giovedì 25 febbraio 2010

Bil'in, 5 anni di lotta non-violenta

La lotta nonviolenta di Bil’in compie gli anni

scritto per noi da
Barbara Antonelli




Corrono frenetici taxi, service e auto private sulla strada dissestata e polverosa che dalla periferia di Ramallah arriva a Bil'in, villaggio della Cisgiordania. "Fi el afle fi Bil'in, el lyom", c'e' un party oggi a Bil'in, dice il tassista mentre mi lascia nella piazza all'ingresso del paese, mai stata cosi affollata da giornalisti e dimostranti venuti da tutta la Cisgiordania, da Israele e anche dall'estero per partecipare alla consueta manifestazione del venerdi, contro il muro.
Oltre 2mila persone, 3mila dicono gli organizzatori, una folla festosa di attivisti, la banda di giovanissimi scout palestinesi, il gruppo israeliano di percussioni Ka/Ya Samba, i clown.
Tutti accorsi a festeggiare cinque anni di caparbietà del comitato popolare del villaggio.
Da cinque anni, ogni venerdi, attivisti israeliani e internazionali marciano insieme al comitato popolare contro la costruzione della barriera con cui Israele ha espropriato i residenti di due terzi della terra agricola coltivabile, per l'espansione dei vicini insediamenti. Cinque anni che hanno reso Bil'in un esempio della nonviolenza palestinese contro l'occupazione israeliana, destando una sempre maggiore attenzione da parte dei media, anche mainstream; una formula basata sulla creativita' e la costanza, diventata un modello per altri villaggi della Cisgiordania. Dieci giorni fa, le immagini dei manifestanti a Bil'in travestiti da Na'vi, il popolo che nell'ultimo colossal di James Cameron, Avatar, si ribella ai colonizzatori, hanno fatto il giro della stampa internazionale.
C'erano anche le istituzioni venerdi scorso, Salam Fayyad, primo ministro palestinese, venuto a sostenere la lotta non violenta, ha ringraziato "il comitato popolare ma anche tutti quelli che hanno sostenuto la battaglia di Bil'in in questi anni, il diritto dei palestinesi a vivere liberi e in modo dignitoso". C'erano anche molti rappresentatnti del Consiglio Legislativo Palestinese, Mustafa Barghouthi, Walid A'ssaf, Abdallah Abdallah e anche invitati europei, tra cui il sindaco di Ginevra, Remy Pagani, che ha ricordato come " la comunità internazionale nulla abbia fatto per l'applicazone del diritto internazionale nei territori occupati Palestinesi".
Qui a Bil'in si vive nel ricordo di Bassem. Non c'e' un solo speaker nei comizi pre-manifestazione che non l'abbia ricordato: Bassem Abu Rahme, ucciso nel 2009 da un candelotto di gas lacrimogeno, che gli ha perforato il torace. Perche' se e' vero che da cinque anni si manifesta, da altrettanti anni l'esercito israeliano tenta con tutti i modi di indebolire la lotta popolare nonviolenta: incursioni notturne, arresti generalizzati, intimidazioni e una repressione violenta della marcia ogni venerdi, con gas lacrimogeni, proiettili di gomma, e a volte proiettili veri. 31 attivisti di Bil'in sono ancora in carcere: tra loro Abdallah Abu Rahme, arrestato il 10 settembre 2009, per la cui liberazione e' stata lanciata una campagna sostenuta da diverse organizzazioni che si battono per la difesa dei diritti umani. Dalla prigione di Ofer nel quale e' detenuto (prigione israeliana nei territori occupati palestinesi), Abdallah in collegamento audio ha salutato i manifestanti e ricordato il legame forte che lega gli attivisti palestinesi a quelli israeliani e internazionali, "perche' la lotta popolare non violenta e' qualcosa di molto piu' grande della sola giustizia per Bil'in o per la Palestina, e' il simbolo di una lotta condivisa contro l'oppressione".
E allora si e' marciato come tutti i venerdi, fino alla barriera che divide il villaggio dalle terre agricole. Per venti secondi i manifestanti hanno pensato che l'esercito non ci fosse. Hanno superato la recinzione metallica e appeso bandiere palestinesi, hanno tirato giù 30 metri di reticolato e filo spinato. Allora e' iniziata la pioggia di lacrimogeni, granate assordanti, idranti che spruzzano skunk, un'acqua puzzolente, una sostanza chimica "il cui odore ti resta attaccato addosso per giorni" dice chi a Bil'in e' di casa. Alcuni battono subito la ritirata, altri restano, un'ora o due, seduti sotto gli ulivi, a guardare da lontano la scena, sulla terra avvelenata dai gas lacrimogeni. Il bilancio della giornata e' di oltre 15 intossicati e qualche ferito lieve.
Alle tre ci si avvia verso la piazza del paese, alla ricerca di un taxi, è ora di tornare a casa. Con una seppur piccola vittoria per cui gioire: la sentenza che la Corte Suprema di Giustizia isrealiana ha emesso nel 2007 perché il muro fosse rimosso e il suo percorso spostato, e' stata finalmente applicata dall'esercito israeliano; il 15 febbraio sono iniziati i lavori di spostamento del reticolato, lavori che restituiranno a Bilin quasi la meta' dei dunum di terra confiscati. "La Corte israeliana aveva gia' emesso la sentenza due anni fa, ma è grazie alla nostra battaglia, non alla Corte, che l'esercito ha deciso di applicare la sentenza proprio adesso", dice Mohammed Khatib, del Comitato popolare. "La Corte Internazionale di giustizia dell'Aja ha decretato che l'intero muro é illegale e andrebbe smantellato, non solo parzialmente come ha deciso la Corte." Una decisione molto sofferta, visto che il comitato, una volta accolta la sentenza, non potra' piu' ricorrere alla Corte: il villaggio ha votato per accettare e continuare però le azioni di protesta per l'illegalità del tracciato e del muro.
"Riprendiamoci la nostra terra occupata dal 1967, piccolo pezzo dopo piccolo pezzo e continuiamo a lottare", riporta il comunicato stampa. La battaglia va avanti allora, appuntamento al prossimo venerdi.

mercoledì 24 febbraio 2010

Comportamenti usuali dell'esercito "più morale del mondo"or

At-Tuwani, 23 febbraio 2010


Nel pomeriggio del 23 febbraio 2010, i soldati israeliani hanno arrestato un pastore palestinese di 19 anni, Khalil Ibrahim Abu Jundiyye, del villaggio di Tuba.

Il pastore stava portando al pascolo il proprio gregge quando quattro soldati israeliani dal vicino insediamento di Ma'on hanno cominciato ad inseguire lui e un altro pastore, costringendoli a tornare verso il villaggio di Tuba.

Una volta arrivati al villaggio i soldati hanno aggredito i due pastori e le rispettive famiglie che stavano tentando di chiarire con i soldati i motivi della loro aggressività. Un soldato ha dato una testata al fratello del pastore solo perchè stava chiedendo le ragioni dell'arresto. Un altro soldato ha caricato il fucile e rivolgendolo verso l'alto ha minacciato di sparare se le famiglie palestinesi non avessero immediatamente taciuto.

I soldati hanno ammanettato Khalil Abu Jundiyye e l'hanno portato via, minacciando l'arresto di chiunque avesse tentato di seguirli. Due volontari del Christian Peacemaker Teams che si trovavano sul posto hanno visto i soldati costringere il palestinese a camminare bendato su di un terreno scosceso per circa un chilometro.

Un'organizzazione israeliana per i diritti umani ha più tardi informato gli internazionali del fatto che Abu Jundiyye è stato portato al checkpoint di Beit Yatir, sul versante meridionale della Green Line, adiacente all'insediamento di Mezadot Yehuda.

Abu Jundiyye è stato trattenuto tutta la notte e al momento nessuno è a conoscenza del luogo in cui si trovi realmente. Secondo il DCO, l'ufficio israeliano di coordinamento distrettuale, Abu Jundiyye sarebbe accusato di avere aggredito uno dei soldati. I due volontari del CPT presenti hanno riportato che il pastore palestinese non ha in alcun modo aggredito il soldato e i video in loro possesso mostrano chiaramente che l'aggressione non è di fatto avvenuta.

ARCHEOLOGIA ALL'ISRAELIANA

“Gli scavi israeliani sono responsabili

dei recenti sprofondamenti a Gerusalemme.”



Gerusalemme – Ma’an – Dei testimoni oculari hanno riferito che domenica, vicino all’ingresso del mercato Bab Khan Az-Zeit nella Città Vecchia, una strada è franata a seguito degli scavi israeliani nell’area.



Il corrispondente di Ma’an da Gerusalemme ha riferito che “ A seguito del cedimento si è formato un buco di due metri per un metro di profondità.”

Si sostiene che Il recente smottamento sia connesso agli scavi archeologici israeliani in atto attorno al complesso della Moschea Al-Aqsa, che hanno prodotto una serie di frane tutt’intorno, nella Città Vecchia e nei quartieri di Gerusalemme Est.

Le frane hanno fatto seguito alla decisione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di inserire nella lista del patrimonio ebraico due siti posti nei Territori Palestinesi Occupati, la Moschea di Ibrahim – Abramo a Hebron e la Tomba di Rachele a Betlemme.

A gennaio, la Fondazione Al-Aqsa per la Dotazione e il Patrimonio ha riferito di uno smottamento stradale sulla via principale dell’area di Silwan nella Gerusalemme est occupata, che ha prodotto un buco di dimensioni analoghe a quelle della frana più recente..

Il rapporto afferma che, secondo il parere della Fondazione, lo sprofondamento era connesso con gli scavi in atto effettuati nelle vicinanze dalle autorità israeliane, costituiti apparentemente da tunnel che si estendono al di sotto del quartiere, a circa 700 metri dal complesso della Moschea. Di recente le autorità hanno asportato una grande quantità di terra e roccia da sotto Silwan per trasportarla in località mantenute nascoste.

In seguito, sempre a gennaio, era stato riportato un secondo sprofondamento a Silwan presso il Centro Informazioni Wadi Hilwah, a sud del complesso della Moschea di Al-Aqsa, che ha prodotto nel bel mezzo di Wadi Hilwah Street un buco di 12 metri quadrati.

Jawad Siam, capo del Centro Informazioni, ha sostenuto che il recente sprofondamento in Waadi Hilwah si è verificato sopra un tunnel scavato ad una profondità di 10 metri e si è formato a pochi metri dalla frana precedente di gennaio.

Siam ha raccontato che un ragazzo è rimasto ferito mentre un veicolo vi è caduto dentro, aggiungendo che la locale moschea Al-Ein, dove gli scavi israeliani erano stati intensificati, si era allagata non appena l’acqua piovana era filtrata dentro al luogo sprofondato.

Il Centro Al-Quds per i Diritti Economici e Sociali ha affermato che questo episodio fa seguito a un gran numero di analoghi sprofondamenti che si sono verificati di recente a Silwan, evidenziando che lo scorso anno, uno smottamento era avvenuto in una scuola femminile, dove erano rimaste ferite ben 17 studentesse.

(tradotto da mariano mingarelli)

martedì 23 febbraio 2010


BAMBINE E BAMBINI DI GAZA

Le bambine e i bambini di Gaza

Le notizie, poche, che riescono ad attraversare il muro di silenzio dei mass media europei e statunitensi sulla guerra che porta avanti Israele contro i palestinesi di Gaza, sono estremamente allarmanti. Una delle vie informative che scappano al controllo delle grandi corporazioni informative, i governi e le lobby di pressione sionista, sono gli stessi palestinesi e le loro organizzazioni solidali nel mondo. In questa occasione abbiamo parlato con Eisa Alsoweis Ahmada, che è stata vicepresidente dell’Associazione della Comunità Ispano- Palestinese “Gerusalemme” ed oggi presiede l’Associazione Amiche ed Amici della Palestina nella popolazione di Madri di Alcorcon.

