lunedì 31 ottobre 2011

Manifestazione del FPL con la foto del leader Ahmad Sa'adat

Intervista a Abu M: il PFLP tra prigionieri e lotta di popolo

di M. C.


Abu M. è un militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Ha 42 anni e di questi undici ne ha trascorsi nelle prigioni israeliane. È stato arrestato 15 volte. Lo abbiamo incontrato al campo profughi di Dheisha, a Betlemme.

All’indomani della conclusione della prima fase del rilascio di prigionieri, che giudizio date dell’accordo tra Hamas e lo Stato sionista?

La liberazione anche di un solo prigioniero palestinese è già di per sé una vittoria. Il dato nuovo rispetto al passato è che questa volta il prigioniero israeliano ha trascorso l’intero periodo di detenzione in territorio palestinese. Il grande merito di questo accordo consiste nell’aver ottenuto il rilascio di 1/3 dei detenuti condannati a più di un ergastolo; nelle carceri israeliane c’erano 820 prigionieri condannati a multipli ergastoli: ne sono usciti 320.

Detto questo, l’accordo raggiunto non è privo di criticità che con una gestione diversa si sarebbero potute evitare: innanzitutto è avvenuto in un momento inopportuno, sarebbe stato meglio posticiparlo a dopo la fine dello sciopero della fame iniziato un mese fa dai prigionieri palestinesi. Con l’attenzione mediatica che comprensibilmente si è guadagnato, il rilascio rischia di offuscare la lotta di centinaia di detenuti in sciopero della fame. Di questi la parte più cospicua è costituita da militanti del PFLP, 400 in tutto.

L’inopportunità politica si evince inoltre anche dalla situazione di crisi che il governo Netanyahu attraversava prima dello scambio e che adesso, in virtù dell’incremento di popolarità per il ritorno a casa di Shalit, potrebbe risolversi positivamente per il governo sionista. La realizzazione dell’accordo potrebbe aver paradossalmente puntellato il malconcio governo Netanyahu.

Un altro punto debole dell’accordo consiste nel non aver ottenuto il rilascio di tutte le prigioniere (ne restano 9 in carcere) e di tutti i prigionieri che hanno già scontato più di 20 anni nelle carceri israeliane: tale risultato con meno fretta si sarebbe potuto ottenere facilmente. Ancora: la maggioranza dei prigionieri rilasciati è di Hamas e i nomi dei 550 che saranno rilasciati nella seconda fase li sceglierà Israele.

Infine l’accordo ha legittimato l’esilio di molti prigionieri a Gaza (120 circa) o al di fuori dei confini nazionali (40 circa). Un pericoloso precedente per il futuro.

Perché questo accordo si verifica proprio oggi? Verrebbe quasi da pensare che Hamas abbia voluto approfittarne per recuperare consensi su Fatah.

Questo non è ovviamente l’obiettivo dichiarato da Hamas, ma è chiaro che si tratta di un’operazione che farà aumentare i consensi della formazione islamica.

Quali sono attualmente il livello di radicamento e la capacità di mobilitazione del FPLP?

Dopo Oslo il movimento nazionale palestinese è arretrato; l’accordo di Oslo non è stato un accordo tra palestinesi e sionisti, ma tra due leadership patrocinate dalla “comunità internazionale”. La conseguenza principale ha riguardato le aspettative dei palestinesi: se prima guardavano con speranza ad una rivoluzione anticoloniale, dopo Oslo si sono concentrati solo sui negoziati.

La sinistra palestinese, soprattutto il FPLP, ha risentito negativamente dell’implosione del blocco socialista e dell’entrata in crisi delle sinistre rivoluzionarie in tutto il mondo. I movimenti religiosi come Hamas hanno ricevuto enormi finanziamenti economici da Arabia Saudita, Siria e Iran; dall’altra parte l’AP è stata coccolata da Europa, Stati Uniti e Israele. Il FPLP non ha ricevuto aiuti da nessuno e ha comunque resistito. Durante l’intifada di Al-Aqsa migliaia di suoi militanti sono stati uccisi o imprigionati: il leader Abu Ali Mustafa è stato ammazzato e il suo successore Ahmed Sa’adat è stato incarcerato. Ciò nonostante il FPLP ha mantenuto la sua posizione di resistenza: la lotta di liberazione nazionale resta la priorità.

Quali sono le condizioni di salute di Ahmad Sa’adat?

Ahmad Saadat è da 21 giorni in sciopero della fame, da quattro anni in isolamento. Ieri (19 ottobre, ndr) il suo avvocato l’ha visitato nell’ospedale del carcere di Ramle dove, in conseguenza del deterioramento delle sue condizioni di salute, è stato trasferito qualche giorno fa. Sa’adat ha fatto sapere che continuerà lo sciopero della fame fino all’ottenimento di tutte le richieste dei prigionieri palestinesi. Ha concluso la vista con l’avvocato trasmettendogli questo messaggio: “Dignità o morte”.

L’11 novembre il Consiglio di Sicurezza ONU si esprimerà sulla richiesta del riconoscimento dello Stato palestinese; il FPLP sembra aver cautamente appoggiato tale iniziativa.

Il FPLP è sempre stato contrario ai negoziati già fin dall’epoca di Oslo: la nostra è stata ed è una lotta di popolo. Quanto alla richiesta del riconoscimento, il FPLP pensa che rappresenti un passo in avanti ma che non sia sufficiente; aiuterà comunque a far capire una volta per tutte chi ci appoggia e chi no. Molti pensano che Obama abbia una politica filo-palestinese: la votazione al Consiglio di Sicurezza chiarirà a tutti da che parte sta Obama.

Appoggiare anche se con delle riserve la richiesta di Abu Mazen non rischia di legittimare la rimozione della questione dei profughi, la negazione del diritto al ritorno?

L’iniziativa di Abu Mazen fallirà. Gli Stati Uniti useranno il diritto di veto e si giungerà ad un nulla di fatto. Ma questa strada per quanto inefficace era preferibile a quella dei negoziati diretti. Non ci sfuggono le pericolose conseguenze nel caso, improbabile, del riconoscimento di uno Stato: i profughi non potrebbero tornare nei territori occupati del ‘48 e la rappresentanza politica del popolo palestinese attualmente esercitata dall’OLP passerebbe nelle mani dell’Autorità Nazionale. L’OLP è l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese; e se un giorno ci sarà una Stato palestinese questo dovrà essere guidato dall’OLP e non dall’Autorità Nazionale.

Come credi che le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria e in generale quelle solidali con la causa palestinese possano aiutare il FPLP?

Il vostro dovere è lottare nel vostro Paese per cambiare le cose. Noi guardiamo con interesse ai movimenti sociali europei e americani. Lo Stato sionista può metabolizzare senza problemi gli attacchi di Hezbollah e della resistenza palestinese. Il progetto sionista non finisce con quei 5 milioni di ebrei che occupano la nostra terra; è un progetto internazionale che richiede una risposta internazionale.

La Palestina non è il Kurdistan, né la Cecenia né il Kashmir. La lotta palestinese è sempre stata una lotta internazionale perché internazionale è stata la responsabilità dell’occupazione sionista. Noi potremo vivere insieme agli ebrei in questa terra, ma ciò avverrà solo quando questi rinunceranno al sionismo. Il sionismo è una malattia dell’ebraismo, è razzismo finanziato dall’Occidente, è l’Occidente stesso piantato in terra araba.

La lotta palestinese è prima palestinese, poi araba e infine internazionale. Da soli non potremo andare molto lontano. Ogni colpo inferto al capitalismo italiano, europeo e americano è un colpo al nemico sionista. E viceversa.

domenica 30 ottobre 2011

?esercito "più morale del mondo rovina una famiglia e trucida il gregge spezzando le zampe delle pecore, accecandole e provocando loro aborti

SOLDATI ISRAELIANI IRROMPONO IN UN'ABITAZIONE DEL VILLAGGIO PALESTINESE DI JAWWAYA, DETENGONO RAGAZZO E DISPERDONO GREGGE

28th Ottobre 2011

At-Tuwani, South Hebron Hills – Nel primo mattino del 26 ottobre soldati israeliani entravano a bordo di quattro mezzi nel villaggio palestinese di Jawwaya, prelevavano un ragazzo palestinese e disperdevano il gregge di sua proprietà.


Stando alle dichiarazioni dei membri della famiglia Shwaheen, alle 4:30, 15 soldati irrompevano nella loro tenda mettendola a soqquadro e accusandoli di aver sottratto delle pecore dal vicino insediamento israeliano di Ma'on. Dopodichè i soldati si dirigevano nell'ovile e ne facevano uscire le pecore disperdendole.

Alle 5:30 i soldati lasciavano il villaggio prelevando il figlio maggiore, trattenendolo per controlli, e rilasciandolo soltanto alle ore 9:00 nei pressi dell'insediamento di Ma'on.

Alla partenza dei soldati sono stati ritrovati un agnello ucciso, una pecora resa cieca e altre quattro con zampe spezzate. Inoltre la famiglia ha riscontrato la mancanza di 21 capi nel gregge e due aborti di pecore gravide. Per la famiglia Palestinese la perdita delle pecore equivale ad un assenza di entrate economiche per molti anni.

Operazione Colomba e Christian Peacemaker Teams mantengono una presenza costante nel villaggio di At-Tuwani e nell'area delle colline a sud di Hebron dal 2004.

Per informazioni:
Operazione Colomba, +972 54 99 25 773

[Note: secondo la IV Convenzione di Ginevra, la II Convenzione dell'Aja, la Corte Internazionale di Giustizia e numerose risoluzioni ONU, tutti gli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi Occupati sono illegali. Gli avamposti sono considerati illegali anche secondo la legge israeliana.]

Muro e demolizioni a Led, città mista d’Israele

di Emma Mancini


Led è una delle sei città miste arabo-israeliane a pochi chilometri da Jaffa e Tel Aviv, in pieno Stato di Israele. La vita dei palestinesi in quello che resta del quartiere arabo è una lotta continua contro demolizioni e trasferimenti forzati.

È quello che è successo a otto famiglie palestinesi, residenti a poche centinaia di metri dal nuovo quartiere russo, marciapiedi colorati, sculture al centro delle rotonde e palazzi bianchi che continuano ad espandersi. È la destinazione dei tanti ebrei provenienti dalla Russia e dalle ex Repubbliche sovietiche, nuovi cittadini israeliani che difficilmente parlano ebraico. Nei negozi e nei supermarket le insegne e le pubblicità hanno caratteri in cirillico: strano tipo di integrazione nella società israeliana.

Per continuare ad espandere il quartiere, le autorità israeliane proseguono nella demolizione delle abitazioni delle famiglie palestinesi. Il 3 ottobre 2010 è toccato ad otto famiglie, 55 persone: le loro sette case sono state distrutte dai bulldozer dell’esercito israeliano. Di notte.

“Due giorni prima ci hanno notificato un ordine di demolizione – racconta Noor, una giovane quindicenne, costretta ad essere già adulta – Hanno detto che le nostre case erano illegali, erano state costruite senza permesso, e che entro sei mesi avrebbero proceduto alla demolizione. Sono arrivati con i bulldozer solo due giorni dopo”.

“Era notte. Ci hanno urlato di lasciare la casa, lasciandoci solo mezz’ora per prendere le nostre cose – continua Amal, solo tredici anni – Ci hanno radunato tutti fuori e ci hanno minacciato con le pistole”. Fuori, nel cortile, un centinaio di soldati, quasi un’azione militare.

“Hanno detto che le nostre case erano illegali – racconta Noor – Le avevamo costruite cinque anni prima sulla terra del nonno. Non ci hanno dato alcuna alternativa: hanno distrutto le case e ci hanno lasciato senza un tetto, senza darci un’opzione a Led o in un’altra città. Hanno anche picchiato nostro cugino, ha passato cinque giorni in ospedale”.

