario Generale dell’ONU nonostante fosse il candidato più quotato.

Il Presidente Peres ha espresso chiaramente il suo sostegno alla pratica delle ‘esecuzioni extragiudiziarie’, che significa l’uccisione di palestinesi o arabi sospetti senza sottoporli a processo.xiv E’ un sostenitore dell’assedio di Gaza che ha ormai condotto a una tragica crisi umanitaria, e dell'elaborato sistema di posti di blocco su tutta la Cisgiordania che quotidianamente umilia e rende veramente difficile la vita dei palestinesi. E’ un difensore della distruzione delle case palestinesi col pretesto della loro costruzione abusiva (abusività inevitabile vista l’assoluta mancanza di alloggi), fenomeno in crescita preoccupante soprattutto a Gerusalemme Est e nell’area C della Cisgiordania.xv

Con tali credenziali è davvero difficile, nonostante il suo Premio Nobel, potere esaltare Shimon Peres come promotore di pace e riconciliazione con il popolo palestinese. Mi pare piuttosto che traspaia l’ipocrisia di chi cerca la pace promuovendo e sostenendo le guerre più sanguinose.


Conclusione

Resistere a questa subdola opera di normalizzazione e legittimazione di una situazione inaccettabile vuol dire lavorare per l’educazione non solo dell’oppresso, ma anche dell’oppressore. Quest’ultimo, infatti, essendo il detentore del potere maggiore, non vede nessun interesse nell’imbarcarsi in un processo di riparazione delle ingiustizie commesse... È necessario che l’ingiustizia perduri affinché il potente possa agire come ‘generoso’, mettendosi con magnanimità, ma ben conscio della sua superiorità, al tavolo della collaborazione ‘scientifica’ con l’oppresso, magari offrendo di curargli, a un costo (e non solo finanziario), i figli ammalati. Al contrario, la conquista implicita del dialogo è quella del mondo che i due soggetti realizzano insieme. Come diceva Paulo Freire, “nessuno si salva da solo ma insieme all’altro.” xvi

Ringrazio il paziente ma, mi auguro, interessato lettore di essere arrivato in fondo a questo lungo scritto che auspico possa essere utile a tutte le persone desiderose di contribuire, oltre che alla cura dei bambini palestinesi, anche a una giusta soluzione del conflitto israelo-palestinese.