In questo periodo si compie un anno da quando il governo di Israele ha dato per conclusa l’offensiva militare sul territorio di Gaza, che da molto tempo sopporta il recinto sionista senza che nessun governo occidentale si disponga ad interromperlo, farlo saltare, denunciarlo energicamente o prendere misure di pressione effettive su Israele nei centri internazionali.

-Può raccontarci come è la situazione internazionale rispetto a Israele ad un anno del compimento del genocidio israeliano- sionista contro la popolazione di Gaza?

I governi praticano la doppia rasiera. Viviamo in un mondo che serve agli interessi individuali e non alla dignità umana ne alla Giustizia Universale che pretende che tutti siano uguali di fronte alla giustizia. In Spagna si è modificata la legge per non infastidire Israele ne i suoi criminali. Al suo posto ci portano rappresentanti israeliani, membri dell’Autorità Palestinese che non hanno nessuna legittimità dal loro popolo. Per la comunità internazionale dare denaro all’Autorità Palestinese è lavarsi la coscienza e fomentare il clientelismo politico nella società palestinese. Dall’altra parte il discorso di Obama quando salì al potere non era lo stesso di oggi, si è dimenticato del conflitto e adesso parla soltanto della crisi economica che lo tocca.

-Oggi una bambina o bambino nato a Gaza, cosa vede intorno?

Distruzione, depressione, amarezza, rabbia e destrutturazione familiare. Inoltre molti bambini sono orfani. Dubitano molto che le persone grandi possano cambiare la situazione attuale perché gli adulti presentano gli stessi sintomi.

-Colazione, cibo, cena. Quali alimenti ci sono nelle loro dispense e frigo?

Il frigo è un sogno, non c’è elettricità per farlo funzionare. Gli alimenti sono gli aiuti internazionali, un sacco di farina, un sacco di riso, qualche chilo di zucchero e abbastanza cibo in scatola, questo attraverso una cartella per ogni famiglia durante il mese. La carne è un sogno per una famiglia di Gaza. Credo che, se hanno un pasto in una giornata ,si considerano fortunati.

-Tagli dell’energia elettrica, dell’acqua potabile, perché queste cose così essenziali dipendono da Israele?

E’ l’affare. A noi non è permesso costruire una centrale elettrica. Hai visto che la prima cosa che bombardano sono le strutture basiche di una città, e sempre dipende da loro. I palestinesi devono comprare l’elettricità e l’acqua da Israele al prezzo che decidono loro e certamente, parte dell’aiuto internazionale è quello di ingrossare i conti delle compagnie israeliane.

-Allora, come si sopravvive giorno dopo giorno nelle case, negli accampamenti dei rifugiati, nelle scuole, negli ospedali?

Si tratta di questo, si tratta di sopravvivere come sia, la nostra forza risiede nella nostra determinazione di continuare a lottare con tutti i mezzi a nostra disposizione fino ad ottenere il nostro Stato Palestinese libero e democratico.

-Come si realizza l’insegnamento dei bambini palestinesi nella città assediata? Di quali mezzi dispongono? Cosa usano gli insegnanti e cosa i bambini per lo studio?

Il nostro insegnamento è un esempio per il resto del mondo ,perché si porta nelle case dei bambini. La loro volontà (degli insegnanti ) di continuare ad insegnare nelle peggiori condizioni è ammirata da tutti i palestinesi, dato che, sono capaci di andare a lavorare nelle case senza farsi pagare nulla, i libri non si buttano, si passano da uno all’altro, ecc.

-Sotto quale stato d’animo e alimentare si trovano i bambini palestinesi?

Per l’infanzia palestinese la depressione e l’ansietà sono cose quotidiane. Puoi immaginare, trovandosi in questo stato, che alimentazione hanno, principalmente se consideriamo che la maggior parte delle volte non trovano nulla da portare alle loro bocche.

-Come si può aiutare la popolazione assediata da così lontano?

Affiliandosi a movimenti sociali per esigere ai governi che obblighino a Israele a compiere con la Legalità Internazionale e portare tutti i responsabili del governo israeliano davanti ai Tribunali Internazionali perché siano giudicati per i loro crimini contro il popolo palestinese.

Tantissime grazie a Eisa Alsoweis, presidente dell’Associazione di Amiche e Amici della Palestina in Alcorocon (Madrid)

Traduzione italiana curata da Vanesa Volpe

lunedì 8 febbraio 2010

La moralità dell'esercito israeliano

Donne soldato rompono il loro silenzio”

Sei anni dopo la raccolta delle testimonianze di “Rompere il Silenzio”, l’organizzazione mette in distribuzione il libretto delle testimonianze rilasciate da donne soldato che hanno prestato servizio nei Territori. I racconti contengono l’umiliazione sistematica dei palestinesi, la violenza incosciente e crudele, il furto, l’omicidio di persone innocenti e l’occultamento. Qui sono riportate solo alcune testimonianze.
Amir Shilo


“Un soldato da combattimento donna ha bisogno di evidenziarsi di più…un soldato donna che picchia brutalmente gli altri è un combattente serio…..quando arrivai c’era un’altra donna con me, lei era giunta là prima di me….tutti parlavano di quanto faccia effetto, in quanto lei umilia gli arabi senza alcun problema. Quello era il riferimento. Dovevi osservare lei, il modo che lei usa per umiliare, come li schiaffeggia, wow, lei ha schiaffeggiato veramente quel giovane.”

Venerdì, l’Organizzazione “Rompere il Silenzio” ha distribuito un libretto di testimonianze rilasciate da donne soldato che raccontano diversi casi di abuso che hanno coinvolto i palestinesi nella West Bank.

Negli anni recenti, le donne sono state coinvolte in modo crescente in combattimenti ed in operazioni sul campo nelle Forze di Difesa Israeliane (IDF) e nelle Guardie di Confine. Tra le altre cose, queste donne soldato sono impegnate nel contatto quotidiano con la popolazione palestinese – ai blocchi stradali e nelle comunità palestinesi.
Secondo le testimonianze più recenti, molte di queste giovani donne hanno delle difficoltà a farcela con la realtà violenta alla quale esse sono esposte e nel ritrovarsi ad affrontare situazioni che contraddicono i loro valori. Alcune di loro finiscono per prendere parte ai fatti, o di chiudere un occhio su quanto accade, che anni dopo rappresenterà per loro un fardello opprimente. Come la loro controparte maschile, alcune di queste donne sentono la necessità di parlare di quanto hanno visto.
“Le ragazze hanno una maggiore difficoltà a riportare i fatti, in quanto, per cominciare, esse rappresentano la minoranza,” ha affermato la direttrice dell’organizzazione, Dana Golan.
“Ogni soldato vorrebbe dare loro una ripassata”
Nell’ambito dell’ultimo progetto, Rompere il Silenzio aveva raccolto le testimonianze di più di 50 donne soldato che avevano prestato servizio nei luoghi più disparati dei territori. Ynet in questo rapporto presenta alcune delle più significative testimonianze.
Golan ha notato che le donne soldato non erano più disponibili dei loro camerati maschi nei confronti dei palestinesi.
“Abbiamo scoperto che le ragazze cercano di essere perfino più violente e brutali dei ragazzi,” ha raccontato, “proprio per diventare come uno di quei tipi.”
Una Guardia di Confine donna della linea di congiunzione, ha parlato dell’inseguimento in cerca di stranieri illegali: “In mezz’ora puoi acchiappare 30 persone senza alcuno sforzo.” Poi viene il problema di quello che dovresti fartene di quelli che sono stati catturati – comprese donne, bambini e vecchi: “Si dovrebbe farli stare in piedi, e poi c’è la ben nota canzone delle Guardie di Confine (in arabo): “Uno per l’hummus, uno per i fagioli, io amo la Guardia di Confine” – che pretendevano che loro cantassero. Cantassero e saltassero. Proprio come fanno con le reclute….La stessa cosa, ma solo molto peggio. E se uno di loro avesse provato a ridere o se essi avessero deciso che qualcuno stesse ridendo, lo avrebbero picchiato. Perché hai riso? Uno schiaffo…e potrebbe andare avanti così per ore, dipendendo solo da quanto sono annoiati. Un turno dura otto ore, si deve pur passare il tempo in qualche modo.”
La maggior parte delle donne soldato dice di aver intuito, che c’era un problema durante il loro servizio, ma non avevano fatto nulla.
Un’altra testimonianza di una donna soldato, che aveva prestato servizio al posto di blocco di Erez, suggerisce quanto fosse profondamente radicata la violenza nella routine quotidiana. “C’era una procedura secondo la quale prima di rimandare un palestinese nella Striscia – lo devi portare dentro alla tenda e lo devi picchiare.”
Quella era una procedura?
“Sì, tutti insieme con i comandanti.”
Quanto tempo è durata?
“Non moltissimo, entro 20 minuti avrebbero dovuto essere alla base, ma i soldati si sarebbero fermati alla postazione a bere caffè e fumare sigarette, mentre i tipi del posto di comando li avrebbero picchiati brutalmente.”
Questo è successo con tutti gli stranieri illegali?
“Non è capitato molte volte…non sono cose che fai ogni giorno, ma una sorta di procedura. Non so se ti obbligano a comportarti tassativamente così in tutti i casi….ho impiegato un po’ di tempo per rendermi conto che se io rilascio uno straniero illegale che è in mano mia, per tutto il tempo che impiega a ritornare a Gaza egli dovrà passare per l’inferno…due o tre ore possono trascorrere dal momento in cui egli entra nella Striscia. Nel caso del ragazzino, è stata una notte intera. Tutto ciò è insensato, dal momento che c’è una decina di minuti di cammino. Li avrebbero bloccati lungo la loro strada e ciascun soldato avrebbe dato loro una “ripassata”, compresi i comandanti.”
“Mano di bambino rotta su una seggiola”
Una donna soldato dell’unità di polizia militare Sachlav, con base a Hebron, ha rievocato il caso di un bambino palestinese che avrebbe provocato sistematicamente i soldati scagliando loro delle pietre e con altre azioni dello stesso tipo. Una volta egli aveva cercato perfino di spaventare un soldato il quale era poi caduto dalla sua postazione e si era rotta una gamba.
La vendetta venne subito dopo. “Non so chi e come, ma so che due dei nostri soldati lo misero nella jeep e che due settimane dopo il ragazzino si aggirava nei paraggi con un’ingessatura su entrambe le braccia e le gambe….Si parlò abbastanza a lungo del fatto nell’unità – su come l’avevano messo a sedere ed avevano messo la sua mano sulla sedia e gliela avevano semplicemente rotta, proprio là sulla sedia.”
Perfino i bambini piccoli non sfuggono a questi atti di violenza arbitraria, ha affermato un’agente donna della Guardia di Confine che presta servizio presso la barriera di separazione: “Catturammo un bambino di cinque anni…non riesco a ricordare che cosa avesse fatto….lo stavamo riportando indietro nei territori o qualcosa d’altro, e gli ufficiali lo sollevarono appena, lo schiaffeggiarono da tutte le parti e lo misero in una jeep. Il bambino stava piangendo e l’ufficiale vicino a me gli disse “non piangere” e cominciò a deriderlo. Alla fine il bambinello provò a sorridere – quando l’ufficiale improvvisamente gli dette un pugno nello stomaco. Perché? “Non ridermi in faccia,” egli disse.
Ci furono anche abusi su donne?
“Sì” replicò la stessa soldatessa. “Sberle, cose di questo tipo. Specialmente sberle.”