Dopo qualche giorno dalla demolizione, le otto famiglie hanno montato tende e portato container, tra le macerie delle case. Ma dopo soltanto un mese, l’esercito è tornato e ha distrutto anche i container. Ora sono costretti a vivere in una baracca accanto alla casa dei vicini, che offrono loro acqua e elettricità. Ma non si arrendono: “Siamo andati subito in tribunale – prosegue Amal – Abbiamo un avvocato israeliano, ma per ora non ci hanno dato alcuna risposta. Questa non è vita: i bambini più piccoli hanno subito forti traumi, per mesi non sono riusciti ad andare a scuola”.

Tra le macerie delle sette abitazioni, spuntano quaderni con i compiti di matematica, bollette, sedie, qualche coperta. Anche la vita quotidiana di otto famiglie è finita sotto le macerie. Ma non la loro dignità: prima di salutarli ci danno una bottiglia d’acqua fresca. “Fa molto caldo oggi”. Loro, che l’acqua la chiedono ai vicini.

La situazione a Led è esplosiva. La convivenza tra arabi e israeliani è rappresentata da un muro. Le autorità israeliane lo hanno costruito per dividere il quartiere arabo dai quartieri israeliani e da quelli dei nuovi immigrati dell’Est Europa, giunti in massa per giudaizzare la città e incrementare il divario demografico tra israeliani e palestinesi. Proviamo a chiedere alla gente che cammina per le strade del quartiere russo dov’è il muro. “Non parlo inglese”, la risposta più frequente. Un uomo al telefono ci saluta e ci chiede se abbiamo bisogno di aiuto. Appena chiediamo di indicarci il muro di separazione, se ne va immediatamente senza una parola.

Prima del 1948, erano 40mila i palestinesi residenti a Led. Dopo la guerra e la nascita dello Stato di Israele case e terre sono state confiscate, molti palazzi sono stati demoliti per evitare il ritorno dei profughi, quelli che erano stati cacciati. Oggi i residenti di Led sono 74mila, il 30% arabi. Le abitazioni palestinesi si sono ridotte a 5mila unità, ma per la legge israeliana sono illegali perché prive dei permessi di costruzione o perché le famiglie non riescono a dimostrare la proprietà di case vecchie di quasi un secolo. Negli ultimi tre anni, i bulldozer dell’esercito israeliano hanno demolito oltre 150 abitazioni palestinesi

Adesso, le autorità israeliane hanno presentato un piano per l’allargamento della zona industriale e per il passaggio della superstrada proprio nel quartiere arabo di Led. Sono già cinquanta le case che hanno ricevuto l’ordine di demolizione.

Le famiglie palestinesi cercano di resistere, nei tribunali e nelle corti israeliane, ma senza risultati positivi. I due membri palestinesi della giunta comunale (due su diciassette) non hanno alcun tipo di potere, soprattutto ora che, a causa di episodi di corruzione, il governo di Tel Aviv ha commissionato la giunta. E gli effetti sulla vita quotidiana sono tangibili, le differenze tra la parte araba e quella israeliana abissali. Nel quartiere arabo non passano bus pubblici, non ci sono servizi postali né è prevista la pulizia delle strade. La discriminazione la tocchi con mano.



Ecco a voi Led, città mista nell’unica democrazia del Medio Oriente.

La chiesa valdese e il "centro Peres"

Egregio Pastore Ricca
c/o Chiesa Evangelica Valdese
Corso Vittorio Emanuele 23, Torino

Egregio Pastore Ricca,
Da molti anni attribuisco il mio 8 per mille alla Chiesa Valdese, sebbene io non sia Valdese, perché ero persuaso che la vostra Chiesa utilizzasse quanto riceve dai contribuenti per opere di assistenza umana, senza trattenere nulla per le proprie attività di culto o le proprie necessità.
Apprendo ora che la Chiesa Valdese ha aderito al Comitato Amici del Centro Peres per la Pace,una istituzione israeliana fondata, anni orsono, da S. Peres, l’attuale Presidente della Repubblica di Israele. Un personaggio la cui già poco onorevole carriera politica è stata resa del tutto inaccettabile dal suo forte appoggio all’attacco contro Gaza deciso dal governo israeliano, che ha portato alla strage del 2008-2009, con circa 1400 morti palestinesi per la stragrande maggioranza civili, tra cui donne e bambini., ed oltre 5000 feriti, oltre a gravissime distruzioni. Il crudele assedio a cui Gaza è sottoposta da anni corona l’infamia di quella politica, che il presidente Peres approva e sostiene dal suo alto incarico, e che infligge enormi sofferenze al milione e mezzo di abitanti di Gaza, per oltre il 50% minorenni.
Il Centro Peres ha sì fatto curare in ospedali israeliani numerosi bambini palestinesi, tuttavia scelti con criteri diversi da quelli indicati nel volantino a me inviato con l’invito all’evento propagandistico che si terrà il 23 c.m. presso la Chiesa Valdese di Cso Vittorio Emanuele a Torino. I bambini curati in Israele sono scelti con criteri propri, ed insindacabili, dal Centro Peres, che sceglie anche con suoi criteri i medici palestinesi cui proporre di collaborare. Il Centro Peres ha ottenuto grossi finanziamenti da parecchie Regioni italiane, e da altri Paesi europei. Il metodo utilizzato è il solito deplorevole ricorso alle influenze politiche dei potenti.
Se è vero quello che leggo sul materiale propagandistico inviatomi con l’invito a partecipare all’evento torinese, la Chiesa Valdese avrebbe anche sostenuto il Centro Peres utilizzando denari ottenuti con l’8 per mille offerto da molti italiani, tra cui il sottoscritto. A meno che Lei smentisca categoricamente questo, io da ora in poi cesserò di destinare il mio 8per mille alla Chiesa Valdese. Con il rincrescimento che sempre comporta l’esser smentito dai fatti circa un buon giudizio, di cui si era certi, su persone soprattutto, ma anche su istituzioni.
Suo
Giorgio Forti
Linceo, membro della rete Ebrei contro l’Occupazione
Viale Argonne 42, Milano 20133

sabato 29 ottobre 2011

Per non dimenticare

Per non dimenticare:

“Festa di rovine” un libro di racconti ambientati nella Palestina della seconda Intifada e nell'Iraq bombardato nel 2003


“Voglio cominciare questa narrazione nominando i bambini palestinesi uccisi in questi due anni di conflitto. Perché li nomino? Perché è un modo per ancorarli alla memoria, trarli dall’indifferenza dei tanti annunci “due palestinesi uccisi…” “8 palestinesi uccisi…” che quotidianamente, frettolosamente ci raccontano i telegiornali mentre noi non ascoltiamo nemmeno, la mentre altrove, dietro i nostri problemi…perché i palestinesi uccisi sono un fatto che appartiene alla quotidianità e non fanno più notizia.

Chi erano quei palestinesi uccisi? Avevano un nome, avevano una vita, una storia? Hanno lasciato una voragine di vuoto e di dolore nel cuore di chi li amava?

Nomino i bambini palestinesi perché la loro morte non rotoli via senza lasciare traccia come se non fossero mai esistiti. Perché siano tenuti i conti della tragedia e non scivoli tutto nell’indistinto. Perché sia gridato e aborrito lo scandalo della loro uccisione, perché gli indifferenti e gli ipocriti si fermino a riflettere se era veramente giusto e necessario spargere quel sangue innocente.”

Comincia così “Festa di rovine” un libro di racconti che mette in rilievo soprattutto la sofferenza dei bambini, quelli palestinesi nel corso della seconda Intifada che fa da sfondo alla maggior parte dei racconti e quelli iracheni all'inizio della guerra in Iraq.

“In quel livido aprile del 2002 i soldati di occupazione avevano cominciato a sparare indiscriminatamente nei quartieri della città uccidendo molti civili che si trovavano fuori o nelle loro case, in una Bethlemme ridotta al fantasma di se stessa, vuota nelle strade, spaventata, assediata. La corrente mancava già da diversi giorni e sarebbe mancata ancora a lungo. Farida Hamal che abitava in un quartiere del centro, in una casa di due piccole stanze con i suoi 4 bambini, si avvicinò alla finestra quando sentì gli spari. I soldati spararono non appena scostò la tenda. Farida cadde all'indietro colpita al petto.

Accorsi spaventati, Mina di 11 anni, Ibrahim di 9, Yusif di 6 e Bhaia di 4, cominciarono a piangere disperati. Dal pavimento da cui non riusciva ad alzarsi Farida cercava di rabbonire i bambini, ma il sangue usciva copioso e silenzioso dal suo corpo e ne furono intrisi il tappeto, il pavimento, i vestiti di Mina inginocchiata piangente accanto alla mamma mentre Ibrahim attonito teneva per mano la sorellina e Yusif singhiozzava col naso che gli colava.”

Nel primo racconto è narrata la tragedia di 4 bambini cui è stata uccisa la madre mentre il padre si trova in carcere. I bambini resteranno soli con il cadavere perchè durante la seconda Intifada nelle città assediate era impossibile anche seppellire i morti e spesso le loro spoglie restavano insepolte nelle case.

“Il tribunale ha decretato: siano mandati a morte gli ulivi, giustiziate le spighe e impiccato il vento. Sia imprigionato questo “popolo ribelle alla morte” che non vuole mutare in sassi della strada... Ho pietà per i mandorli schiantati che gridano al cielo i loro rami protesi come un’ultima preghiera, per i campi arati dalle ruspe, per i muri abbattuti delle case intrisi di vita di sangue e di lacrime…Un’altra vita sogno che non tenda alla distruzione, il futuro desidero come un intreccio di mani, un abbraccio sopra il sangue, un cielo condiviso… “

Ogni racconto è corredato da un'appendice poetica che ne riprende i motivi e che può essere letta come un secondo testo.


“Ma il peggio venne quando partirono gli ispettori.

-Adesso siamo solo nelle mani di Allah-

mormorò pallida sua madre.

-Non aver paura, Allah Uh Akbar-

la confortò suo padre abbracciandola con gli occhi lucidi. Samar sentì la terra mancare sotto i piedi. Se i suoi genitori avevano paura chi l’avrebbe protetta?

Era un tempo strano. Di attesa. Tutta la città, per quanto ne sapeva Samar, si sentiva come un imputato in attesa della sentenza che poteva andare dall’assoluzione alla condanna a morte. Serpeggiava un’angoscia strisciante che piano piano stringeva il cuore della gente e la faceva sentire già sull’orlo della fossa. E fosse che erano trincee si andavano scavando un po’ dappertutto.

-Ma se poi la guerra non viene bisognerà riempirle di nuovo tutte quelle buche?-

Alì le dava della stupida, se veniva la guerra altro che quelle buche si sarebbe dovuto riempire, se veniva la guerra…-bé lasciamo perdere- concludeva seccamente. Ma cos’era dunque la guerra, che bestia spaventosa stava per aggredirli tutti quanti? Quando tratteneva troppo il pensiero su come poteva essere spaventosa la guerra Samar cominciava a tremare, ma poi succedeva qualcosa, un attore venuto da lontano la faceva ridere, o passava un gruppo di colorati buddisti, una manifestazione con tanti cartelli, oppure qualcuno che riusciva a vedere Al Jazira raccontava che c’era stato un colpo di scena.

A volte le sembrava che la sua anima si staccasse dal corpo e gironzolasse volteggiando sopra la città e scrutasse le facce della gente che continuava le sue faccende di sempre ma con un’ombra scura che sovrastava ognuno. Anche lei, Samar, doveva avere quell’ombra scura, ma per fortuna non poteva vederla.

Ora erano finite tutte le possibilità, tutte le speranze. Quel signore arcigno dall’altra parte del mondo dove era giorno quando a Bagdad era notte, aveva detto di aver perso la pazienza e che il tempo era scaduto, avrebbe mandato i suoi soldati ad ucciderli tutti con la guerra.

Ormai nessuno parlava più apertamente di guerra, perché era troppo vicina, c’era gente che partiva ma senza quasi darlo a vedere, ci si incontrava e si chiedeva:

–Come state?