Da uomini?
“Anche. Da chiunque. Erano specialmente le donne soldato combattenti a picchiare la gente. Ce n’erano due a cui piaceva tanto picchiare la gente. Ma anche gli uomini, essi non si ponevano alcun problema a schiaffeggiare una donna. Se esse avessero strillato, le avrebbero detto, “Zitta”, con un’altra sberla. Una routine di violenza. C’erano anche quelli che non prendevano parte, ma tutti erano a conoscenza di quanto succedeva.”
Talvolta era necessario uno “spettacolo” completo per soddisfare il forte desiderio di violenza. “C’è una sensazione di violenza,” ha asserito una donna poliziotto di frontiera dell’area di Jenin. “ E certo, ci si annoia, in tal caso creeremo qualche azione. Dovremo andare alla radio per dire che loro ci hanno tirato dei sassi, per cui si sarebbe arrestato qualcuno e loro avrebbero cominciato ad interrogarlo…..C’era una donna poliziotto che era annoiata, così d’accordo, lei ha dichiarato che le hanno tirato dei sassi. Le hanno chiesto chi è stato a tirarglieli. ‘Non so, due con delle magliette grigie, non sono riuscita a vederli.’ Loro hanno catturato due tizi con le magliette grigie….e li hanno picchiati. Sono loro? ’No, penso di no.’ D’accordo, un incidente completo, gente è stata picchiata duramente. Quel giorno non è successo nulla.”
Un sottufficiale donna per la formazione della Guardia di Confine portò i suoi ufficiali per una domenica di cultura - ad uno spettacolo a Tel Aviv. Quando ritornarono alla loro base nella Striscia di Gaza, essi rimasero sconcertati dalla considerazione del contrasto – un attimo prima stavano applaudendo in un teatro, in un istante successivo si stavano comportando come bestie.
“Attraversare il posto di controllo, è come entrare in un altro mondo….Palestinesi che camminano sul lato della strada con carrelli, con carri, ciuchi….così le Guardie di Confine prendono un autocarro con le rimanenze di cibo e cominciano a lanciarglielo…formaggio fresco, verdure andate a male….è stata la cosa più sconvolgente che abbia mai vissuto nei territori.”
La soldatessa sostiene di aver provato a protestare, ma che venne fatta tacere dagli ufficiali comandanti. Quando lei cercò di aggirarli rivolgendosi alle autorità superiori, trovò una soluzione. “Quasi subito entrai in un corso ufficiali.”
“Tu non sai da quale parte stai”
Alcune delle testimonianze documentano incidenti di vandalismo nei confronti di proprietà palestinesi, e persino furti. La stessa donna soldato che ha rammentato il suo tempo trascorso al posto di controllo di Erez ha detto, “Molte volte i soldati avrebbero aperto il cibo dei palestinesi.”
E l’avrebbero pure preso?
Sì. Durante tutto il tempo trascorso ai posti di confine nei territori essi non fanno altro che prendere cose. Non potresti mai vedere un soldato senza musabaha (passata di ceci simile all’hummus). E quella è qualcosa che forniscono molte volte….Sono così disperati di passare che perfino una sorta di mazzetta i soldati un poco …….”
Un ufficiale donna della Guardia di Confine ha parlato di come i bambini palestinesi sarebbero arrivati ai posti di controllo con un sacco di giochi da vendere – e di come la Guardia di Confine si sarebbe accordata con loro. “D’accordo, getta via la borsa. Oh, ho bisogno di alcune batterie,” e le avrebbero prese, avrebbero preso tutto ciò che volevano.”
Che cosa avrebbero preso?
“Giochi, batterie, qualsiasi cosa,….sigarette. Sono certo che abbiano preso anche del denaro, ma non lo ricordo in modo particolare.” Lei ha parlato anche di un particolare incidente nel quale il saccheggio è stato ripreso da una videocamera tanto che è esploso il caso. “Allora il comandante di compagnia ci riunì e ci rimproverò: ‘Come potete pensare che non vi possano vedere?’ “ Nessuno venne punito. “Veramente, era un’atmosfera nella quale a noi era permesso picchiare e umiliare.”
Alcuni dei racconti più gravi giungono da Hebron. Una donna soldato Sachlav ha parlato di uno dei passatempi della compagnia: Pistole giocattolo. “Quelle pallottole di plastica fanno effettivamente male…ne avevamo una gran quantità….te ne stavi seduto di guardia e ‘tak’ spari ad un ragazzo, ‘tak’ spari ad un altro ragazzo.”
Lei ha riferito di un incidente nel quale un reporter palestinese aveva preso una fotografia di uno dei soldati che puntava una pistola alla testa di un ragazzo. Ha raccontato di come arrivò ad Hebron una pattuglia speciale e se ne tornò indietro con le fotografie. La soldatessa disse che o avevano pagato il reporter o l’avevano minacciata.
E le fotografie erano circolate nella compagnia?
“No, vennero distrutte il giorno stesso.”
Che cosa disse il comandante della compagnia al proposito?

“Egli disse che era stato positivo il fatto che esse non fossero giunte all’Unità del portavoce dell’IDF.”
Alcune delle testimonianze da Hebron trattano della posizione difficile nella quale si trovano i soldati, tra i palestinesi ed i coloni – i quali essi affermano essere perfino più difficili da trattare. Alcune delle donne soldato erano sconvolte dal livello di violenza che i figli dei coloni utilizzavano contro i palestinesi. “Loro, i bambini ebrei, avrebbero lanciato pietre contro gli altri,” ha affermato una donna soldato Nahal, “e i genitori non avrebbero detto nulla…..lo si vede ogni giorno a Tel Rumeida.”
Non ti sembra strano che un bambino lanci un sasso contro un altro bambino?
“Dato che un bambino è ebreo mentre l’altro è palestinese, in qualche modo va bene…ed era ovvio che dopo ci sarebbe stato un casino. E tu inoltre non sai veramente da quale parte stai…devo fare una commutazione nella mia testa per continuare ad odiare gli arabi e giustificare gli ebrei.
Nella sua frustrazione, la stessa donna soldato ha raccontato di come una volta lei abbia sputato su un palestinese in strada. “Non penso che lui abbia persino fatto qualche cosa. Ma d’altra parte, faceva freddo e quella era l’unica cosa che tu potevi fare…sai, non potevo vantarmi di aver preso un terrorista…Ma potevo sputare su di loro e avvilirli e ridere di loro.”
Un’altra donna soldato Sachlav ha raccontato la storia del tempo in cui una ragazzina colona di sette anni ad Hebron aveva deciso di sfondare con una pietra la testa di un palestinese adulto che la incrociava passandole accanto sulla strada. “Boom! Lei saltò su di lui e lo colpì proprio qui sulla testa…poi cominciò a strillare ‘Puah, puah, il suo sangue è su di me’.”
La soldatessa disse che il palestinese si voltò allora in direzione della ragazzina – un movimento che venne interpretato come una minaccia da parte di uno dei soldati nella zona, che aggiunse di suo un pugno. “E io me ne stavo là inorridita….una innocente piccola bambina nel suo vestito da Shabbat…l’arabo coprì la ferita con la sua mano e corse via.” Lei rammentò un altro incidente con la stessa bambina: “Ricordo che lei aveva suo fratello nella carrozzina, un bambino piccolo. Lei gli stava dando dei sassi dicendogli: “Tirali agli arabi.”
A 9 anni colpito a morte.
Altre testimonianze sollevano scalpore come nel caso delle procedure per aprire il fuoco nei territori, in particolare le armi per il controllo della folla. Una Guardia di Confine donna ha esposto nei particolari il protocollo che lei ha chiamato “smantellare la gomma” – il mettere fuori uso le pallottole di gomma da gruppi di tre a pallottole singole, e rimuovere da loro la gomma. Lei ha detto anche che, nonostante gli ordini chiari di sparare in aria o ai piedi dei dimostranti, era una procedura comune quella di sparare all’addome.
Un ufficiale donna della Guardia di Confine a Jenin ha parlato di un incidente nel quale un palestinese di 9 anni che cercava di arrampicarsi sul reticolato, non c’era riuscito ed era fuggito – era stato colpito a morte: “ Hanno sparato….quando lui era già nei territori e non rappresentava alcun pericolo. Il colpo è stato nell’area addominale, loro hanno affermato che lui era in bicicletta cosicché non erano in grado di colpirlo alle gambe.”
Ma la soldatessa era più sconcertata per quello che era successo dopo tra i quattro soldati presenti: “Non appena proposero la loro versione…Venne effettuata una indagine, dapprima sostennero che era stato un omicidio ingiustificato…alla fine essi dichiararono che lui stava controllando la via di fuga per terroristi o qualcosa d’altro…ed hanno chiuso il caso.”
Una donna soldato nel campo delle informazioni che aveva prestato servizio vicino ad Etzion ha rammentato un incidente nel quale dei cecchini avevano ucciso un ragazzo sospettato di aver lanciato una Molotov.I soldati avevano coordinato i loro racconti e la donna soldato era sconcertata, specialmente per l’atmosfera felice che contornava l’incidente. “Era stato scritto nella valutazione della situazione dopo l’incidente che da quel momento in poi essa sarà tranquilla. Questo è il miglior tipo di deterrenza.”
“Loro non sanno come comportarsi con le donne”
Le donne soldato fanno ripetutamente riferimento alle particolari difficoltà che hanno avuto in quanto donne che dovevano dimostrare che essere “combattenti” nel bel mezzo di soldati uomini combattenti da un lato e palestinesi che vivevano un periodo difficile nel trattare le donne in uniforme sull’altro lato. La storia seguente di un ufficiale donna della Guardia di Confine riassume la faccenda.
Quando l’intervistatore le chiese se i palestinesi “tolleravano perfino di più da parte delle Guardie di Confine” donna, lei disse: “Sì,sì, perché non sanno come comportarsi con le donne. Nel momento in cui un uomo viene schiaffeggiato da una donna, egli è così umiliato, è tanto umiliato da non sapere che cosa fare di sé stesso….Io sono una ragazza forte e con un bel corpo, e questo per loro è perfino più duro da trattare. Così uno dei loro modi di superarla è quella di mettersi a ridere. Loro hanno appena cominciato a prendermi in giro. Il comandante mi guarda e mi dice. “Cosa? La lascerai passare? Guarda come sta ridendo di te.”
“E tu, come uno che deve conservare il rispetto di se stesso….Ho detto loro di sedersi e ho detto a lui di venire…Gli ho detto di venire vicino, io mi ero davvero accostata a lui, come stessi per baciarlo. Gli dissi, ‘Vieni, vieni, di che cosa hai paura? Vieni da me!’ E lo colpii nelle palle. Gli dissi,’perché stavi ridendo? Lui era sconvolto e quindi si rese conto che….di non ridere. Non si sarebbe dovuto giungere ad una tale situazione.”
Tu lo colpisti con il ginocchio?
“Lo colpii nelle palle. Usai il mio piede, con la mia ostentazione militare, e lo colpii nelle palle. Non so se tu sei mai stato colpito nelle palle, ma sembra che faccia male. Egli cessò di ridermi in faccia perché la cosa lo faceva soffrire. Poi lo portammo ad una stazione di polizia e io dissi a me stessa, ‘wow, ora finirò nei guai.’ Lui si sarebbe potuto lamentare di me ed io avrei potuto ricevere un reclamo alla divisione criminale investigativa della polizia militare.
“Lui non disse una parola. Io avevo paura e parlai. Avevo paura per me, non per lui. Ma lui non disse una parola. “Che cosa avrei dovuto dire, che sono stato picchiato da una ragazza?’ E lui avrebbe potuto parlare, ma grazie a Dio, tre anni dopo non ho ricevuto nulla e nessuno ne sa nulla.” Che cosa si è provato in momento come quello?
“Potenza, forza che non avrei ottenuto in questo modo. Ma non me ne sono vantata. Questi sono i motivi per cui mi sono comportata in questo modo, uno sull’altro. Dissi loro di sedersi da parte, Vidi che lui non stava guardando. Dissi a me stessa che non aveva senso che come una ragazza che dà di più ed oltre e che vale più di alcuni ragazzi – loro potrebbero ridere di me per una cosa come questa perché sono una ragazza. Perché tu pensi io non possa farlo….”
Oggi, quando guardi il fatto tre anni dopo,avresti voluto comportarti diversamente?
“Io cambierei il sistema. Esso è gravemente difettoso.”
Che cosa significa ciò ?
“Il sistema è profondamente scorretto. L’intera amministrazione, il modo in cui sono fatte le cose, non è giusto. Non so come potrei…Non penso di aver fatto le cose giuste in questo incidente ma era ciò che ho dovuto fare. E’ inevitabile in queste circostanze.”
Tu stai dicendo che i piccoli soldati in campo non rappresentano il problema, bensì l’intera situazione che li circonda?
“Sì, l’intera situazione è problematica.”