-Che farete?-

Senza mai nominare la bestia scura della guerra che forse avrebbe potuto sentirli e balzare loro addosso a tradimento. “

I bambini iracheni, il loro terrore, la strage di innocenti è narrata nei racconti “Bambini di Bagdad” da cui è estratto questo stralcio e il seguente:

“Al risveglio le era tornata subito la lucidità, tutto era stato chiaro davanti ai suoi occhi. Si guardò addosso per vedere se aveva le braccia, le mosse, non le facevano male, con lentezza esplorò la parte inferiore del corpo. Una gamba c’era e poteva fare dei movimenti che però le risultavano dolorosi, l’altra invece non la sentiva, e non la vedeva nemmeno, vedeva solo una gran massa di garza insanguinata. Chino su di lei il viso stravolto di suo padre. Voleva chiedergli se aveva perso la gamba, ma si ricordò di Samar e rimase muta. Piano piano cominciò a guardarsi intorno. La corsia dell’ospedale traboccava di bambini feriti. Alcuni faceva impressione guardarli, quasi tutti erano silenziosi, solo qualcuno ogni tanto urlava dal dolore. Più passava il tempo più Ranja soffriva, ma rimaneva zitta per non essere lei, più grande, a piangere mentre bambini piccoli restavano quieti, anche quel piccino di tre anni col ventre squarciato e il corpo pieno di schegge.

Nel silenzio insanguinato e pesante dell’ospedale a un tratto passò lacerante il grido della sirena e l’ospedale fu scosso e scrollato dal bombardamento.”

Anche questi racconti si concludono con una nota poetica:

“…Mi sporgo sull’abisso, vagare vedo ombre stralunate. Credevo di guardare una visione…Misteriosa Bagdad fragile ricamo di eternità, sentivo perfino le melodie del flauto che accompagnano la danza dei dervisci. La città mi veniva incontro, luogo simbolico o assassinato? La madre sciita avvolta nei suoi veli emerge dal fumo con la piccola figlia uccisa sulle braccia. Nel suo volto di pietra, con sgomento, ho riconosciuto me stesso.”.

E' il grido allucinato del poeta che vede “la voce della poesia fragile e forte che muore sotto i cingoli dei carri armati.”

Il libro uscirà a dicembre edito da “Città del Sole” autrice Miriam Marino e sarà disponibile in alcune librerie e nella vendita on line. presso la casa editrice e altri siti.

Incredibile abuso

Israele non paga i costi dell'occupazione, non garantisce i servizi che è obbligato a garantire secondo la Convenzione di Ginevra sui territori che occupa. Questi costi sono pagati da altri, dall'Europa e dalle varie ong e associazioni per i diritti umani. Ma Israele non è ancora soddisfatto e intende demolire ciò che non ha costruito, ma è stato costruito con soldi altrui. Sta per essere demolita anche la scuola di gomme nel villaggio beduino costruita da "Vento di terra" Fino a quando il mondo tollererà tutto questo?


Hebron, Israele demolirà l’impianto solare finanziato dalla Spagna
di Mikaela Levin


Israele ha pianificato la demolizione dell’impianto di energia solare della città di Mneizel, nel distretto di Hebron. L’impianto fornisce elettricità al villaggio circondata da colonie israeliane ed è stato finanziato dal governo spagnolo con circa 300mila euro.


Se Israele porterà avanti l’ordine di demolizione, il governo spagnolo chiederà un risarcimento?

La piccola città palestinese di Mneizel, a circa 70 chilometri a Sud di Hebron, ha goduto per due anni e mezzo di chiacchiere fino a tarda ora, di studio e cene di notte, di film in tv e di cartoni animati, della meraviglia del conservare cibo in frigo e delle numerose possibilità di impiego permesse dall’elettricità. Avrebbe potuto godere di tutto questo molto prima, ma si trova in Area C, sotto il totale controllo israeliano secondo quanto stabilito dagli accordi di Oslo, e le autorità israeliane avevano negato alla città questo essenziale servizio.

Ora le autorità d’Israele hanno preso di nuovo di mira questa piccola, povera e dimenticata città, circondata da colonie, per negargli di nuovo un basilare diritto. L’11 ottobre, funzionari israeliani della cosiddetta Amministrazione Civile dell’occupazione militare hanno consegnato ordini di demolizione all’impianto solare locale, un piccolo edificio dove sono custodite le batterie, e a tre case di proprietà di residenti palestinesi.

“Se demoliranno l’impianto e l’edificio, la città perderà tutte le connessioni alla rete elettrica. Questo significa niente elettricità per le case, ma anche per l’ospedale, la scuola e alcuni piccoli negozi aperti in questi ultimi anni”, spiega all’AIC Ignacio, attivista spagnolo che lavora al progetto. L’intero impianto solare è stato costruito in terra privata palestinese e la sua realizzazione, comprese le batterie e l’istallazione in tutte le case, è stata finanziata dal governo spagnolo con circa 300mila euro.

Secondo gli ordini militari israeliani, le demolizione avrebbero dovuto essere compiute martedì 18 ottobre, ma un avvocato di Rabbini per i Diritti Umani ha presentato un reclamo ai tribunali israeliani: l’esercito ha così ricevuto un’ingiunzione che ritarda le demolizioni. Il Consolato spagnolo a Gerusalemme e la compagnia spagnola che amministra il progetto, Sistemas Energéticos Básicos (SEBAS), sono immerse in riunioni politiche senza fine da quando l’ordine è stato consegnato per cercare di congelare o annullare le demolizioni.

Per i 300 palestinesi che vivono nel villaggio di Mneizel i giorni a seguire saranno determinanti per il loro stile di vita, per la possibilità di avere una vita leggermente più semplice. Come sottolinea Ignacio, la cittadina è parte di una delle aree palestinesi più vulnerabili e impoverite della Cisgiordania. Solo un esempio: gli abitanti di Mneizel consumano 21 litri di acqua al giorno, una quantità minuscola se comparata ai 130 litri consumati ogni giorno da un colono residente nella stessa area.

“La legge umanitaria internazionale stabilisce chiaramente che le forze di occupazione devono garantire l’accesso ai servizi di base a tutta la popolazione civile sotto occupazione”, spiega Ignacio. Se l’esperienza aveva già dimostrato che le autorità israeliane non hanno alcun interesse né volontà a conformarsi al diritto internazionale, la Cooperazione Spagnola, attraverso il Consolato spagnolo di Gerusalemme, ha deciso di iniziare progetti energetici nelle Aree B e C. “Se costruissimo solo in Area A (sotto il totale controllo dell’Autorità Palestinese), supporteremmo la pulizia etnica”, aggiunge Ignacio.

Attualmente SEBAS ha un altro progetto energico ad Atuf, villaggio vicino la città di Jenin, a Nord della Cisgiordania. Si trova in Area B e sarà la prima città di sempre, se il progetto avrà successo, a produrre da sola l’elettricità necessaria ai residenti. La compagnia spagnola ha infine altri due progetti in Area C, ma sono attualmente ancora in fase di pianificazione.

Pogrom di Anatot: l'inchiesta la fa la polizia che dovrebbe indagare su se stessa!!!!

30 settembre 2011, incidenti ad Anatot: aggiornamenti, video e appello ad agire!

da admin

Venerdì scorso di pomeriggio, un gruppo di attivisti si è recato in visita a Yassin al-Rifa’i e alla sua famiglia nel villaggio di Anata, delle cui terre si è impossessata la colonia di Anatot ( denominata anche Almon). Per anni i coloni li hanno maltrattati; in un susseguirsi di aggressioni hanno divelto alberi, bloccato fonti d’acqua, rubato attrezzi agricoli, e assillato e molestato gli agricoltori nel tentativo di appropriarsi delle loro terre. Venerdì pomeriggio, una bandiera palestinese che Yassin aveva messo su di una tenda sui propri terreni è stata la scusa fornita ai coloni di Anatot per il loro pogrom. Decine di coloni, armati di pietre e bastoni, hanno aggredito brutalmente Yassin e la sua famiglia, insieme agli attivisti che erano con lui. La polizia era presente durante il pogrom, ma se ne è stata da parte e non ha fatto nulla. Tre persone sono state ricoverate in ospedale con ferite gravi, tre attivisti sono stati trattenuti in stato di fermo per l’interrogatorio. Neppure uno degli aggressori è stato arrestato.



La sera stessa, quaranta attivisti sono ritornati sulla scena del pogrom per protestare. Quando abbiamo raggiunto il cancello della colonia, ci è stato impedito di entrare, per cui siamo rimasti di fronte al cancello chiuso per protestare contro la violenza dei coloni e la mancanza di responsabilità della polizia. I coloni si sono ammassati rapidamente al cancello: alcuni avevano preso parte al pogrom del pomeriggio, taluni erano soldati e agenti di polizia in abiti civili, giovani e uomini adulti ribollenti di odio e affamati di violenza. Un certo numero di poliziotti in uniforme che erano presenti non hanno fatto nulla per frenare la folla inferocita. I coloni hanno chiesto che venissero aperti i cancelli, e sotto la protezione degli agenti di polizia ci hanno aggrediti, con pugni, pietre e bastoni. Uno degli aggressori ha cercato più volte di colpire gli attivisti con un coltello. Quando abbiamo cercato di allontanarci dal posto, gli aggressori ci hanno inseguito, cantando “Morte a quelli di sinistra!”. Erano accompagnati da un gruppo di agenti di polizia in divisa. Sono stati feriti circa 10 manifestanti, tre dei quali sono stati sgombrati per sottoporli a cure mediche. Sei vetture sono state danneggiate in modo consistente e altre sono state completamente distrutte. Sullo sportello di un’auto è stata incisa una stella di Davide. Nonostante l’aggressione, che è stata ripresa sia con foto che con una videocamera, la polizia non ha fato neppure un solo arresto tra i facinorosi.


Non è facile trattare il significato di questi avvenimenti. L’enorme dimensione dell’odio che i coloni di Anatot– all’apparenza non ideologizzati e non estremisti - hanno manifestato, e il comportamento indulgente e accomodante dei media, rappresentano una testimonianza inquietante del disinteresse che caratterizza la società israeliana dopo anni di occupazione e di repressione. Non pretendiamo di sapere come continuare da qui in avanti. Ma riteniamo che i fatti di Anatot di venerdì scorso siano – e devono essere – un momento di svolta. Ci rivolgiamo a voi perché si possa fare affidamento sul vostro sostegno e partecipazione nel prossimo futuro.

Invito all’azione!

Sei anni fa i coloni di Anatot hanno deciso di spostare la recinzione nella parte meridionale del villaggio e di annettere le terre di proprietà di residenti palestinesi del villaggio di Anata. Oggi l’accesso alle loro terre è loro precluso grazie a questa barriera illegale. Ad Anatot, come nel resto delle colonie, non c’è giustizia né senso di responsabilità in quanto i coloni possono fare quello che vogliono. La violenza che si è manifestata venerdì rappresenta un chiaro prodotto del progetto coloniale, sostenuto da tutti i governi degli ultimi quattro decenni. Le sue conseguenze sono la repressione e l’occupazione, il furto e l’espropriazione della terra, il marchiare i dissidenti come traditori. Tale politica viene mantenuta dai tribunali e dalla polizia che sono collusi con i coloni, dai mezzi di informazione che non fanno il loro lavoro, da una società israeliana che tiene la bocca chiusa.

Noi non rimarremo in silenzio
fino a che la barriera illegale non verrà demolita
e gli abitanti di Anata potranno recarsi alle loro terre.
Non ci fermeremo fino a quando i criminali di Anatot non saranno assicurati alla giustizia



VIDEO: Settlers attack Israeli activists and Palestinian farmers near Anatot 30.09.2011
http://www.youtube.com/watch?v=EKzNrNhTu5w

(tradotto da mariano mingarelli)

BEDUINI: “TRANSFER” FORZATO

Si aggrava la situazione dei beduini della Cisgiordania: un nuovo piano israeliano prevede il trasferimento forzato di quasi 30.000 persone. Ma anche nel deserto del Negev, le comunità beduine sono in pericolo.