domenica 7 febbraio 2010

Comunicato delle ONG in Medio Oriente

Piattaforma delle ONG Italiane per il Medio Oriente
Roma, 6 febbraio 2010
Comunicato
Le Organizzazioni non Governative italiane che operano nei Territori Occupati Palestinesi esprimono forte dissenso e preoccupazione per le dichiarazioni rilasciate dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi durante la sua visita in Israele e Betlemme e, in particolare, quelle sull' ultima aggressione militare dell'esercito israeliano a Gaza che il Presidente del Consiglio ha definito "giusta reazione ai missili di Hamas lanciati da Gaza".
Tale aggressione militare ha provocato 1.400 vittime, tra cui molte donne e piu' di 340 bambini, e ha colpito la popolazione civile anche attraverso l'uso di armi proibite dalle Convenzioni Internazionali come il fosforo bianco, cosi come confermato nell'indagine avviata dalle Nazione Unite che ha portato alla redazione del Rapporto Goldstone le cui raccomandazioni sono state approvate in seno all'Assemblea Generale con 114 voti a favore, 44 astenuti e 18 contrari, tra cui quello dell'Italia. Il Rapporto Goldstone ha, inoltre, definito crimini di guerra molti atti condotti dall'esercito isrealiano durante l'operazione "Piombo Fuso", in violazione del diritto umanitario internazionale e dalla la IV Convenzione di Ginevra. Si sottolinea che l'indagine avviata dalle Nazioni Unite e' ancora in corso e che, nel frattempo, il Governo israeliano ha ammesso l'utilizzo del fosforo bianco e, implicitamente, la distruzione ingiustificata di edifici civili ricompensando le Nazioni Unite con 10,5 milioni di dollari per i danni provocati alle strutture dell'UNRWA.
Le ONG italiane, quindi, si dissociano totalmente dalle posizioni del Presidente del Consiglio ed esprimono il loro sconcerto per la scelta di normalizzare i rapporti commerciali e di cooperazione con Israele, mentre sono in corso operazioni militari su Gaza, mentre continua l’assedio e l’impossibilità di assistenza umanitaria a oltre un milione e mezzo di persone, mentre continuano gli espropri e le demolizioni di case a Gerusalemme, mentre assistiamo a repressione ed arresti di padri di famiglia ed attivisti palestinesi che protestano, in modo pacifico, contro la confisca dei propri terreni agricoli per la costruzione del Muro, violando gli stessi principi e norme di diritto alla vita ed alla libertà, alla base della nostra Costituzione e dell’ordinamento internazionale che regola le relazioni tra individui e tra stati.
Le ong italiane, confermando il loro impegno per il raggiungimento di una pace giusta, condizione indispensabile per la sicurezza e per l’integrazione dello stesso stato d’Israele nella regione;
chiedono una mobilitazione della società civile italiana ed una maggiore attenzione alla questione medio orientale da parte della nostra collettività;
chiedono, infine, che la comunità internazionale agisca con urgenza per il pieno riconoscimento dei diritti del Popolo palestinese sanciti dal diritto internazionale e, dalle numerose Risoluzioni delle Nazioni Unite approvate dal 1948 ad oggi.

IL RE DELL'ACQUA CALDA

Il Re dell’acqua calda DI MONI OVADIA

Il cavalier Silvio banana è il più grande scopritore dell’acqua calda della storia patria. Ne ha dato prova con la sortita riscaldata dell’allargamento dei confini Ue allo Stato d’Israele. L’idea era già stata espressa con ben altro pathos da Marco Pannella. Ma per i fans del principe di Arcore sarà sicuramente l’Uovo di Colombo. Il più grande politico italiano degli ultimi 150 anni poi, per confermare l’originilità del proprio sguardo, non ha visto il muro eretto dagli ultimi governi israeliani per chiudere i palestinesi della Cisgiordania in una prigione a cielo aperto con la motivazione della sicurezza. Motivazione seria in sé, se non fosse che il muro non divide israeliani da palestinesi sul confine sancito da ben due risoluzioni dell’Onu approvate all’unanumità dal Consiglio di Sicurezza, ma separa palestinesi da palestinesi per sfiancarne l’identità al fine di convincerli ad accettare la soluzione: «Un solo stato, quello d’Israele e qualche bantustan, palestinese, intervallato da pie colonie». Del resto perché il Banana avrebbe dovuto accorgersi di quel famigerato muro visto che non vede i palestinesi. Non li vede perché ha recitato lo stantio e rituale ruolo del super amico di Israele, al punto di avere approvato l’azione «piombo fuso» senza riserve, malgrado inchieste autorevoli accusino l’esercito israeliano di avere commesso crimini contro civili inermi e malgrado l’evidenza dell’uso di bombe al fosforo bianco contro strutture delle Nazioni Unite. Ma a Silvio che gliene cale, per i palestinesi ha qualche mancia. Il governo israeliano dal canto suo è in brodo di giuggiole per il migliore amico di Israele, che poi il suo governo vari leggi di stampo nazista contro i clandestini, che discrimini e perseguiti i rom, che faccia alleanze con i neo nazisti poco importa. Che diamine non si pretenderà mica di sostenere che i perseguitati sono tutti uguali?
06 febbraio 2010

sabato 6 febbraio 2010

bERLUSCA NON HA VISTO IL MURO

ITALIA-ISRAELE (1) – Berlusconi non ha visto il muro
04-02-2010

di Raniero La Valle

Con mezzo governo Berlusconi è andato in Israele per fare affari e per promettere che non ne farà più col nemico iraniano. Diligentemente è andato a visitare il museo della Shoah, scrivendo un’apposita frase che attesta il suo orrore per quella ignominia. Poi dall’hotel King David dove con il suo seguito occupava una “suite regale” con altre 170 stanze e vestiva un accappatoio bianco con su scritto a lettere d’oro “Silvio Berlusconi”, si è spostato alla Knesset per dire che Israele è la migliore democrazia del mondo e che bene ha fatto a punire i palestinesi con l’operazione “Piombo fuso” e con il massacro di Gaza, nonostante la condanna ufficiale dell’ONU da cui l’Italia del resto già si era dissociata votando contro di essa.

Tutto questo il nostro presidente del Consiglio ha fatto nel giorno in cui a Roma alla Camera faceva votare dai suoi devoti la legge-beffa che, unica nelle democrazie dell’Occidente, sancisce la legittima latitanza sua e dei suoi ministri dalle aule giudiziarie nelle quali fossero processati anche per i più gravi reati; una legge così ingegnosa (si raffina con il ripetuto esercizio l’arte di Ghedini) che questa latitanza non ha nemmeno bisogno di essere consumata all’estero, come almeno fece Craxi, ma può essere meramente figurativa e vissuta allegramente in Italia.

Nello stesso giorno Berlusconi si trasferiva nei Territori occupati per una doverosa visita all’infelice Abu Mazen. Per passare da Israele nei Territori bisogna imbattersi nel Muro che sigilla i palestinesi nel loro “apartheid” e sfregia la Terra santa e la stessa Gerusalemme. Ma ai giornalisti che gliene chiedevano le impressioni lo statista ha detto di non averlo veduto, occupato com’era a riordinare le idee per l’incontro con l’Autorità palestinese. Ma non si può avere alcuna idea da scambiare con i palestinesi, se non si vede il Muro, che è come la trave ficcata nel loro occhio. Non vedere il Muro che è la più imponente opera edilizia della regione, è come andare in Egitto e non vedere le piramidi, è come essere andati nella Germania divisa e non aver visto il Muro di Berlino, è come essere andati ad Auschwitz senza aver visto il cancello con la scritta sul “lavoro che libera”.

Non vedere il Muro che uccide la Palestina e ghettizza Israele è come non vedere gli operai licenziati di Termini Imerese che salgono sui tetti, o quelli dell’Alcoa, o i disoccupati e i cassintegrati che assediano palazzo Chigi, per proteggere il quale il centro di Roma si è trasformato in un bivacco della polizia.

Non vedere il muro che da Nazaret impedisce di andare a Betlemme, e da Gerusalemme blocca la strada per Emmaus, è come non vedere che c’è la crisi economica che si abbatte su milioni di famiglie, e dire che tutto va bene, basta dare qualche condono ai ricchi che evadendo le tasse hanno messo le mani in tasca agli italiani poveri.

Non vedere il Muro che modernizza la Terra promessa è come non vedere altri monumenti della modernità: lo Stato di Diritto, il Cesare Beccaria dei delitti e delle pene, la divisione dei poteri, la funzione della magistratura, l’universalità della legge penale, l’eguaglianza di tutti davanti alla legge.

Non vedere il Muro oltre il quale è ricacciato l’intero mondo arabo e islamico vuol dire rovesciare la politica estera italiana che ha intessuto legami e gettato ponti in tutto il Medio Oriente; significa distruggere l’immagine dell’Italia che per decenni ha compiuto il miracolo di praticare l’amicizia con Israele senza rompere la solidarietà con i palestinesi; significa ignorare che il Parlamento italiano votò a suo tempo per l’ingresso non del solo Israele, come oggi vorrebbe Berlusconi, ma dei due Stati della Palestina e di Israele nella Comunità europea, intesa non come una fortezza per lo scontro con gli arabi, ma come uno spazio in cui le frontiere si abbassano e Israele e Palestina potessero vivere insieme come Stati indipendenti e sovrani, non confusi ma non divisi nel godimento dello stesso territorio.

Non vedere il Muro che umilia i palestinesi vuol dire andare da loro a promettere non la libertà, ma un po’ di soldi di un ipotetico “piano Marshall” per un impossibile “benessere”.

Il primo ministro Netanyau ha detto che Israele non ha un altro amico pari a Berlusconi in tutta la comunità internazionale. Povero Israele. Se amico di Israele è chi non vede il Muro, allora vuol dire che Israele vive nella irrealtà, in un mondo che non è quello vero, in un mondo dove non c’è nessun altro che lui, un mondo che esiste solo nel sogno di chi è senza ragione. Questo sogno è molto pericoloso. Se ne può morire. E quello di far entrare il solo Israele nella Unione europea, per meglio combattere tutti insieme l’Islam, non è un sogno, è un incubo.

Raniero La Valle

INTERVISTA CENSURATA

* INTERVISTA CENSURATA DI UN UFFICIALE
Piombo fuso, «sapevamo di colpire i civili della Striscia»
Un ufficiale di alto grado dell'esercito israeliano ha ammesso per la prima volta che durante l'operazione «Piombo fuso» a Gaza i militari riscrissero le regole dell'ingaggio dando maggiore protezione ai loro soldati anziché ai civili palestinesi. In un'intervista rilasciata cinque mesi fa al quotidiano israeliano Yedhiot Ahronot - non ancora pubblicata, ma visionata dal britannico The Independent - l'ufficiale ha dichiarato che la regola secondo cui si colpisce un nemico soltanto se è armato e intenzionato a combattere, non poteva essere applicato a «Piombo Fuso», di cui lui era stato uno dei comandanti. Le dichiarazioni dell'ufficiale, sottolinea l'Independent, serviranno ad aumentare le pressioni sul premier israeliano Benyamin Netanyahu, affinché avvii un'inchiesta indipendente sulla guerra a Gaza, come raccomandato dallo stesso rapporto Goldstone. Secondo Michael Sfard, avvocato israeliano impegnato nella difesa dei diritti umani, le rivelazioni fatte dal comandante se accurate, rappresentano una «prova finale» del comportamento illecito dell'esercito.

C'era il muro a betlemme?

* APERTURA | di Michele Giorgio - INVIATO A BETLEMME
Il muro? Non l'ho visto
Berlusconi: «Giusta la reazione di Israele contro Gaza». Poi incontra Abu Mazen a Betlemme ma non si accorge della barriera dell'apartheid. La palestinese Hanan Ashrawi: scandaloso, prenda ripetizioni di storia
I galloni di alleato più fedele di Israele Silvio Berlusconi non se li è guadagnati ieri mattina alla Knesset, dove ha attaccato il rapporto del giudice dell'Onu Richard Goldstone che ha indagato sulla devastante offensiva israeliana «Piombo fuso» di un anno fa a Gaza in cui sono stati uccisi 1.400 palestinesi, tra i quali centinaia di civili. Non se li è guadagnati accusando la conferenza internazionale «Durban II» di voler «sanzionare Israele con intollerabili accuse di razzismo e di violenza». Quei gradi Berlusconi li ha ottenuti ieri pomeriggio a Betlemme quando, con la bandierina di Israele appuntata sul bavero della giacca, ha penosamente affermato di non aver visto il muro di cemento armato costruito dalle forze armate israeliane intorno alla città palestinese.
«Mi spiace deluderla, ma non me ne sono accorto» ha detto il presidente del consiglio rispondendo a un giornalista che, durante la conferenza stampa congiunta con il presidente dell'Anp Abu Mazen, gli ha chiesto che impressione avesse avuto vedendo e attraversando il muro di cemento mentre andava in auto da Gerusalemme a Betlemme. «Non me ne sono accorto - ha affermato - stavo rimettendo a posto le mie idee, prendendo appunti sulle cose che avrei dovuto dire al presidente incontrandolo». Vergognoso, senza pudore. Berlusconi in fondo avrebbe potuto ripetere le frasi insipide e banali che altri capi di stato e di governo, alleati di ferro di Israele, pronunciano quando fanno riferimento alla barriera di cemento armato in Cisgiordania. Frasi del tipo: «È una misura di sicurezza contro gli attentati, speriamo possa essere rimossa quando si farà la pace nella regione». Invece il capo del governo ha voluto superare tutti anche in questa occasione con dichiarazioni prive di senso. Se gli altri il muro lo giustificano, lui addirittura non lo vede. Neppure il più accanito estremista di destra israeliana ha pronunciato parole tanto gravi sul muro. «È inconcepibile, non riesco a crederci - ha commentato Hanan Ashrawi, una delle personalità palestinesi più note - chi finge di non vedere la realtà, allora non vuole capire cosa sta accadendo in questa terra, non vuole partecipare alla ricerca di una soluzione per questo conflitto. Berlusconi deve andare a lezione di storia, politica e geografia».
Per i palestinesi è un momento davvero difficile, forse il più complesso della loro tormentata storia, dai tempi della Nakba nel 1948. E non solo per l'atteggiamento di coloro, come Silvio Berlusconi, che nel mondo lavorano per negare i loro diritti sanciti dalle risoluzioni internazionali, ma anche per l'assenza di una leadership palestinese in grado di reagire a ciò che accade con dignità, intelligenza e senso strategico. Ieri pesava come un macigno il silenzio di Abu Mazen e del premier Salam Fayyad mentre il primo ministro italiano affermava di «non aver visto il muro» entrando a Betlemme. Sono rimasti muti, immobili. Come se avessero un bavaglio e un cappello in mano per raccogliere il «generoso contributo dell'Italia per il popolo palestinese», che, in realtà è un sostegno finanziario all'Anp affinché non crolli e continui a fare la sua parte nel «mantenimento della legge e dell'ordine» e nella «lotta al terrorismo» in Cisgiordania. Entrambi hanno ascoltato con vivo interesse il disco rotto del «piano Marshall» che Berlusconi mette sul piatto dal 1994 e che, a suo dire, dovrebbe «favorire lo sviluppo e il progresso economico della Terra Santa» e a dare «un'ulteriore spinta per far ripartire i negoziati di pace».
A Betlemme in ogni caso Berlusconi è arrivato come «messaggero» del premier israeliano Netanyahu. Se prima del suo arrivo a Gerusalemme il Cavaliere aveva chiesto a Israele di fermare la colonizzazione, ieri ha detto di aver rivolto un appello «che viene dal cuore», al presidente Abbas (Abu Mazen) affinché torni al tavolo del negoziato», quindi senza porre la condizione di uno stop totale all'espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Non solo, ma dopo aver definito alla Knesset i massacri di un anno fa a Gaza una «giusta reazione d'Israele al terrorismo», ha espresso l'auspicio che i palestinesi «mettano per sempre da parte la cultura della violenza». Come se la violenza venisse solo dal popolo schiacciato dall'occupazione e da da decenni chiede di essere libero. Ha concesso soltanto che «come è giusto piangere le vittime della Shoah, è giusto manifestare dolore per quanto accaduto a Gaza», un anno fa.
Berlusconi ha chiuso in serata la sua visita ufficiale in Israele di tre giorni ed è ripartito per l'Italia, certo di aver conquistato definitivamente gli israeliani con la sua «carpet-diplomacy»: lui, steso come un tappetino, pronto a fare di tutto, senza fiatare, senza mai opporre la più piccola critica, pur di soddisfare tutte le politiche dell'alleato israeliano. Ben 12 applausi hanno sottolineato la sua descrizione di Israele quale «esempio unico di democrazia in Medio Oriente», i suoi appelli alla lotta all'antisemitismo misti ad attacchi al programma nucleare iraniano, le sue espressioni di amicizia «franca, aperta e reciproca» che «non è solo vicinanza verbale, non è solo diplomazia, è un moto dell'anima e viene dal cuore». I leader israeliani lo hanno omaggiato, ringraziato in ogni modo. Netanyahu ha anche esaltato la madre del primo ministro italiano, la signora Rosa Bossi, definendola un'eroina che salvò una ragazza ebrea da un ufficiale tedesco che la stava arrestando. Il capo dello stato israeliano Shimon Peres ha definito Berlusconi «il leader più solare fra tutti quelli che ho conosciuto». Il Cavaliere lo ha ricambiato, non mancando durante il pranzo di gala nella residenza del presidente di raccontare le sue barzellette che non fanno ridere.

Israele

Ministero degli interni e sindacato israeliano (Histadrut) hanno prelevato più di 8 milioni di shekel (qualcosa come 1 milione 600.000 euro) dai lavoratori palestinesi per contributi a un welfare da cui non avrebbero ricevuto benefici, e a un sindacato a cui non erano/sono ammessi (!)

http://www.alternativenews.org/english/2422-israel-owes-over-nis-83-billion-to-palestinian-workers-from-the-occupied-palestinian-territories.html

Da Amira Hass: Israele ricostruisce una base militare in Cisgiordania

Progressiva fascistizzazione: L'attacco contro il "New Israel Fund" (che aveva sottoscritto per l'associazione per i diritti umani "B'tselem" era stato intrapreso da un'organizzazione molto a destra, ora è stata assunta in proprio dalla knesset.

Medico in servizio durante l'attacco A Gaza, ora va a curare i feriti di Haiti!

“Grilletto facile sull'interruttore della luce"

“Grilletto facile sull’interruttore della luce.”

Che cosa c’è che possa assomigliare di più al trascorrere almeno di un terzo, se non dell’intera giornata, senza elettricità? Un milione e mezzo di persone stanno vivendo in questo modo da oltre una settimana in quello che si presenta proprio come l’ultimo capitolo della crisi di elettricità in atto nella Striscia di Gaza. Se c’è un elemento in comune che persiste dappertutto in questa saga, questo è il senso imposto e perpetuo del “vivere ai bordi”..

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In novembre, l’Unione Europea, che finanzia i motori diesel necessari per far funzionare solo la centrale elettrica di Gaza. ha dato l’annuncio, in una decisione congiunta con L’Autorità Palestinese (PA), che avrebbe cessato il suo finanziamento del valore di 97 milioni di Euro all’anno, da attribuirsi in parte alla crisi economica globale. Nonostante il fatto che l’avviso sulle sue intenzioni è stato dato con mesi di anticipo, non è stato fatto alcun tentativo alternativo di accordo, sebbene alcuni stati europei avessero espresso la volontà di fornire finanziamenti all’Autorità Palestinese per coprire il costo del diesel.

Nel frattempo, la centrale elettrica di Gaza è stata costretta a limitarsi ad una produzione di appena 30 mega Watt, quasi un terzo della sua capacità potenziale di produzione (80 mega Watt).

Secondo le informazioni dei media, un altro fattore, che è una decisione che intralcia la questione del finanziamento, è rappresentato dal conflitto fratricida palestinese e dalla richiesta dell’Autorità Palestinese che Hamas contribuisca alle spese o raccolga denaro dai consumatori. L’Autorità Palestinese ha effettivamente invitato Hamas che non è stato precedentemente coinvolto nella produzione di elettricità a Gaza, per giocare un ruolo attivo nell’approvvigionamento e nel finanziamento della fornitura di un diesel industriale per la centrale elettrica di Gaza.

Questa settimana, la centrale elettrica ha accresciuto la produzione a 60 megawatt dopo aver ricevuto scorte aggiuntive di petrolio, ma non è chiaro se deve essere ricercata una soluzione.

Difatti, sembra che tutti gli attori di questo dramma stanno sfruttando una necessità tanto essenziale ed ovvia come l’elettricità al fine di promuovere i loro obiettivi politici. Nonostante il fatto che la centrale elettrica sia evidentemente una infrastruttura civile vitale, malgrado il fatto che essa sia una proprietà decisamente privata, e nonostante il fatto che il diesel industriale venga utilizzato usualmente per mettere in funzione le turbine della stazione, nel 2006 Israele decise di bombardare la stazione, infliggendo dei danni che devono ancora essere riparati completamente. Oltre a tutto, fin dal 2007, Israele ha limitato il trasferimento nella Striscia di Gaza di diesel industriali fino a un “minimo” che si posiziona a 2,2 milioni di litri per settimana, malgrado il fatto che in realtà vengono richiesti 3,5 milioni di litri per l’attuale produzione massima della centrale elettrica.

La politica israeliana di “riduzione al minimo” sta a significare che la centrale elettrica non ha la capacità di accumulare scorte di diesel industriale da approntare per i momenti di interruzione dell’approvvigionamento. Così, quando le scorte sono sospese, questa volta a causa dei problemi di finanziamento e al conflitto all’interno della dirigenza palestinese, 1,5 milioni di persone devono imparare a vivere in assenza della corrente elettrica per 8 ore o più al giorno.

Gaza senza luce

Pax Christi comunicato stampa

Firenze, 4 febbraio 2010

Comunicato stampa
del coordinatore nazionale di Pax Christi
a seguito delle dichiarazioni rilasciate
dal presidente del consiglio Silvio Berlusconi
nel corso della visita ufficiale in Israele
Liquidazione totale



Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha attuato ieri una liquidazione totale delle speranze di pace in Terra Santa. Una pesantissima banalizzazione del processo di pace e un'irrisione delle Nazioni Unite che rischiano di trascinare l'Italia fuori dal consesso dei Paesi e delle Istituzioni internazionali che tessono da anni il faticoso cammino della pace.

Affermando che è stato giusto il massacro su Gaza, ha liquidato il lavoro prezioso e oggettivo svolto dalle Nazioni Unite nel monitorare un inaudito massacro di civili, la distruzione di migliaia di case, scuole, ospedali attraverso l'uso di armi illegali. Possiamo ancora ritenerci parte degli organismi internazionali, in primis dell'Onu?