MARTA FORTUNATO

Beit Sahour (Cisgiordania), 28 ottobre 2011, Nena News (nella foto: beduini senza casa nella Valle del Giordano, fonte:maannews) – Trasferimento forzato. Questo il termine utilizzare per indicare le politiche israeliane in area C. E questa volta a pagarne le conseguenze saranno i beduini della Cisgiordania. L’Amministrazione Civile Israeliana ha reso noto, due settimane fa, un piano per espellere oltre 27000 beduine che vivono nell’area C della Cisgiordania in un arco di tempo che va dai 3 ai 6 anni.

Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’tselem, la prima fase di questo trasferimento forzato inizierà a gennaio 2012 e avrà come prime vittime 2300 beduini residenti nell’area intorno all’insediamento israeliano di Ma’ale Adummim. Essi verranno spostati vicino alla discarica di Abu Dis, pochi chilometri ad est di Gerusalemme.

“Vogliamo stare nelle nostre case” ha raccontato Mohammad al-Korshan, capo del Comitato dei beduini di Gerusalemme, all’agenzia palestinese on-line Electronic Intifada – la vita dei beduini dipende dagli animali. Se ci spostano in città, ci uccidono, uccidono i beduini. Noi non ci muoveremo da qui”.

La seconda fase del piano ideato dall’Amministrazione Civile prevede l’espulsione delle comunità beduine dalla Valle del Giordano, luogo ricco di risorse naturali e di fonti idriche. L’idea è di trasferirli nell’area di Nabi Musa, vicino a Jericho.

“Ora viviamo tra Gerusalemme e Jericho, ma il governo israeliano vuole chiudere l’intera area perchè è vicina alla colonia di Kufr Adumim” ha continuato Mohammed – non sappiamo dove andare. La nostra terra originale è a Bir al-Sab’a (Beer Sheva) e siamo rifugiati”.

Circa l’80% dei 2300 beduini che vivono nelle colline ad est di Gerusalemme sono rifugiati: questo è quanto si legge nel rapporto OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari Umanitari) pubblicato a settembre 2011.

Questi piani che Israele sta portando avanti nell’area C della Cisgiordania non possono non essere collegati ai trasferimenti e alle espropriazioni che sono avvenute e che sono tuttora in corso nel deserto del Negev: pochi mesi fa, agli inizi di giugno 2011, il primo ministro Benjamin Netanyahu, aveva approvato un piano per trasferire 30.000 beduini residenti nei villaggi non riconosciuti del Negev, verso l’area della città beduine di Rahat, Kseifa e Hura.

La comunità beduina del Negev raggiunge le 191 mila persone: 120 mila individui vivono in villaggi riconosciuti e ben 71 mila in aree non riconosciute. Secondo i dati dell’Ufficio del Primo Ministro israeliano, i beduini reclamano la proprietà di 160 mila acri di terra, pari al 4.9% dell’area totale del Negev. In un articolo, pubblicato il 28 ottobre 2011, dal quotidiano israeliano Haaretz, dal titolo “Come non risolvere il problema dei beduini”, si afferma che il governo è stato incaricato di sottrarre la maggior quantità di terra ai cittadini arabi piuttosto che di aiutare e di soccorrere questa parte della popolazione di Israele.

Sempre secondo Hareetz, anche la decisione di istituire la Bedouin Settlment Authority, è un ulteriore elemento che mostra come Israele più che aiutare i beduini del Negev, voglia controllarli, scacciarli dai villaggi ed espropriare la terra sulla quale reclamano la proprietà: i beduini, per Netanyahu, prima di essere cittadini, sono considerati un problema per la sicurezza dal paese. La scelta del Generale Maggiore Yaakov Amidror come consulente alla sicurezza non fa che confermare questa direzione presa dal governo.

La visione di Amidror è semplice e spietata: nessuno dei 35 villaggi non riconosciuti potrà mai essere approvato da Israele; più di 30000 beduini verranno trasferiti; e i beduini che hanno la cittadinanza israeliana verranno esclusi dal processo di decision-making.

Una decisione che, secondo Don Futterman, autore dell’articolo su Haaretz, porterà ad un conflitto non necessario ed ad un grave danno alla credibilità del sistema legale israeliano. Una presa di posizione che annulla le proposte alternative, presentate dal Consiglio Regionale dei Villaggi non Riconosciuti (RCUV) e dalla ONG Bimkom, di fornire uno stato legale a questi villaggi e un adeguato piano urbano per il loro sviluppo. Nena News

giovedì 27 ottobre 2011

L’UNESCO RICONOSCERA’ LA PALESTINA?

Si apre a Parigi la Conferenza generale dell’agenzia dell’Onu per la cultura, le scienze e l’istruzione. I 193 stati membri dovranno decidere entro il 10 novembre se accettare l’ingresso dello Stato di Palestina.

Gerusalemme, 25 ottobre 2011, Nena News – Mentre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, sotto la pressione degli Stati Uniti, prova a far cadere nel dimenticatoio la richiesta di adesione dello Stato di Palestina presentata poco più di un mese fa al Palazzo di Vetro dal presidente dell’Olp e dell’Anp Abu Mazen, la campagna di riconoscimento avviata dai palestinesi potrebbe fare nei prossimi giorni un deciso passo in avanti. Si apre oggi a Parigi la 26esima Conferenza generale dell’Unesco chiamata, tra le altre cose, ad accettare o respingere l’ingresso come membro a tutti gli effetti dello Stato di Palestina, fortemente avversato da Israele e Stato Uniti.

Lo scorso 5 ottobre il Consiglio esecutivo dell’Unesco ha approvato con 40 voti favorevoli su 58 una raccomandazione (proposta su iniziativa di un gruppo di Paesi arabi) per attribuire alla Palestina lo statuto di stato membro visto che al momento è coinvolta con lo status di osservatore. Solo quattro Paesi votarono contro, tra cui gli Stati Uniti, mentre 14 furono quelli che scelsero l’astensione, tra cui l’Italia. Il governo Berlusconi, alleato di ferro di Israele, spiegò che «l’iniziativa (per l’ingresso della Palestina nell’Unesco,ndr) rischia di complicare ulteriormente il processo di ripresa dei negoziati tra le parti in linea con la Dichiarazione del Quartetto del 23 settembre scorso». I palestinesi hanno bisogno dei 2/3 dei voti dell’Assemblea Generale per vedersi riconoscere il pieno ingresso nell’Unesco.

Tel Aviv reagì con stizza al voto del Consiglio esecutivo dell’Unesco e sostenne che non spetta ad un’agenzia dell’Onu ma al Consiglio di Sicurezza decidere quali Stati possono essere accolti. Gli Usa da parte loro hanno avvertito che potrebbero tagliare i finanziamenti all’Unesco (80 milioni lo scorso anno, 22% del totale). La dura opposizione di Stati Uniti e Israele all’iniziativa palestinese all’Unesco non va inquadrata solo sul piano diplomatico e della battaglia in corso al Palazzo di Vetro per l’accettazione della Palestina come Stato membro dell’Onu. Il passo mosso dall’Unesco qualche settimana fa rappresenta una risposta indiretta alla decisione unilaterale del governo Netanyahu di dichiarare, un anno fa, «monumenti del patrimonio storico israeliano» due siti - la Grotta dei Patriarchi di Hebron e la Tomba di Rachele di Betlemme – che si trovano entrambi nella Cisgiordania occupata. Un passo contestato con forza dai palestinesi che considerano un luogo santo la Grotta dei Patriarchi (la chiamano «la moschea di Abramo») e criticato anche da una parte della comunità internazionale. Quando saranno membri a tutti gli effetti, i palestinesi potranno richiedere la registrazione di siti archeologici o religiosi in Cisgiordania che Israele vorrebbe annettersi definitivamente.

Sarà il ministro dell’istruzione Gideon Saar a parlare di fronte all’assemblea dell’Unesco e avrà colloqui con i rappresentanti di vari Paesi nel tentativo di impedire che venga accettato lo Stato di Palestina. Ynet, sito del quotidiano israeliano Yediot Ahronot, scrive oggi che le possibilità di bloccare l’ingresso della Palestina nell’Unesco sono molto limitate ma Tel Aviv non dispera di poter convincere alcuni Stati a votare contro, facendo saltare per una manciata di voti l’iniziativa palestinese e dei Paesi arabi. Nena News

L’UNESCO RICONOSCERA’ LA PALESTINA?

Si apre a Parigi la Conferenza generale dell’agenzia dell’Onu per la cultura, le scienze e l’istruzione. I 193 stati membri dovranno decidere entro il 10 novembre se accettare l’ingresso dello Stato di Palestina.

Gerusalemme, 25 ottobre 2011, Nena News – Mentre il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, sotto la pressione degli Stati Uniti, prova a far cadere nel dimenticatoio la richiesta di adesione dello Stato di Palestina presentata poco più di un mese fa al Palazzo di Vetro dal presidente dell’Olp e dell’Anp Abu Mazen, la campagna di riconoscimento avviata dai palestinesi potrebbe fare nei prossimi giorni un deciso passo in avanti. Si apre oggi a Parigi la 26esima Conferenza generale dell’Unesco chiamata, tra le altre cose, ad accettare o respingere l’ingresso come membro a tutti gli effetti dello Stato di Palestina, fortemente avversato da Israele e Stato Uniti.

Lo scorso 5 ottobre il Consiglio esecutivo dell’Unesco ha approvato con 40 voti favorevoli su 58 una raccomandazione (proposta su iniziativa di un gruppo di Paesi arabi) per attribuire alla Palestina lo statuto di stato membro visto che al momento è coinvolta con lo status di osservatore. Solo quattro Paesi votarono contro, tra cui gli Stati Uniti, mentre 14 furono quelli che scelsero l’astensione, tra cui l’Italia. Il governo Berlusconi, alleato di ferro di Israele, spiegò che «l’iniziativa (per l’ingresso della Palestina nell’Unesco,ndr) rischia di complicare ulteriormente il processo di ripresa dei negoziati tra le parti in linea con la Dichiarazione del Quartetto del 23 settembre scorso». I palestinesi hanno bisogno dei 2/3 dei voti dell’Assemblea Generale per vedersi riconoscere il pieno ingresso nell’Unesco.

Tel Aviv reagì con stizza al voto del Consiglio esecutivo dell’Unesco e sostenne che non spetta ad un’agenzia dell’Onu ma al Consiglio di Sicurezza decidere quali Stati possono essere accolti. Gli Usa da parte loro hanno avvertito che potrebbero tagliare i finanziamenti all’Unesco (80 milioni lo scorso anno, 22% del totale). La dura opposizione di Stati Uniti e Israele all’iniziativa palestinese all’Unesco non va inquadrata solo sul piano diplomatico e della battaglia in corso al Palazzo di Vetro per l’accettazione della Palestina come Stato membro dell’Onu. Il passo mosso dall’Unesco qualche settimana fa rappresenta una risposta indiretta alla decisione unilaterale del governo Netanyahu di dichiarare, un anno fa, «monumenti del patrimonio storico israeliano» due siti - la Grotta dei Patriarchi di Hebron e la Tomba di Rachele di Betlemme – che si trovano entrambi nella Cisgiordania occupata. Un passo contestato con forza dai palestinesi che considerano un luogo santo la Grotta dei Patriarchi (la chiamano «la moschea di Abramo») e criticato anche da una parte della comunità internazionale. Quando saranno membri a tutti gli effetti, i palestinesi potranno richiedere la registrazione di siti archeologici o religiosi in Cisgiordania che Israele vorrebbe annettersi definitivamente.