Asserendo di 'non aver visto' il Muro dell'apartheid che circonda Betlemme, ha vergognosamente liquidato il pronunciamento fatto nel 2004 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite che ne ha condannato la costruzione evidenziandone le terribili conseguenze umanitarie. Può il Presidente del Consiglio arrivare a un livello così insopportabile di irresponsabilità?

Definendo più volte Israele come “Stato ebraico, libero e democratico”, ha liquidato quel milione e duecentomila cittadini dello Stato d'Israele, che ebrei non sono, e che vedono ogni giorno calpestati i loro diritti. Come proclamarsi insistentemente “amici di Israele” quando non lo si esorta ad essere veramente uno stato democratico?

Identificando come antisemita chiunque si opponga alla politica di occupazione, di umiliazione e di disprezzo di qualsiasi Risoluzione Onu da parte dello Stato d'Israele, ha liquidato e denigrato le sofferenze patite da migliaia e migliaia di palestinesi, in spregio a quanti, israeliani, palestinesi, uomini e donne di ogni Paese, si battono insieme alla ricerca di una pace giusta, fondata sul rispetto delle leggi internazionali.

Davvero non ci possono essere i saldi della pace.

Non si può raggiungere la meta della riconciliazione tra i popoli svendendo sul mercato una “pace economica”, la “pace del benessere”.


Don Nandino Capovilla

Coordinatore Nazionale di Pax Christi

per contatti chiamare il 3473176588

Amici Mezzaluna Rossa Palestinese

IL GOVERNO ITALIANO NON PARLA IN NOSTRO NOME
Indignati e disgustati per la prova di cinismo e di disprezzo verso il popolo palestinese, di dichiarato appoggio e complicità con i crimini commessi e con quelli programmati da Israele,
diciamo a Frattini, a Berlusconi e a quanti si facciano alleati dell’olocausto palestinese,
che non ci rappresentano.
Non ci rappresentano neanche le false lacrime sul massacro di Gaza, se non sono accompagnate dalla condanna verso l’esercito che lo ha commesso e verso il governo che lo ha ordinato.
Sarebbe come piangere sull’olocausto ebraico senza condannare il nazismo.

Siamo indignati come cittadini italiani, come democratici che sentono offendere la democrazia, come esseri umani che vedono nell’umiliazione dei diritti di altri esseri umani il perpetuarsi della violenza e dell’ingiustizia.
PROVIAMO VERGOGNA PER LE PAROLE DI BERLUSCONI, UOMO DISTRATTO CHE NON VEDE IL MURO DELLA VERGOGNA, CHE INSULTA CON LE SUE PAROLE OGNI UOMO CHE SI BATTE PER LA DIFESA DELLA GIUSTIZIA E DEI DIRITTI UMANI.


Associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese

Berlusconi in Israele

Alla cortese attenzione del Ministro Frattini:

SCRIVO PER ESPRIMERE LA MIA PIU’ TOTALE INDIGNAZIONE VERSO IL DISCORSO PRONUNCIATO DA BERLUSCONI ALLA KNESSET:

NON MI SENTO ASSOLUTAMENTE RAPPRESENTATA DA UN PRESIDENTE DEL CONSIGLIO CHE A NOME DEGLI ITALIANI AFFERMA CHE LA CRIMINALE OPERAZIONE “ PIOMBO FUSO “ DEL DICEMBRE / GENNAIO 2008/2009 E’ STATA UN GIUSTO ATTO DI DIFESA CONTRO I RAZZI PARTITI DA GAZA !

NON IN NOME MIO!

Invito Berlusconi e Frattini a visitare la mostra del memoriale dei morti di Gaza che abbiamo allestito a Varese: nulla può giustificare l’omicidio criminale e volontario di civili e in particolare di bambini anche nati da pochi minuti . Ancor più criminale la volontà di fare del male con premeditazione e utilizzando armi non convenzionali, ferendo, con l’intento di straziare per tutta la vita, dei piccoli e dei giovani, sapendo che è pressoché impossibile prestare loro cure adeguate per il futuro per far fronte alle loro mutilazioni sia fisiche che morali!!

Io ci sono stata, ho visto con miei occhi e la mia professionalità di medico quello che era Gaza 40 giorni dopo la fine del bombardamento, e non riesco a capire , non ammetto che uno Stato che si dice fondato sulla Shoa ( per la quale ho pianto molto ) si macchi di crimini ancor più efferati.

IO RESTO UMANA E CON ME MOLTI CITTADINI ITALIANI : BERLUSCONI E FRATTINI SI METTANO UNA MANO SULLA COSCIENZA IN NOME PROPRIO DI QUELLA MEMORIA, CHE INVOCHIAMO E PER LA QUALE ABBIAMO ELETTO UN GIORNO APPOSTA, CHE DEVE SERVIRE NON A PIANGERE IL PASSATO E BASTA , MA A FAR SI’ CHE NON SI RIPETANO PIU’ CRIMINI SIMILI .

MI VERGOGNO DEL NOSTRO PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E DEL SUO GOVERNO.

E cosa dire della sprezzante e irridente risposta data al giornalista che gli chiedeva che effetto gli avesse fatto la vista del “MURO“?
Come può un presidente del consiglio, anche solo per rispetto alla realtà dei fatti rispondere che non può dire nulla perché era distratto e non ha visto il muro????????????
Me si rende conto questa persona che governa uno stato che non è ammessa ignoranza di fronte a fatti che sono alla base di situazioni esplosive, come quella mediorientale, e che nessuno crede neppure per un momento che non abbia visto nulla, ma che c’è una arroganza ed una falsità premeditate e diaboliche nel dichiarare che il problema non esiste?


MAI IN MIO NOME
Fiorella Gazzetta

giovedì 4 febbraio 2010

UNA VICENDA KAFKIANA

Sposa in chiesa una- non ebrea -e perde la cittadinanza israeliana


23/11/2009 - 11:39

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UNa vicenda kafkiana mette sotto accusa la burocrazia di Gerusalemme
morte civile in Israele si sposa in chiesa con una non ebrea e perde la cittadinanza




------------------------- PUBBLICATO ------------------------------ Una vicenda kafkiana mette sotto accusa la burocrazia di Gerusalemme TITOLO: Morte civile in Israele Si sposa in chiesa con una non ebrea e perde la cittadinanza - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME . Un incubo, una maledetta storia dai contorni kafkiani da cui ci si vorrebbe svegliare come se nulla fosse avvenuto. Non e' possibile trovare altra descrizione per la battaglia condotta dal cittadino Chaim Ze' evi, "un tranquillo quarantaduenne che fa l' elettricista ad Eilat", come lui stesso si definisce, contro i regolamenti dello Stato israeliano in materia di matrimoni e religione. Poco piu' di un anno fa Chaim parte per una lunga vacanza negli Stati Uniti. Nel Missouri conosce Coleen Latimore, un' americana di 54 anni, e 8 mesi or sono decide di prenderla in moglie. Sin qui apparentemente nulla di male, ogni anno decine di israeliani si sposano all' estero. Ma in questo matrimonio ci sono almeno due ombre che non piacciono ai burocrati del ministero degli Interni: Coleen non e' ebrea e, soprattutto, i due commettono l' "errore" di farsi sposare nella biblioteca di una chiesa da un amico prete, che nel Missouri ha anche la facolta' di celebrare il rito civile. Chaim torna in Israele per registrare il matrimonio e richiedere la cittadinanza per la moglie (che per legge va concessa automaticamente a ogni coniuge di cittadino israeliano). Ma a quel punto il mondo gli crolla addosso. "Lei sposandosi in chiesa non e' piu' riconosciuto come ebreo dallo Stato", gli dice un alto funzionario del ministero degli Interni sequestrando la sua carta di identita' . Di colpo Chaim per la legge diventa contemporaneamente apostata e apolide. "Io non sono mai stato un estremista. Faccio il mio lavoro senza impicciarmi dei fatti altrui. Ma sono contrario a un sistema che decide la mia religione e rifiuta mia moglie. Mi fanno ridere quelli che non vogliono riconoscere la mia cittadinanza. E dove li mettiamo allora i tre anni di servizio militare e i 24 come riservista nelle unita' combattenti?", dichiara esasperato allo Haaretz. Anche per gli esperti si tratta di una decisione che non ha alcuna giustificazione legale, specie se si ricorda che negli ultimi anni decine di migliaia di russi non ebrei sono stati accolti in Israele grazie al solo certificato di matrimonio con un ebreo, spesso neppure riconosciuto come valido dal rabbinato di Gerusalemme. "Una persecuzione assurda. Anche se Chaim si fosse veramente convertito, cosa che non e' avvenuta poiche' lui continua a considerarsi pienamente ebreo, nessuno avrebbe avuto il diritto di togliergli la cittadinanza", sostiene Yael Gilboa, portavoce dell' Associazione per la difesa dei diritti civili. La vicenda sottolinea ancora una volta il grave problema dei matrimoni misti e le gravi limitazioni imposte alla liberta' della persona dalla legislazione israeliana, che in questo campo resta totalmente sottomessa alle regole religiose dettate dal rabbinato. Un mese fa fece scalpore la denuncia pubblica di Ze' ev Chafets, ex portavoce del governo ai tempi di Begin, che sposatosi con una "Shiksa" (come in gergo yiddish vengono spregiativamente chiamate le non ebree) scopriva la "scomoda" necessita' di effettuare la cerimonia all' estero poiche' qui non sono ammessi matrimoni misti. "Mi preoccupo per il futuro di mio figlio, che sara' considerato come cittadino di serie "B", scrisse Chafets. "Israele si vanta di essere l' unica democrazia del Medio Oriente. Ma per tutto cio' che concerne lo status personale e' una teocrazia".

Cremonesi Lorenzo
israele, ISRAELE XENOFOBIA, laicità, LAICITà ISRAELE

mercoledì 3 febbraio 2010

A SOSTEGNO DI GOLDSTONE

Appello ebraico al Consiglio di Sicurezza in sostegno del report di Goldstone
Mercoledì 03 Febbraio 2010 11:22 EJJP
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Il 27 dicembre 2008, Israele ha invaso la Striscia di Gaza, già bloccata e alla fame. L'operazione Piombo Fuso, terminata il 18 gennaio 2009, ha causato distruzioni massive ed un massacro di 1.400 persone, 313 dei quali bambini e ragazzi.

In seguito, giustamente, il Consiglio dei Diritti Umani dell'ONU ha incaricato il giudice Richard Goldstone di determinare se erano stati compiuti crimini di guerra e crimini contro l'umanità durante l'intervento israeliano. Il giudice Goldstone e la sua commissione hanno concluso che erano realmente stati compiuti crimini di guerra, e che è pure possibile che siano stati compiuti crimini contro l'umanità.

Dopo che la pubblicazione del report, Israele e I suoi potenti sostenitori, facendo mostra di parlare a nome dell'intera popolazione ebraica, hanno lanciato una campagna per la condannarlo, cambiare le norme di guerra e diffamare il giudice Goldstone, ebreo orgoglioso di esserlo e sionista convinto.

Esprimiamo il nostro elogio per l'onestà, la coscienziosità e il coraggio della Commissione Goldstone, e condanniamo il tentativo israeliano di etichettare il report, e Goldstone medesimo, come antisemiti.

Riteniamo nostro dovere morale, in quanto ebrei, chiedere che Israele sia chiamato a render conto dell'operazione a Gaza e di come sono trattati gli abitanti della Striscia. Il blocco di Gaza è illegale. Le organizzazioni ebraiche europee che fanno parte di EJJP, incontrandosi in un convegno a Parigi, dichiarano di sostenere il report di Godlstone. Chiediamo che siano implementate le sue raccomandazioni e che il Consiglio di Sicurezza dell'ONU agisca in base a queste. Mentre Israele ripete le minacce di invadere la Striscia, chiediamo agli ebrei e alle organizzazioni ebraiche di tutto il mondo di unirsi a noi e di respingere la spietata punizione collettiva degli abitanti di Gaza. Chiediamo che sia applicata la legge internazionale e che si ponga termine all'assedio.