Sarà il ministro dell’istruzione Gideon Saar a parlare di fronte all’assemblea dell’Unesco e avrà colloqui con i rappresentanti di vari Paesi nel tentativo di impedire che venga accettato lo Stato di Palestina. Ynet, sito del quotidiano israeliano Yediot Ahronot, scrive oggi che le possibilità di bloccare l’ingresso della Palestina nell’Unesco sono molto limitate ma Tel Aviv non dispera di poter convincere alcuni Stati a votare contro, facendo saltare per una manciata di voti l’iniziativa palestinese e dei Paesi arabi. Nena News

TOLLERANZA, MA A SENSO UNICO

A qualche giorno dall'inizio della realizzazione del Museo della Tolleranza, una lettera firmata da 84 archeologi chiede lo stop ai lavori perche' distruggerebbero una testimonianza archeologica della Gerusalemme musulmana.

GIORGIA GRIFONI

Gerusalemme, 26 ottobre 2011, Nena News- “Rifiutandosi di salvare questo prezioso sito archeologico e culturale, le autorità israeliane e il Simon Wiesenthal Center dimostreranno solo il loro fallimento nel sostenere, con imparzialità e giustizia, gli stessi standard etici, religiosi e archeologici nei confronti dei siti di sepoltura degli ebrei e dei non-ebrei”. Questa è, in sostanza, l’accusa che un gruppo di archeologi internazionali ha mosso nei confronti dei responsabili della costruzione del “Museo della Tolleranza”, un complesso di 150 milioni di dollari che sorgerà nel quartiere gerosolimitano di Mamilla su quel che resta dell’omonimo cimitero musulmano, il più antico della città. La ripresa dei lavori, autorizzata dalla Knesset a nel luglio scorso, è solo questione di giorni.

In una lettera indirizzata al sindaco di Gerusalemme, al ministero delle Antichità e al Simon Wiesenthal Center, 84 archeologi e ricercatori di tutto il mondo hanno chiesto di interrompere il piano per la costruzione del museo della Tolleranza a Gerusalemme. L’ennesimo tentativo di fermare la realizzazione di un’opera controversa al centro di una battaglia iniziata nel 2005 e portata avanti da attivisti palestinesi e organizzazioni non governative locali sia locali che internazionali.

Il progetto risale al 2004, con la cessione del terreno da parte dell’Autorithy per le Terre di Israele (ILA) al Simon Wiesenthal Center, che vi avrebbe voluto erigere un “Centro per la dignità umana” come parte del suo “Museo della Tolleranza”, con sede a Los Angeles e a New York: “Un’istituzione educativa e un laboratorio sociale nel cuore di Gerusalemme che parli al mondo e che si confronti con le importanti questioni di oggi – come l’antisemitismo globale, l’estremismo, l’odio, la dignità umana, la responsabilità- promuovendo l’unità e il rispetto tra gli Ebrei e le persone di ogni fede” recita l’introduzione alla struttura sul sito del Simon Wiesenthal Center. “Questo museo – ha affermato il presidente israeliano Shimon Peres – è più che un edificio: è un eterno messaggio di comprensione, solidarietà e unione”.

La comprensione e la solidarietà sono state talmente grandi che, nel momento in cui sono iniziati i lavori nel 2005-2006, gli scheletri trovati negli scavi del sito sono stati semplicemente rimossi. Nonostante una parte del cimitero fosse ben visibile -in quanto adiacente al parcheggio del 1955 su cui stava avendo luogo la costruzione- il capo del progetto, il rabbino Marvin Hier dichiarò di non sapere che il sito si trovasse su un antico cimitero musulmano e difese il progetto da chi lo accusava di voler dissacrare un luogo santo per l’Islam: “Il museo sorgerà non sul cimitero, ma sul sito di tre ettari dove si trova il parcheggio. Un parcheggio in cui, per cinquant’anni, i cittadini di tre diverse religioni hanno posteggiato la propria auto senza batter ciglio”. Dopo la guerra del 1948, Israele ha occupato la parte ovest di Gerusalemme, prendendo possesso anche del sito su cui sorge il cimitero e adibendone una parte alla costruzione del parcheggio, oltre a un parco e vari edifici pubblici e privati. Quando Rashid Khalidi –professore di cattedra “Edward Said” in studi arabi alla Columbia University, la cui famiglia è sepolta da generazioni nel cimitero di Mamilla- lo informò che anche il parcheggio era costruito sul sito di sepoltura, il rabbino Heir andò a recuperare un documento secondo il quale nel 1945 la Suprema Corte Islamica avrebbe autorizzato la costruzione un “centro commerciale” su parte del sito del cimitero.

L’affare Mamilla è arrivato, oltre che alla Corte Suprema israeliana -che rigettato la petizione dell’associazione Al Aqsa di interrompere i lavori – anche all’Unesco, senza comunque disturbare le autorità israeliane nella rimozione dei corpi e distruzione delle tombe. Si stima che più di 1500 sepolcri siano stati abbattuti dal 2005 ad oggi in uno dei cimiteri musulmani più antichi del mondo. Il sito risale al settimo secolo d.C. e custodisce le spoglie di guerrieri musulmani e crociati: tra esse spicca la “Zawiyya al-Kubakiya”, il piccolo mausoleo dove sarebbe sepolto l’emiro Aidughdi Kubaki, governatore di Safed e Aleppo al tempo di Saladino, e si dice che anche alcuni compagni del Profeta Maometto riposino in questo luogo.

Particolarmente allarmante -oltre al “totale disprezzo per questi resti umani” testimoniato dalla noncuranza con cui i corpi vengono rimossi e lasciati all’aria aperta- è per gli archeologi una frase enunciata da un portavoce del Ministero degli Affari religiosi al capo-cantiere: “Se doveste trovare anche una sola tomba ebraica, gli scavi verrebbero fermati immediatamente”. Visto lo strenuo lavoro svolto dal Simon Wiesenthal Center per la conservazione dei cimiteri ebraici in ogni parte del mondo, gli archeologi chiedono ai responsabili del progetto di mostrare tolleranza e rispetto per i morti non di fede ebraica, e fermare la distruzione della “terra dove sono sepolte generazioni di abitanti musulmani di Gerusalemme”. Nena News

mercoledì 26 ottobre 2011

Hebron, le vessazioni di esercito e coloni contro la scuola di Qurtuba

di Ahmad Jaradat e Emma Mancini


Negli ultimi giorni, l’esercito israeliano e gruppi di coloni hanno preso di mira la scuola di Qurtuba, in Shuhada Street nel centro della città di Hebron, vicino alla colonia di Beit Hadassan. Soldati e coloni stanno attaccando e vessando studenti e insegnanti, impedendo loro di raggiungere la scuola e di tenere lezione.


Ogni giorno, per poter arrivare a scuola, gli alunni palestinesi devono attraversare uno dei checkpoint della città, un passaggio elettrificato che separa l’area H1 di Hebron dalla H2, sotto l’esclusivo controllo dell’esercito israeliano. L’istituto si trova infatti in Shuhada Street, la principale via all’interno della Città Vecchia il cui transito è proibito ai palestinesi dal 2000 a causa di un’ordinanza militare, considerata illegale dalla stessa Alta Corte d’Israele.

Questo tipo di politica sta influenzando negativamente il sistema educativo nella scuola di Qurtuba e, in generale, nel distretto di Hebron: la violenza dei coloni, le vessazioni dell’esercito, le restrizioni alla libertà di movimento e la paura producono effetti negativi sulla capacità degli insegnanti di assicurare ai loro studenti una buona e corretta educazione in un ambiente sano e sereno. Inoltre, in molti villaggi nelle South Hebron Hills e nella stessa città di Hebron, i bambini devono affrontare non poche difficoltà per raggiungere facilmente le scuole: la presenza capillare delle colonie e il divieto per i palestinesi residenti ad utilizzare le bypass road obbligano gli studenti a camminare per diversi chilometri per poter frequentare le lezioni.

Negli ultimi quattro giorni, esercito e coloni hanno nuovamente preso di mira la scuola di Qurtuba in Shuhada Street. Il 13 ottobre, un gruppo di coloni ebrei dell’insediamento di Beit Hadassan ha tirato pietre e bottiglie vuote contro l’istituto mentre gli alunni erano in classe. Secondo quanto riportato dalla preside della scuola, gli insegnanti sono stati costretti a interrompere le lezioni.

Il giorno successivo, il 14 ottobre, l’esercito israeliano ha chiuso il checkpoint elettrificato verso Shuhada Street, impendendo agli studenti l’accesso alla scuola di Qurtuba. Numerosi soldati hanno occupato le strade nella Città Vecchia, bloccando alunni e insegnanti che hanno reagito tenendo le lezioni di fronte al checkpoint, come forma di protesta contro i soprusi dell’esercito israeliano.

Domenica 16 ottobre, i soldati hanno circondato l’istituto scolastico e hanno impedito a studenti e insegnanti di entrare. Mentre l’esercito bloccava gli alunni al checkpoint, altri militari entravano nella scuola e la chiudevano per “ragioni di sicurezza”. Gli insegnanti e la preside hanno protestato contro la decisione e si sono rifiutati di rispettarla. Decine di persone si sono ritrovate davanti alla scuola e nelle strade della Città Vecchia: sono esplosi scontri tra residenti palestinesi e esercito israeliano.

I soldati hanno lanciato contro i bambini e i manifestanti proiettili di gomma, gas lacrimogeni e bombe sonore. Almeno venti alunni sono rimasti feriti dalle esalazioni dei gas dei lacrimogeni e sono stati portati in ospedale. Tra loro, Saja Sharabati, 15 anni; Ahid Abu Sharch, 10; Manar Shalloudi, 9; Yazan Sharabati, 11; Samar Sharabati, 13; Duba Abu Haikal, 15; and Shahd Farchouri, 15.

Il 17 ottobre, insegnanti e bambini hanno continuato le loro proteste di fronte al checkpoint, mentre l’esercito gli impediva ancora di raggiungere la scuola e di tenere normalmente le lezioni.

Questi tipi di vessazioni e di violenze contro i bambini palestinesi hanno effetti molto negativi sul sistema scolastico di Hebron. Come ha spiegato Eptisam Junedi, preside della scuola di Qurtuba, gli studenti affrontano ogni giorno restrizioni al movimento, gli attacchi dei coloni e la violenza armata dell’esercito, che danneggiano gravemente la loro capacità di studiare e di avere una giusta educazione. “È difficile andare avanti – ha detto la preside – perché la situazione qui è estremamente dura. Ma noi proseguiamo per i nostri bambini”.
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Diverse organizzazioni internazionali, come l’EAPPI, provano a difendere i bambini scortandoli a scuola e monitorando la situazione. Ma non è abbastanza per garantire il rispetto della legge internazionale, quotidianamente violata dall’esercito e dai coloni: impedire agli studenti di frequentare le lezioni significa violare uno dei più importanti diritti umani, il diritto ad avere una corretta educazione in un ambiente sicuro e sereno.

Per questa ragione, il capo del Dipartimento Palestinese dell’Educazione di Hebron ha chiamato organizzazioni internazionali e civili a fornire il loro aiuto agli studenti contro le violenze dei coloni e i soprusi dell’esercito, responsabili di violare sistematicamente la legge internazionale e i diritti umani basilari.

Oltre all’attacco contro la scuola di Qurtuba, il 16 ottobre l’esercito israeliano è entrato in un edificio di cinque piani vicino alla Moschea di Abramo, nella Città Vecchia di Hebron. Secondo quanto riportato dal Comitato locale di Resistenza Popolare, i soldati hanno invaso l’edificio e occupato il tetto. Durante il raid, l’esercito ha distrutto le porte di alcuni uffici del palazzo, di proprietà di Issa Abu Mayyala.

I soldati sono penetrati nell’edificio senza averne dato previa comunicazione e senza alcuna ordinanza ufficiale. Hanno giustificato il raid con le note “ragioni di sicurezza”. Questo tipo di politica militare, che viola gravemente la libertà e la privacy della popolazione palestinese, è molto comune in tutta la Cisgiordania: negli ultimi anni, sono stati decine i palazzi occupati dall’esercito israeliano nel distretto di Hebron. Nella maggior parte dei casi, i soldati sono ancora lì, occupando i tetti e costruendo piccole basi militari da cui controllano la zona.