Convegno di European Jews for a Just Peace (EJJP), Parigi, 31 gennaio 2010

LA BAMBOLA PALESTINESE

Memoria 3 / La bambola palestinese
27-01-2010 di Ippolito Mauri

Ormai Ruba ha quarant’anni. Insegna in un’università a pochi chilometri da Cambridge. Non è un esilio. Come capita ad intellettuali italiani “vagabondi”, ha trovato una cattedra nel regno di sua maestà. L’incubo delle cittadinanze l’ha inconsapevolmente tormentata quando non aveva l’età per decifrare il groviglio che amareggiava i genitori apolidi alla deriva in Europa assieme a migliaia e migliaia di palestinesi aggrappati alla sola patria possibile: lo 00 della teleselezione. Famiglia borghese agiata fino al 1948. Il nonno abitava a Jaffa, dirimpetto mare. Coltivava pompelmi, arance, verdure. Nel ricordo dei genitori di Ruba, “giardini” come in Sicilia. Ma era una grande proprietà, folla di braccianti. Verdure che arrivano in Arabia Saudita; pompelmi per i mercati di Istanbul. Nella Palestina di sessant’anni fa gli uomini d’affari pensavano solo gli affari che riunivano ebrei e palestinesi nel bilancio dei guadagni. Quando Ben Gurion si affaccia al balcone per annunciare la nascita dello stato di Israele, il nonno di Ruba non è sorpreso e nemmeno turbato. “Aspettiamo che le acque si calmino. Possiamo andare avanti tranquilli”. Ma a Jaffa scoppia il finimondo. Gli uomini dell’haganah (esercito clandestino dei padri del sionismo) e i miliziani arabi che non accettano la divisione, si affrontano armi in mano. Gli altoparlanti dell’haganh tranquillizzano. Grandi potenze e Nazioni Unite hanno diviso il protettorato britannico in due stati separati ma la vita continuerà come sempre. Un capitano bussa alla porta del nonno di Ruba. Gli parla con rispetto; gentile col padrone importante. Sappiano di una sua proprietà a ridosso del confine del nostro nuovo paese. Solo una linea burocratica, nessun problema. Vada un po’ in campagna, può tornare appena torna la tranquillità. Dopo quattro mesi il nonno di Ruba capisce di aver perso tutto. Gli è proibito tornare a Jaffa e la casa di campagna ed le ultime terre rimaste si affacciano sulla linea di divisione. Ogni notte spari da una parte e dall’altra. Nessun guardiano vuol restare quando tramonta il sole. Addio pompelmi, il lavoro muore. È un imprenditore pratico, ricomincia in un altro posto. Ha messo via soldi nei paesi dove esorta. Compra nuove terre attorno a Nablus, costruisce un’altra casa, pianta pompelmi, coltiva verdure, si indebita con le banche. E torna sui mercati. Ruba non è ancora nata. Salua, figlia del nonno, si laurea a Damasco con una tesi su Kafka. Nessun velo avvolge i capelli che restano “al vento”. Sposa un ragazzo che studia medicina a Vienna. E lo segue: i soldi arrivano da casa. Ma nel ’67 i soldi non arrivano più. Il tedesco dolce della radio austriaca fa sapere che è scoppiata un’altra guerra: il blitz 1967. La corsa di Dayan, l’Egitto che perde il canale di Suez, re Hussein si ritira di là dal Giordano. Un’altra volta gli israeliani bussano alla porta del commerciante palestinese. Impongono leggi nuove. Contano le persone di famiglia. Chi è fuori resta fuori. Dei nove figli, cinque non possono tornare. Ruba nasce qualche anno dopo nella Vienna degli apolidi.

Con la Palestina riunificata nei confini che le Nazioni Unite definiscono “territori occupati”, il nonno prende la corriera per Jaffa. Suona alla porta della vecchia casa. Ha voglia di rivederla. Apre una signora polacca. Vuol sapere “ma lei chi è?”. Il vecchio non capisce e non ha tempo per farsi capire. Si guarda attorno. I mobili sono ancora i suoi mobili. C’è la poltrona dove il padre si addormentava nel riposo del pomeriggio. La signora polacca si spazientisce. Quell’arabo sulla porta che osserva ogni cosa come un ladro. cosa vuole. Continua a tacere. La nostalgia diventa insopportabile e se ne va. Ogni tanto chi si arrabbia a Nablus e alza la voce della protesta finisce in una prigione lontana L’accusa vaga è sempre la stessa: opposizione alla presenza israeliana con discorsi che rivelano intenzioni ostili. Il nonno ha il permesso di visitare un figlio dalla testa più calda, una volta al mese: resta in galera senza processo, senza condanna. Perché? Vuol sapere. Non lo sanno. Un giorno, dopo ore di corriera, burocrazia dell’identificazione, solite cose, gli comunicano che non può incontrare il suo ragazzo. Si è comportato male, è in punizione. Allora si arrabbia, furibondo per l’ultimo “inganno”. Alza il bastone. Un uomo curvo contro quattro giovanotti dalle maniche rimboccate. Finisce all’ospedale: esce un fantasma rassegnato. Muore qualche mese dopo: il tormento di aver perso tutto, anche i figli, gli ha rubato la voglia di vivere.

Intanto Salua, il marito e tre bambini hanno lasciato Vienna per l’Italia. Parenti, amici, diaspora palestinese che dà una mano. Trovano un lavoro a chi ha chiuso i libri della medicina per tirare avanti. Parla tre lingue con la scioltezza di chi ha tre patrie e ce la fa. Manda i ragazzi all’università ripetendo noiosamente “ricordate che il titolo di studio è la vostra nuova patria. Non ci è rimasto altro…”. E l’Italia diventa la sola patria possibile. Ruba è una bambina italiana quando Salua, ormai italiana, ha il permesso di tornare a Nablus per riabbracciare la madre dopo vent’anni. Passano dalla Giordania, attraversano il ponte di Allenby. All’aeroporto compra una bambola” straordinaria”: canta e ride. La bambola continua a cantare fino a quando un poliziotto israeliano apre le valige e fruga nelle borse, prassi normale ad ogni confine. Vede la bambola di Ruba e allunga la mano per prenderla. Ruba si aggrappa alla sua meraviglia: “è mia”. Il poliziotto usa anche l’altra mano. Sotto gli occhi terrorizzati della bambina tira fuori un coltello e comincia a squartarla “per scoprire cosa nasconde”. Trova la paglia dell’imbottitura, le pile, il nastro della canzone. Ruba impietrita. Lascia che i resti del giocattolo tanto amato finiscano nel bidone delle cose proibite: non li può portare di là dalla sbarra. Sfinita per il viaggio, ammutolita dal dolore, si ammala. Il febbrone dei bambini, ma non passa e il permesso della madre scade. Un medico testimonia la malattia. La legge è legge, risponde dispiaciuto il dottore israeliano. Trovano un compromesso: Salua e la bambina possono restare nella loro casa, ma devono pagare la multa prevista dal regolamento: cento dollari al giorno. E Salua si arrabbia. Copre Ruba “come un orso”, attraversano Allenby per cercare rifugio nella casa di una cugina di Amman. Ruba ricorda e ancora si commuove

lunedì 1 febbraio 2010

Come si costruisce una riserva indiana

In occidente dicono che piove
Lunedì 01 Febbraio 2010 11:05 Amira Hass
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Associazione di Amicizia Italo-Palestinese, 28 gennaio 2010

Haaretz.com

27.01.2010

Israele, tramite il Ministero degli Interni, continua a sputare in faccia ai paesi amici, e quei paesi continuano ad ammirare le gocce di pioggia che cadono. Lo sputo più recente del ministero è stata la cancellazione dei visti per lavoro che per anni avevano ottenuto i cittadini di quelle nazioni che erano impiegate nelle ONG internazionali.


Invece, ad essi sono stati concessi visti turistici che limitano la loro libertà di movimento e la loro attività. Queste persone di norma sono dipendenti di organizzazioni umanitarie che operano tra la popolazione palestinese della Striscia di Gaza e della West Bank, compresa Gerusalemme Est.

Nel compiere questo passo, Israele sta mostrando il suo disprezzo per le organizzazioni di aiuto umanitario, così come la sua ingratitudine, in quanto sono questi enti che, nei territori, spengono i fuochi accesi dalle politiche discriminatorie di Israele nei confronti dei palestinesi. Sono le fondazioni governative, pubbliche o private, provenienti da quei paesi amici, prevalentemente occidentali, che sistemano i guai prodotti dall’occupazione, in entrambi i casi, sia nel passato che nel presente.

Le donazioni all’Autorità Palestinese e alle ONG internazionali e palestinesi sono verosimilmente una testimonianza che il mondo esterno sostiene i palestinesi e le loro aspirazioni per l’indipendenza all’interno dei confini del 4 giugno 1967. Ma di fatto, essi sono la prova dell’inviolabilità virtuale di Israele. Nel 1993, il mondo non chiese che nel quadro di ciò che veniva chiamato processo di pace, Israele compensasse i palestinesi per i danni procurati dall’occupazione. I paesi amici lo fecero in prima persona, al posto di Israele.

E oggi, essi non esercitano una pressione reale su Israele perché ponga fine alle sue politiche che limitano lo sviluppo della West Bank; politiche che hanno creato disastri umanitari nella Striscia di Gaza ed a Gerusalemme Est. E’ più facile per i governi occidentali spendere miliardi di dollari tratti dal denaro dei loro contribuenti, piuttosto che far sì che Israele rispetti il diritto internazionale e le risoluzioni in modo che venga a diminuire la dipendenza palestinese dal sostegno finanziario.

L’abrogazione dei visti per lavoro è un’altra espressione del modo con cui Israele traccia unilateralmente i confini dell’entità palestinese che ha in progetto di definire come stato; senza i territori di Gerusalemme Est, naturalmente, dove i tentativi di diminuire la popolazione palestinese sono in atto, e senza la Striscia di Gaza. La barriera di separazione, profonda all’interno della West Bank, è già diventata parte del consenso apparentemente moderato israeliano al “confine occidentale”, ed ora è in atto una campagna per l’annessione ad Israele della maggior parte dell’Area C.

Il Ministero dell’Interno sta facendo la sua parte per determinare questi fatti sul terreno. Fa il possibile per ricordare che le sue limitazioni per i cittadini stranieri riguardano le persone la cui destinazione è rappresentata dalle “aree dell’Autorità Palestinese” – in altre parole, le Aree A e B, o il 40% della West Bank. Non è ammessa Gerusalemme, Gaza, pressoché esclusa l’Area C, dove in ogni modo il loro lavoro è limitato dal blocco notevole imposto allo sviluppo palestinese.

Secondo gli Accordi di Oslo, quando vengono menzionati da parte di cittadini stranieri il viaggio e il soggiorno, il riferimento geografico è rivolto alla West Bank e a Gaza. Ma il Ministero degli Interni fa una distinzione tra “i confini dell’Autorità Palestinese” ed i “confini di Israele”. I confini di Israele, intenzionalmente non chiari, vengono perciò definiti sulla base delle enclave dell’Autorità Palestinese. L’Autorità Palestinese non ha alcun diritto di decidere su chi entra nelle sue enclave attraverso i posti di attraversamento di confine internazionali, che sono controllati da Israele. Il Ministero degli Interni israeliano continua ad impedire l’ingresso di dozzine di cittadini stranieri che hanno rapporti di lavoro, familiari e di amicizia con la comunità palestinese.