Gli effetti sulla vita quotidiana dei residenti palestinesi sono estremamente duri. La presenza dell’esercito danneggia la loro libertà e la loro vita privata. Gli attacchi contro le scuole e i bambini e l’occupazione di edifici privati sono un altro esempio del tipo di strumenti utilizzati dalle autorità israeliane per rendere la vita dei palestinesi impossibile. L’obiettivo è costringerli a lasciare le loro case, le loro scuole, i loro negozi: nei Territori Occupati il “quiet transfer” sta ancora proseguendo.

Studenti di Gaza

DA GAZA

Gaza: La campagna degli studenti palestinesi per il boicottaggio accademico di Israele.

dagli Studenti universitari di Gaza

Lettera inviata dagli studenti palestinesi di Gaza agli studenti delle università europee per il sostegno della campagna del boicottaggio accademico di Israele.

Noi studenti palestinesi della Striscia di Gaza desideriamo inviare un messaggio a tutti i gruppi di studenti europei in solidarietà con i palestinesi a fare tutto il possibile per aumentare, durante quest'anno accademico, la campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) contro Israele.



Ribadiamo inoltre il nostro sostegno al recente appello della società civile palestinese, di cui siamo firmatari, di porre fine a tutte le collaborazioni tra le università europee e quelle israeliane. [1] I centri di ricerca nelle istituzioni accademiche israeliane sono attivamente coinvolti nell'alimentare l'enorme industrie israeliana delle armi e gli strumenti di occupazione militare e di assedio. E' questo apparato di violenza che rende così difficile studiare a Gaza, per non parlare delle fatiche quotidiane e della tragedia delle politiche israeliane di apartheid. Noi, quindi, lanciamo un appello per porre fine a tale accondiscendenze in tutti i campi universitari con i diretti complici dei crimini di guerra e della sottomissione coloniale di tutti noi, del popolo palestinese di Gaza, della Cisgiordania, della Palestina del 1948 e di tutta la Diaspora.

Questo è un momento cruciale poiché noi, giovani di Gaza, vediamo degli scorci del movimento internazionale di massa che siamo certi che un giorno ci porterà alla liberazione, alla giustizia e all'uguaglianza, che ci è stata negata per così tanto tempo. Ogni università che partecipa al boicottaggio, al disinvestimento e alle sanzioni contro il regime di apartheid di Israele, sta dalla parte giusta della storia, nello stesso modo in cui gli studenti hanno rappresentato un ruolo importantissimo nel boicottaggio del terribile regime sudafricano di apartheid fino alla sua caduta, nel 1994.

Tuttavia da allora l'apartheid contro i palestinesi si è radicato e consolidato sempre più. In risposta, il nostro appello per il boicottaggio firmato da oltre 170 organizzazioni della società civile palestinese nel 2005 [2] è stato un parafulmine per tutti coloro che si identificano con la nostra situazione. Quando ha approvato il boicottaggio e la fine dei legami tra l'Università di Johannesburg e quella di Ben Gurion (BGU) quest'anno, il primo del suo genere, l'arcivescovo Desmond Tutu ha detto:

"Mentre i palestinesi non sono in grado di accedere a università e scuole, le università israeliane producono la ricerca, la tecnologia, i dibattiti e i leader per il mantenimento dell'occupazione. BGU non fa eccezione. Mantenendo legami sia con le Forze di Difesa Israeliane e con l'industria delle armi, BGU supporta strutturalmente e facilita l'occupazione israeliana ". [3]

Non esisteva negoziazione con tale oppressione basata sulla razza - c'era solo una sola parola: BOICOTTAGGIO. Proprio come gli studenti di tutto il mondo hanno iniziato a vietare dai loro campus le Banche Barclays per i loro investimenti nel Sud Africa dell'Apartheid del 1980, quest'anno vi chiediamo di adottare misure simili per porre fine alla sistematica brutalità di Israele. Per dire: "Non saremo più complici!", nei decenni di pulizia etnica, di occupazione militare, di blocco medievale che ha causato così tante tragedie e sogni infranti per i nostri giovani e studenti.

Fino ad ora i nostri spiriti sono stati sollevati dagli sforzi BDS nelle università europee, esemplificati dal Kings College dove gli studenti e gli accademici hanno iniziato una campagna contro la collaborazione nella ricerca tra la loro università e Ahava, l'azienda cosmetica con sede in una colonia illegale. Tali campagne a lungo termine sono ciò che è richiesto, la punta di diamante della resistenza internazionale. Vi chiediamo di fare tutto ciò che serve per isolare Israele fino a quando non rispetterà il diritto internazionale e non accetterà le premesse fondamentali dei diritti umani e dell'uguaglianza per tutti, compresi noi palestinesi.

Quest'anno è nelle vostre mani, per vedere una svolta in tutti i campus dei paesi occidentali, che finora consentono la continuazione dei crimini del regime israeliano contro di noi. Ci auguriamo che voi poniate la campagna BDS tra le vostre priorità e che vi uniate con noi per la Settimana dell'Apartheid israeliano [4], il pinnacolo di azione tra le università di tutto il mondo. E mentre le pareti intorno a noi ci impediscono di incontrarvi personalmente, abbiamo molti studenti e giovani felici di partecipare a conferenze skype ed ad altre collaborazioni. Noi vi diamo tutta la nostra solidarietà e vi auguriamo di renderci orgogliosi di voi quest'anno.



[1] http://www.bdsmovement.net/2011/dont-collaborate-with-apartheid-8202#.Tp-H9Vv9oY1

[2] http://www.bdsmovement.net/bdsintro#.Tp-L81v9oY0

[3] http://www.middleeastmonitor.org.uk/articles/africa/1556-israeli-ties-a-chance-to-do-the-right-thing

[4] http://apartheidweek.org/

martedì 25 ottobre 2011

Nobel per la pace: adesso si da a chi non lo merita. Potenza della modernità. sono cambiati i criteri di assegnazione

Mo: Pacifici, Nobel a Shalit
Il soldato israeliano liberato dopo 5 anni prigionia
25 ottobre, 13:53


Mo: Pacifici, Nobel a Shalit (ANSA) - ROMA, 25 OTT - Assegnare il Nobel per la pace a Gilad Shalit, il soldato israeliano liberato la settimana scorsa dopo cinque anni di prigionia: lo ha proposto il presidente della Comunita' ebraica, Riccardo Pacifici, e il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha commentato favorevolmente l'iniziativa.

Non trovo le parole per commentare questa notizia. Siamo al ridicolo, all'assurdo, al tragicomico o che altro? Non è bastato il nobel per la pace a Obama, guerrafondaio e criminale? Ora lo diamo a un soldato dell'esercito più criminale del mondo solo perchè è stato imprigionato? E cosa dovrebbero dire i palestinesi in detenzione amministrativa, i bambini arrestati e torturati,i prigionieri politici palestinesi le famiglie divise, distrutte...Ma basta per favore! Un pò di decenza! Io una proposta ce l'avrei: Diamo il nobel per la pace piuttosto alla resistenza non-violenta palestinese che con coraggio e determinazione manifesta nei villaggi ogni venerdì, questo si che sarebbe un nobel per la pace meritato! Oppure diamolo alla striscia di Gaza, perchè non c'è nessuno che sia più in prigione di così e più torturato di così eppure sono ancora umani, chi meriterebbe il nobel più di loro?

Minori palestinesi: violenza e arresti

CISGIORDANIA: MINORI PALESTINESI A RISCHIO DI VIOLENZA ED ARRESTI
I bambini palestinesi vanno protetti dagli arresti delle autorità israeliane. Questo è quanto ha affermato Falk, ex-professore della New York University ed ex Relatore speciale per l' ONU sui diritti umani, in una dichiarazione all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

MARTA FORTUNATO

Beit Sahour, 24 ottobre 2011, Nena News – Richard Falk lancia un appello ad Israele perchè prenda seri provvedimenti per la protezione dei bambini palestinesi della Cisgiordania: la salute, l’educazione e la sicurezza dei piccoli sono in grave pericolo a causa dell’occupazione israeliana.

I bambini palestinesi della Cisgiordania vanno protetti dalla violenza e dagli arresti delle autorità israeliane. Questo è quanto ha affermato Falk, ex-professore della New York University ed ex Relatore speciale per l’ ONU sui diritti umani, in una dichiarazione diretta all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Israele, secondo Richard, ha l’obbligo di prendere dei provvedimenti internazionali per i bimbi palestinesi poiché l’occupazione israeliana influenza negativamente la salute, l’educazione e la sicurezza dei minori.

Sulla base dei dati forniti da Falk, nel 2011 il numero di bambini palestinesi vittima di violenze da parte dei coloni israeliani è in forte aumento rispetto ai dati del 2010: il numero di feriti, 178, nei primi nove mesi del 2011, supera già il numero registrato l’anno scorso.

Un altro dato preoccupante riguarda il numero di bambini arrestati dalle autorità israeliane: ben 164 minori palestinesi, accusati principalmente di aver lanciato sassi, rimangono sotto custodia israeliana e non è ancora chiaro se saranno tra i 550 prigionieri che verranno rilasciati nel corso dei prossimi due mesi, secondo l’accordo tra Hamas ed Israele.

“Come stabilito dalla Convenzione dei Diritti del bambino, la detenzione dei minori dovrebbe essere utilizzata solo come misura di ultima istanza e per il minor tempo possibile” ha dichiarato Jean Gough, la rappresentante speciale dell’UNICEF nei Territori Palestinesi Occupati.

164 sono i minori ancora rinchiusi nella carceri israeliane, secondo i dati dell’Ong Defense for Children International (DCI) – Palestina, dati confermati anche dall’Israeli Prison Service: 35 sono di età compresa tra i 12 e i 15 anni, 129 hanno tra i 16 e i 17 anni. Meno della metà sono stati condannati, gli altri sono detenuti in attesa di processo.

“Da quando [mio figlio] è stato arrestato, non mi è stato permesso di vederlo o di parlare con lui” ha raccontato Khloud Abu Haneeh ad IRIN, il servizio dell’ufficio dell’Onu per gli Affari Umanitari. Il figlio quattordicenne, Rami, è stato arrestato poco più di un mese fa con l’accusa di aver lanciato sassi.
Una storia simile a quella di Sabri Awad, 16 anni, di Beit Ummar (area di Hebron), arrestato tre settimane fa, al quale è stato impedito di incontrare la sua famiglia e il suo avvocato.

Nel corso degli ultimi 10 anni oltre 7000 minori sono stati arrestati dalle autorità israeliane e secondo i dati del DCI ogni anni circa 700 bambini palestinesi di età compresa tra i 12 e i 17 anni vengono condannati dalle corti militari israeliane dopo essere stati arrestati. Si tratta di un sistema separato di tribunali militari che si applica solo per i Territori Palestinesi Occupati.

Essi sono soggetti alla legislazione militare in vigore in Cisgiordania che non si conforma al diritto internazionale e alla legge che vige in Israele. Pertanto alcuni diritti riservati ai minori ed alcune protezioni speciali come quella di avere i genitori in aula durante l’interrogatorio o di trascorrere un periodo in carcere solo in mancanza di altre soluzioni, vengono spesso violate dalle autorità israeliane e non vengono fatte valere per i minori palestinesi. Nemmeno la creazione nel 2010 di un tribunale militare minorile ha cambiato la situazione della Cisgiordania, dove i minori continuano a subire lo stesso trattamento degli adulti.

Il DCI pone inoltre l’accento sulle tecniche utilizzate dall’esercito israeliano durante gli arresti: spesso target dei soldati sono malati, disabili o bambini. Torture, ispezioni e maltrattamenti fisici e psicologici sono all’ordine del giorno: nel 2010 il DCI ha documentato 90 casi di maltrattamento contro minori nelle carceri israeliane. Anche l’organizzazione israeliana B’tselem, in un recente rapporto sui bambini palestinesi, ha descritto, attraverso l’intervista ai minori vittima di violenze, le modalità di cui le autorità israeliane si servono per arrestare e punire i minori.