“Israele ha il diritto sovrano di imporre limitazioni all’ingresso,” è come i diplomatici stranieri giustificano la mancanza di intervento dei loro governi. Cioè, con il loro lassismo e la generosità finanziaria, i paesi occidentali, in primo luogo gli Stati Uniti, stanno collaborando con il processo unilaterale israeliano finalizzato a conservare le enclave palestinesi.

Testo inglese in http://www.haaretz.com/hasen/spages/1145204.html - tradotto da Mariano Mingarelli



http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&task=view&id=1719&Itemid=27

Continue violazioniisraeliane della Convenzione di Ginevra e dei diritti umani

http://electronicintifada.net/v2/article11027.shtml



“Le famiglie di Gaza lottano per poter fare
visita ai loro parenti nelle carceri israeliane.”

di Rami Almeghari

Umm Faris Baroud del campo profughi di Shati nella parte occidentale di Gaza City, ogni lunedì si alza presto con la speranza che le sarà permesso di visitare suo figlio Faris, che sta scontando una condanna a vita in uno dei carceri di Israele.

Con le ginocchia malandate e la schiena curva, Umm Faris, con i suoi 88 anni, si era mossa lentamente quando era venuta a darci il benvenuto nella sua modesta casa.




“Nei due anni e mezzo trascorsi non ho avuto la possibilità di visitare Faris,” si è giustificata. “Ogni lunedì, all’ufficio del Comitato Internazionale della Croce Rossa [ICRC], partecipo alla protesta settimanale insieme a molte altre famiglie che comprendono madri, mogli e figli dei detenuti. Chiediamo un giusto diritto: quello di vedere i nostri amati figli.”

Sulla sua strada per l’ufficio della ICRC, situato a circa due chilometri dal campo profughi di Shati, Umm Faris viene raggiunta dalla sua vicina Umm Mahmoud al-Rayis, che è pure in attesa di vedere suo figlio Mahmoud, condannato anch’esso a vita.

Il rito settimanale ha inizio presto, ogni lunedì, quando dozzine di componenti delle famiglie dei 950 detenuti che provengono dalla Striscia di Gaza, cantano slogan, incontrano ufficiali dell’ICRC e mostrano solidarietà l’uno con l’altro.

“Prego Dio che mi faccia vedere Faris prima di morire. Ogni istante corro qui e chiedo alla Croce Rossa di aiutarmi, ma nessuno si prende cura di noi,” afferma Umm Faris mentre sta aspettando nella sala di attesa dell’ufficio della ICRC, dopo aver preso parte alla dimostrazione settimanale.

Umm Faris e molti altri parenti di detenuti stanno aspettando che appaia un barlume di speranza, che essi possano essere in grado di fare visita ai loro cari incarcerati nelle prigioni e nei campi di detenzione israeliani. Per più di due anni e mezzo, la ICRC è stata in comunicazione con Israele, ma non può più fornire ancora una speranza di quel tipo, in quanto Israele ha virtualmente proibito le visite di familiari nelle carceri situate fuori da Gaza dove sono trattenuti i prigionieri di Gaza. Per i parenti dei detenuti non c’è altro da fare se non protestare.

“Il programma delle visite familiari ha attraversato varie difficoltà fin dal 1995, ma era solito venire rinnovato regolarmente,” ha dichiarato Iyad Nasir, portavoce a Gaza per il ICRC. Nel giugno 2007, tuttavia, quando Israele inasprì il suo assedio di Gaza, le autorità israeliane interruppero il programma per i detenuti di Gaza, pur permettendo alle famiglie dei detenuti della West Bank di proseguire con le visite.

Nasir ha aggiunto che gli sforzi della ICRC per garantire le comunicazioni tra le famiglie e i loro cari all’interno delle carceri israeliane non avevano dato i frutti desiderati.

“In precedenza, in situazioni di questo tipo eravamo riusciti a fare qualcosa, ma attualmente per sfortuna ci è andata male. Recentemente, la ICRC ha rinnovato la sua richiesta di ripristinare le visite familiari per le famiglie dei detenuti originari di Gaza,” ha affermato Nasir.

Secondo il portavoce dell’ICRC, le autorità israeliane non hanno dato una giustificazione specifica riguardo alla loro decisione di negare il permesso ai familiari di Gaza per le visite carcerarie, sebbene egli insistesse che era una questione umanitaria.

I gruppi palestinesi per i Diritti Umani hanno fatto richiesta a tutte le parti interessate - in particolar modo agli Stati esteri – di far pressione sul governo israeliano perché rispetti i suoi obblighi in relazione al Diritto Umanitario Internazionale (IHL), in modo particolare riguardo alla IV Convenzione di Ginevra del 1949. Israele ha violato il IHL trasferendo i prigionieri dalla West Bank occupata e dalla Striscia di Gaza in carceri poste all’interno di Israele, e i detenuti palestinesi sono stati assoggettati a condizioni degradanti, a trattamenti disumani e a torture.

A dicembre, i parenti di 14 prigionieri di Gaza avevano fatto ricorso alla Corte Suprema di Israele perché la proibizione delle visite carcerarie avesse fine. La corte suprema ha respinto l’azione legale, presentata al posto loro da HaMoked – il Centro per la Difesa dell’Individuo e Adalah – il Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe. Nella sua sentenza, la corte ha riconosciuto che: “E’ vero che i prigionieri per motivi di sicurezza sono titolari di diritti e che questi non dovrebbe essere trattenuti al di là di quanto necessario. “Tuttavia la corte conferma il divieto del governo israeliano per le visite alle carceri e dichiara che tali visite ”non rappresentano una necessità umanitaria”.

Il vice-direttore del Centro Palestinese per i Diritti Umani a Gaza, Jaber Wishah, ha riferito a The Electronic Intifada: “Abbiamo provato ripetutamente di rivolgerci a coloro che hanno ratificato le Convenzioni Umanitarie Internazionali perché facciano pressione su Israele per ottenere il rispetto dei suoi obblighi.” Wishah ha affermato che se Israele omettesse di soddisfare i suoi obblighi, dovrebbe essere trattato alla stessa stregua del regime sudafricano dell’Apartheid.

Wishah ha sottolineato che le famiglie desiderose di vedere i loro cari chiusi nelle carceri israeliane, hanno il diritto di farlo, secondo il IHL e compresa la IV Convenzione di Ginevra.

La questione dei prigionieri palestinesi è oggetto delle maggiori contese nei rapporti palestino-israeliani. Sin da quando Israele occupò la West Bank e la Striscia di Gaza nel 1967, si stima che siano state arrestate ed imprigionate centinaia di migliaia di palestinesi. Molti prigionieri sono stati incarcerati per lunghi periodi da tribunali militari israeliani che sono stati condannati dai gruppi internazionali per i Diritti Umani per il mancato rispetto delle norme minime di equità. Molti altri sono sottoposti ad “amministrazione detentiva” senza accusa o processo di qualsiasi tipo.

Attualmente, in Israele sono detenuti più di 7500 palestinesi, compresi 800 che sono stati condannati a morte.

Intanto, a madri come Umm Farid non resta che aspettare, mentre i loro figli se ne stanno dietro alle sbarre.
“Ricordo ancora quanto era gentile con me. Quando ne avevo bisogno si prendeva cura di me. La mia sola speranza è do poterlo rivedere prima di morire,” furono le sue parole.

Rami Almeghari, è giornalista e docente universitario con sede nella Striscia di Gaza

(tradotto da mariano mingarelli)

“L’esercito sequestra due civili di Bethlehem.” di Ghassan Bannoura manifestazioneabetlemme Due civi

“L’esercito sequestra due civili di Bethlehem.”
di Ghassan Bannoura
manifestazioneabetlemme
Due civili palestinesi sono stati sequestrati dalle truppe israeliane durante un’invasione nella mattinata di martedì che aveva come obiettivo la città di Bethlehem nella West Bank.

Testimoni hanno riferito che i soldati hanno preso d’assalto la zona centrale di Bethlehem per poi perquisire la casa della famiglia Al-Massalmah.

Le truppe se ne sono andate dopo aver sequestrato Mallak. di 19 anni, e suo fratello Mohammad, di 17. L’esercito ha riferito alla loro famiglia che saranno portati ad un vicino campo di detenzione per essere interrogati.

La settimana scorsa, i militari israeliani hanno effettuato per lo meno 22 invasioni in comunità palestinesi della West Bank, arrestando 34 civili, compresi 4 bambini.

Per di più, durante l’invasione della West Bank, 15 civili sono stati sequestrati dall’esercito israeliano nel fine settimana.

(tradotto da mariano mingarelli)

Ragazzini palestinesi rapiti

I metodi dell'"unica democrazia del Medio Oriente"

“I soldati sequestrano 15 palestinesi in meno di due giorni.”
di Saed Bannoura

Soldati israeliani hanno sequestrato per lo meno 15 palestinesi, domenica scorsa e lunedì, e li hanno imprigionati per sottoporli ad interrogatorio.
ragazzinipalestinesirapiti



Fonti locali hanno riferito che lunedì, all’alba, nella città di Hebron, nella parte meridionale della West Bank, soldati hanno sequestrato cinque palestinesi.


Due di loro sono stati presi nei pressi della Moschea di Ibrahim nel centro della città. Sono stati attaccati con violenza e picchiati dai soldati che li avevano fermati ad un blocco stradale nella Città Vecchia.


Uno di loro è stato identificato come Anis Majid Al Rajabi, di 20 anni. Dopo essere stato attaccato dai soldati ha subito diverse ammaccature e lesioni dopo essere stato aggredito dai soldati che l’hanno trasportato nel campo militare di Ezion, a nord di Hebron.


Dopo averlo fermato in città ad un blocco stradale, i soldati hanno sequestrato anche Dia’ Al Ja’bary, di 22 anni, e l’hanno portato al campo di Ezion.


Altri tre palestinesi, due dei quali sono stati identificati come Kamel Al Hammoury e Bilal Al Sharabaty, sono stati sequestrati a Bab Al Zawiya, nel centro di Hebron.


Inoltre, i soldati hanno invaso la città di Tarqoumia, ad ovest di Hebron, e hanno dato ad un residente un ordine militare di comparizione per essere interrogato.


I soldati hanno fatto irruzione in casa sua e l’hanno messa sotto-sopra prima di consegnargli l’ordine.


Soldati hanno sequestrato anche due abitanti nel villaggio di Arraba, vicino alla città di Jenin nella West Bank settentrionale. I due sono stati arrestati dopo che l’esercito ha fatto irruzione nella loro casa e l’ha saccheggiata.


Sono stati identificati come Mansour Iz-Ed-Deen e Mohammad Shqeir. Le loro famiglie sono state costrette a uscire dalle loro case per diverse ore mentre l’esercito rovistava la loro proprietà.


Una fonte locale ha riferito che, in aggiunta, i militari hanno sparato bombe assordanti ed a gas lacrimogeno per terrorizzare gli abitanti.


Nella città di Ramallah, al centro della West Bank, i soldati hanno sequestrato nove palestinesi descritti dall’esercito come persone inserite nelle loro “liste di ricercati”. Un portavoce dell’esercito ha detto che sono stati trasportati tutti nei centri per gli interrogatori.


Domenica, dopo averli aggrediti violentemente, soldati israeliani hanno arrestato nove lavoratori del villaggio di Al Khader, vicino a Bethlehem.


I lavoratori, dapprima sono stati incarcerati di fronte al blocco stradale di Al Zayyim a Gerusalemme Est. E’ stato riferito che si trovavano sulla via per Gerusalemme, per tentare di trovare un lavoro con il quale sostenere le loro famiglie.


L’esercito ha sostenuto che i lavoratori non possedevano il permesso che autorizza i residenti palestinesi della West Bank ad entrare in Israele. I soldati li hanno colpiti con i loro fucili e con bastoni, oltre ad averli malmenati con pugni e con calci.


Essi hanno riportato lesioni e fratture il diverse parti dei loro corpi.