“Erano le 2.30 di notte. I soldati israeliani sono entrati a casa nostra.” – M.S, 16 anni, ha raccontato a B’tselem – stavo dormendo e mia madre mi ha svegliato. Fui molto sorpreso nel vedere alcuni soldati dentro casa. Penso fossero cinque”.
Una volta arrestati molti minori non vengono interrogati subito, a volte possono trascorrere anche cinque giorni prima dell’interrogatorio. Nel frattempo sono costretti a subire maltrattamenti fisici e psicologici: viene loro impedito di dormire, mangiare o bere.
L’unica speranza è che i 164 bambini palestinesi, ancora nelle mani della autorità israeliane, vengano liberati nei prossimi mesi. Speranze in parte confermate dalle dichiarazioni del ministro degli esteri di Hamas, Ghazi Hamad: “Quasi 200 tra bambini e malati che sono tenuti prigionieri potrebbero essere parte della seconda ondata [di scarcerazioni]”. Nena News

Arresto di un bambino

Gli israeliani mettono la bandiera nera a lutto per la scarcerazione dei prigionieri palestinesi e nastri gialli per Shalit

Ma non un solo fanciullo, un solo bambino è stato liberato, mentre il prigioniero politico Saadat, leader del Fronte Popolare sta morendo in carcere. La bandiera nera gli israeliani la dovrebbero mettere per il lutto che hanno provocato e provocano ogni giorni al popolo palestinese uccidendo innocenti, incarcerando 700 bambini all'anno, confiscando e rubando terre e risorse , in pratica uccidendo la vita e il futuro dei palestinesi, la dovrebbero mettere per la loro ipocrisia, le loro menzogne, i loro crimini ancora impuniti.


Gideon Levy è un giornalista israeliano. Scrive per il quotidiano Ha’aretz.
L’ipocrisia israeliana sul caso Shalit

23 ottobre 2011
10.02

In Israele questo fine settimana si è discusso perfino del dopobarba di Gilad Shalit. Con sconfinata serietà, un noto opinionista ha riferito al paese galvanizzato il consiglio dato dagli esperti di psicologia dell’esercito israeliano: per rendere più facile il suo ritorno, i familiari dovevano mettere nella borsa anche il suo dopobarba preferito. Non meno grottesca la scritta che lampeggiava da un tabellone elettronico all’ingresso di un bar di Tel Aviv: “Brindate a prezzi speciali con vodka Absolut e Finlandia… Bentornato a casa, Gilad Shalit!”.

Shalit è tornato a casa il 18 ottobre, come si sperava, ma invece che in un paese è tornato in una telenovela in cui l’unico linguaggio è sempre e comunque quello delle emozioni. C’è da sperare che sia in buona salute mentale, ma non torna certamente in una società sana: torna in una società in preda alla psicosi. La psicosi nazionale che circonda la sua sorte è cominciata nel giorno in cui è stato fatto prigioniero e oggi sta toccando il livello più alto. Si è saputo che le forze armate israeliane gli hanno fatto trovare pronte alcune uniformi di taglia diversa da indossare, nell’eventualità che il “nostro ragazzo” nazionale abbia perso molto peso: ciò che conta è poterlo sfoggiare in divisa, come si addice a un eroe di guerra.

Il quotidiano Yedioth Ahronoth ha già lanciato una campagna pubblicitaria dissimulandola dietro il banner “Vuoi scrivere a Gilad?”. E le centinaia di migliaia di nastri gialli per ricordare Shalit che sventolavano da ogni albero e dal retrovisore di ogni automobile sventolano per l’ultima volta nella brezza autunnale. Ancora una volta Israele si darà una pacca sulla spalla: solidarietà melensa, fratellanza, responsabilità reciproca… nessuno è come noi! Nel fine settimana un generale di brigata a riposo ha scritto: “È proprio questa la differenza fra noi e loro”. Ma quale sarebbe, esattamente, questa differenza non si è capito. E un generale della riserva ha dichiarato: “Hamas ha un cuore di pietra”. Come se invece avesse un cuore d’oro chi tiene in carcere decine di migliaia di prigionieri palestinesi, alcuni detenuti politici, altri senza processo, altri ancora rinchiusi da anni senza poter essere visitati dai familiari.

In questi cinque anni non c’è israeliano che sia rimasto indifferente alla sorte di Shalit: è giusto che sia così, e c’è da esserne orgogliosi. Tanta umanizzazione di un unico militare, con il suo viso (pallido), i suoi genitori (nobili) e il nonno (angosciato), e perfino il fatto che è stato trasformato nel “nostro ragazzo”, sono segni di una società con il senso dell’umanità. E questo potrebbe perfino farci accettare la natura frenetica della società israeliana, capace di passare in un lampo da una situazione estrema all’altra: i due soldati che sono morti durante il rapimento di Shalit sono rimasti militi ignoti, mentre lui è diventato un eroe e un’icona, e Yitzhak Rabin, da premier detestato che era, è diventato un santo dall’oggi al domani. I militari dispersi sono stati dimenticati, altri che sono ancora prigionieri non sono mai stati trasformati in simboli della nazione, e solo Shalit è diventato ciò che è diventato. In cinque anni si contano sulle dita di una mano le edizioni di un qualsiasi telegiornale che non hanno parlato di lui. A quanto pare Shalit e i suoi genitori avevano qualcosa che ha catturato il cuore della nazione: e anche questo è un bene.

I problemi cominciano con queste nostre ridicole pretese a metterci in testa una corona: sono pretese ipocrite, vuote e cieche. La campagna per la liberazione di Shalit, non esente da aspetti ripugnanti – come il tentativo di impedire le visite ai prigionieri palestinesi –, si è trasformata in una campagna di stato, in un modo per dimostrare il nostro impegno civile: vuota e superficiale come “la gioventù delle candele”, che prima ha singhiozzato per l’assassinio di Rabin e poi, alle elezioni successive, ha votato per Benjamin Netanyahu.
Ma quale israeliano non è contro il terrorismo e a favore della liberazione di Shalit? Il punto è che quella stessa società in lacrime non ha avuto neanche per un attimo l’onestà e il coraggio di chiedersi perché Shalit fosse stato rapito. Neanche per un attimo ha trovato il coraggio e l’onestà di dire a se stessa che se andava avanti per la sua strada ci sarebbero stati molti altri Gilad Shalit uccisi o rapiti. E così alle elezioni ha votato ripetutamente governi centristi e di destra, proprio quelli che garantiscono che Shalit non sarà l’ultimo. Ha legato nastri gialli da tutte le parti, è stata d’accordo a issare bandiere nere in segno di lutto per lo scambio di prigionieri con Hamas.

Nessuno, però, ha mai trovato il coraggio e l’onestà di dire a questa società: Shalit è il prezzo inevitabile di uno stato che sceglie di vivere per sempre della forza delle armi. Nessuno l’ha mai messa di fronte a un interrogativo: perché si può trattare con Hamas sulla sorte di un unico soldato ma è proibito farlo per la sorte di due popoli feriti e sanguinanti? E così oggi la società israeliana si ammanta di superiorità morale, autoelogiandosi per l’angoscia provata per un unico soldato. Ma chi si preoccupa davvero per gli altri soldati, per un intero esercito, anzi per un intero popolo?

Traduzione di Marina Astrologo.

Internazionale, numero 920, 21 ottobre 2011

Dittatura a casa d'altri con macellazioni

Intanto vi prego di diffondere questi pochi secondi, protagonista l'orrenda dittatrice a casa d'altri H. Clinton in un siparietto fra due trasmissioni: http://www.youtube.com/watch?v=mlz3-OzcExI Il fatto che lei abbia chiesto a Tripoli il giorno prima di ucciderlo o prenderlo, e il giorno dopo ciò sia avvenuto,fa sorgere tante domande ma una certezza c'è: la Clinton che ride e parafrasa quell'altro criminale di Giulio Cesare, dopo le immagini di una macellazione con tortura, è la sintesi del pensiero dei governi e di buona parte delle popolazioni dell'Occidente consumista/militarista (a proposito, la ricostruzione della Libia con i soldi libici magari farà uscire dalla crisi alcuni paesi d'Occidente; una ragione di più per fare la guerra. Un investimento).

L'altra parte dell'Occidente possiamo identificarla con le tre scimiette "non sento non vedo non parlo". A questa appartengono quasi tutto il "movimento" e la "sinistra" occidentali. E non lo vediamo solo dai loro siti di questi giorni ma anche dal loro nulla lungo sette mesi. Un nulla totale (se glielo dici, ti rispondono che a marzo avevano fatto una dichiarazione contro la guerra). Perfino l'occasione d'oro del 15 ottobre, centinaia di città in piazza, è stata del tutto mancata. Eppure, un appello era stato lanciato.

Dimenticavo i media mainstream: a quale gruppo appartengono? a quello della Clinton, decisamente.

Marinella

AGGIUNGO QUESTO QUANTO ALLA DINAMICA DEL 20 OTTOBRE.
La macellazione di Muammar Gheddafi (giacché di macellazione si tratta en io sono contraria anche a quella degli animali) al di là dei non commentabili commenti dei leader politici (crimini in sè, quei commenti) ha seguito lo stesso andamento binario di questa guerra di riconquista.

1) La Nato ha fatto tutto il lavoro, permettendo la consegna di Gheddafi ai carnefici (e nei sette mesi precedenti permettendo un'avanzata degli anti-Gheddafi altrimenti impossibile malgrado le armi ricevute e il reclutamento di consiglieri e mercenari). La Nato ha fatto il lavoro asettico": i bombardamenti dall'alto magari con droni non prevedono contatti fisici con la vittima, "occhio non vede cuore non duole"
2)Gli alleati locali della Nato (non direi solo libici) hanno completato, direi accessoriato mettendoci del loro: hanno fatto il lavoro sporco, quello del carnefice che guarda e uccide la vittima. Non lo hanno fatto solo con Gheddafi; da mesi circolano video di inaudite crudeltà da pate dei "ribelli della Nato" (e nemmeno uno su crudeltà da parte dell'ex esercito libico pure accusato a parole di ogni nefandezza). Video ignorati. Alla luce della macellazione finale, quei video dovrebbero essere ristudiati in una denuncia per crimini di guerra.
Marinella Correggia

domenica 23 ottobre 2011

A proposito della manifestazione del 15 ottobre

Moni Ovadia : Chi mazza e chi starnazza

Il carrozzone mediatico, in questi ultimi giorni, come sua triste consuetudine ha messo in scena una mediocre rappresentazione spacciandola per un’altra. Ciò che abbiamo visto non è la condanna della cieca violenza luddista dei «neri» di piazza , ma l’ossessiva retorica di questa puntigliosa condanna. Pochi pensieri espressi con lucidità e passione da un brillante avvocato dell’associazione Sanprecario nel corso di   un collegamento esterno della trasmissione Piazza Pulita intitolata «le ragioni della rabbia» e le adamantine parole pronunciate nello stesso contesto dal segretario generale della Fiom sarebbero stati sufficienti a commentare la manifestazione degli indignados a Roma.
Ma i motivi del martellamento di immagini e del polverone starnazzante dei «commenti» ha il solo senso di non affrontare il merito della questione: la sacrosanta rabbia di tutte le persone che vengono espropriate del diritto alla vita. 
I padroni della finanza e del denaro e i politici se lo devono ficcare in testa: vita non è sinonimo di precaria e misera sopravvivenza, è il suo esatto contrario. La violenza di una esigua minoranza autoreferenziale, soprattutto in una manifestazione che prevede la presenza di famiglie con bambini ed anziani è l’esito perverso ed insensato di una giusta rabbia che deve portare ad una lotta democratica e condivisa con le forze più vive espresse dai ceti sfruttati ed espulsi dal lavoro e dalla dignità. 
Oggi con tutta probabilità siamo di fronte ad una crisi di sistema ed epocale dell’iperliberismo che è arrivato al capolinea. Per affrontarla non servono le mazze ma il cervello e l’organizzazione.

Terreni bruciati dai coloni a luglio 2011

Comincia la raccolta delle olive in Palestina, si intensificano le violenze dei coloni e dell'esercito per impedire il sostentamento dei contadini

Coloni ed esercito minacciano la raccolta delle olive a Burin
Thursday, 20 October 2011 13:38 Marta Fortunato, Alternative Information Center


Il villaggio di Burin si trova a pochi chilometri a sud di Nablus, sulle pendici di una collina coltivata con alberi di ulivo. Le due colonie, costruite nell'estremità nord (Bracha) e in quella sud del villaggio (Yitzhar), e i quattro avamposti che circondano Burin, rappresentano una costante minaccia per gli oltre 3500 abitanti del villaggio.
Da quando è iniziata la raccolta delle olive gli abitanti del villaggio sono stati minacciati dai coloni, intimiditi ed arrestati dall'esercito ed è stato loro impedito di raccogliere i frutti della loro terra.


“Raccogliamo olive da 12 giorni ma non si sa mai cosa succederà domani” ha raccontato all'Alternative Information Center Ibrahim, 28 anni, nato e cresciuto a Burin – una settimana fa è arrivato l'esercito dicendoci che la terra dove stavamo lavorando era una zona militare chiusa e siamo stati costretti a tornarcene a casa”.

In questo modo ogni giorno gli abitanti di Burin vanno a lavorare nei campi con il timore e la paura dell'arrivo dell'esercito israeliano e dei coloni dei vicini insediamenti ed avamposti.
“Siamo circondati – ha continuato Ibrahim – in ogni lato in cui si guarda si vedono colonie: ed ogni scusa è buona per impedirci di lavorare. Il nostro unico sostentamento deriva dalla terra che possediamo. Se non ci permettono nemmeno di raccogliere le olive quale sarà la nostra fine?”.
)

Proprio per evitare gravi atti di violenza e di saccheggio da parte dei coloni, gli abitanti del villaggio sono molto spesso accompagnati da giovani volontari internazionali nella raccolta delle olive il cui scopo è quello di monitorare eventuali violazioni e violenze di cui i palestinesi sono vittima.

L'episodio più grave si è registrato il 16 ottobre quando un gruppo di coloni dell'insediamento di Bracha è penetrato nelle terre degli abitanti di Burin e ha cercato di fotografare alcuni contadini dediti alla raccolta delle olive, sotto la sguardo dell'esercito israeliano. Hussain Hamed Najjar, 21 anni, è stato arrestato con l'accusa di aver buttato a terra una macchina fotografica di un colono.

“Sono molto preoccupato per Najjar” ha raccontato lo zio Akram – Egli è stato costretto a lasciare l'università per mantenere la sua famiglia dopo che il padre è stato arrestato dall'Autorità Palestinese”. Assieme ad Akram è stato arrestato anche Bashir Imran, 21 anni, che, tuttavia, è stato rilasciato 6 ore più tardi dopo essere stato bendato, lasciato sotto il sole e picchiato.
Si tratta solo degli ultimi episodi di violenza a cui gli abitanti di Burin sono regolarmente soggetti: a partire dal 2000 parte delle terre del villaggio sono state confiscate ed annesse agli insediamenti vicini e i coloni hanno attaccato i contadini ed incendiato le loro terre. Negli ultimi 10 anni il villaggio ha perso più di 16000 alberi di ulivo: esattamente un anno fa i coloni hanno dato fuoco a oltre 2500 ulivi del villaggio con la complicità dell'esercito israeliano, mentre poco più di due mesi fa si è registrato un nuovo episodio di violenza, come ha raccontato Abu Rabi'


“Più di 200 olivi sono stati dati alle fiamme, poco prima della stagione della raccolta. E' una grave perdita per noi, gli olivi rappresentano il nostro principale mezzo di sostentamento”. Anche molti alberi dai quali sta raccogliendo le olive sono bruciati: “le fiamme li hanno rovinati, chissà se si riprenderanno” ha affermato con sguardo preoccupato e rassegnato.

Anche Marwan, 15 anni, fratello di Ibrahim, nonostante la spensieratezza che sembrava trasmettere, ha tenuto sempre lo sguardo fisso verso l'alto, verso la cima della collina, dove sorge uno dei quattro avamposti che minacciano Burin. “L'esercito! L'esercito!” ha esclamato più volte durante la raccolta e ha iniziato a correre in giro per avvisare gli altri contadini – guardate in alto, guardate in alto!”. Due camionette dell'esercito ed alcuni coloni hanno stazionato per alcune ore in alto, monitorando l'area. “Oggi non sono intervenuti, ma nessuno sa cosa succederà domani” ha concluso Marwan.

sabato 22 ottobre 2011

VALZER CON BENJAMIN

Dopo lo scambio di prigionieri, Netanyahu appare in posizione di forza rispetto alla controparte palestinese. Tanto da dettare di nuovo le condizioni per un ritorno ai negoziati diretti, che Abu Mazen deve per forza rifiutare.

GIORGIA GRIFONI

Betlemme (Cisgiordania), 22 ottobre 2011, Nena News – Non poteva essere un momento migliore per Netanyahu. Acclamato in casa per aver liberato Gilad Shalit e all’estero per aver annunciato un congelamento molto parziale dell’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania per permettere di ritornare ai negoziati diretti, è in netta posizione di forza rispetto alle forze politiche presenti nel paese e alla controparte palestinese. Soprattutto perché Abu Mazen ha rifiutato il congelamento parziale.

Lo scambio di prigionieri di martedì scorso ha fatto emergere la vittoria di Netanyahu su entrambi i fronti interni. In primis perché è riuscito a riportare l’attenzione dell’opinione pubblica sui vecchi temi di nazionalismo e sicurezza, ribadendo ancora una volta che Israele tiene più alla libertà di uno dei suoi soldati che non alla prigionia di mille detenuti palestinesi. Ma ha soprattutto rassicurato l’estrema destra al governo, in quanto molti dei “pericolosi terroristi” che lo scambio avrebbe rimesso in libertà, non sarebbero tornati alle loro case in Cisgiordania o a Gaza.

Ha inoltre vinto contro le richieste di Hamas che, seppur forte del risultato storico raggiunto, non ce l’ha fatta a far liberare molti dei suoi e né a rimandare a casa un gran numero di ex-detenuti. Ma soprattutto si è aggiudicato questo round con Abu Mazen, indebolendone la posizione moderata con una semplice constatazione espressa, tra gli altri, anche dal leader di Hamas Khaled Meshaal : “Israele ha dimostrato ancora una volta che capisce solo la forza”.

Non contento dei successi conquistati, il premier israeliano ha osato di più: proporre un congelamento parziale delle colonie ebraiche in Cisgiordania a patto di poter tornare al tavolo dei negoziati con Abu Mazen. La mano tesa che offriva in apparenza ai palestinesi nel suo discorso all’assemblea generale delle Nazioni Unite il 23 settembre scorso? Non proprio, perché Netanyahu ci ha tenuto a chiarire due cose: le posizioni di Israele non sono cambiate – quindi niente precondizioni ai colloqui con l’Autorità nazionale palestinese – e il congelamento comprende solo gli appalti pubblici. Ne resta fuori la maggior parte delle costruzioni in Cisgiordania, che sono affidate ad appaltatori privati.

La leadership palestinese non poteva fare altro che rifiutare. Per non compromettere la linea ferma della precondizione al dialogo –congelamento totale degli insediamenti- e per rafforzare una posizione minata dal grande successo di Hamas tra i palestinesi. Fonti diplomatiche sul quotidiano Haaretz avevano dato per compromesso il ritorno ai negoziati dopo lo scambio di prigionieri, in quanto avrebbe minato la posizione di Abu Mazen come partner esclusivo nel dialogo con Israele. Nonostante l’annuncio fatto ieri dall’Autorità palestinese di essere pronta a dialogare con il Quartetto solo dopo lo stop totale agli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme est, Abu Mazen ha rifiutato l’offerta di Netanyahu. Ancora una volta.

È proprio questa la strategia del premier israeliano: fare offerte che impediscano ai palestinesi di accettare. Uno stop delle costruzioni fatte con appalti governativi non è uno stop totale. Ma poco importa, perché questa è la storia che si ripete: abbiamo offerto e i palestinesi hanno rifiutato, abbiamo concesso e Abu Mazen non ha voluto. E qualcuno l’11 novembre prossimo -giorno della votazione in Consiglio di sicurezza sulla richiesta palestinese di diventare stato membro- ricorderà al mondo che “ancora una volta”,i Palestinesi hanno rifiutato l’opportunità di sedersi al tavolo dei negoziati con Israele. Nena News

Comunicato protesta FestivalStoria su tentata interruzione conferenza Prof. Shlomo Sand

La direzione di FestivalStoria e tutto lo staff esprimono la più ferma censura dell’azione provocatoria posta in essere da un gruppetto di intolleranti facinorosi – tra i quali sono stati individuati esponenti dell’Associazione Italia-Israele, non nuova a questo genere di “imprese” – contro il professore Shlomo Sand dell’Università di Tel Aviv, nel corso della sua conferenza, che si è tenuta venerdì 14 ottobre
all’Università di Torino, nella sede della Facoltà di Scienze Politiche.
Il professor Sand, invitato a partecipare alla VII Edizione del Festival, è stato oggetto fin dai primi minuti della sua conferenza, di volgari aggressioni verbali da parte di individui che hanno via via aumentato il livello della loro “contestazione”, priva di qualunque fondamento scientifico, nella precisa intenzione di impedire la conferenza. Solo l’intervento delle forze di polizia ha alla fine sedato i provocatori che si sono peraltro attardati all’uscita continuando a ingiuriare e vociare.

Poiché non è la prima volta che questa associazione interviene a turbare gli eventi del Festival, la Direzione di FestivalStoria e lo staff esprimono una pubblica protesta invitando le autorità e l’opinione pubblica a svolgere l’opportuna vigilanza.

Il professor Shlomo Sand, che era stato invitato a presentare i temi del suo libro (edito in italiano da Rizzoli, tradotto in 20 lingue diverse) ha commentato che, nel corso delle decine e decine di presentazioni del volume, in numerosi paesi del mondo, oltre che in Israele, mai si era verificato un episodio paragonabile a questo.

FestivalStoria gli porge le scuse più sentite e pone un interrogativo a tutti: la parola “Israele” è il tabù della nostra epoca?

venerdì 21 ottobre 2011

QUESTE SONO SOLO ALCUNE DELLE IMMAGINI CHE TESTIMONIANO L'INFILTRAZIONE DELLA POLIZIA NEL CORTEO DEL 15 OTTOBRE

Libia. MACELLAZIONI FINALI

Libia. MACELLAZIONI FINALI, CARNEFICI (NATO-CNT), PLAUDENTI (BAN KI MOON, NAPOLITANO, UE…) E ASTENUTI
1. Ecco la nuova Libia di Napolitano, di Ban Ki Moon, di Barroso e di tutti gli altri che hanno espresso oggi soddisfazione. Eccola in questo video atroce: fra tante altre immagini che invece erano montaggi (http://www.youtube.com/watch?v=75YhFScM5sU&feature=share&skipcontrinter=1) riprende un essere umano gravemente ferito, strattonato, circondato dalle blasfeme urla “allah u akbar” che accompagnano le esecuzioni di Al Qaeda, in Iraq come in Libia (da mesi ormai), come altrove. Macellazione: il termine è appropriato, perché il sangue scorre, le urla di soddisfazione degli esecutori si levano come gli onnipresenti colpi di fucile, e l’indifferenza per le sofferenze dei viventi scannati è la stessa che c’è nei macelli per animali. Del resto, ricordate che in Iraq, i militari americani dicevano ridacchiando di aver fatto il tiro al piccione con i soldati iracheni? In Libia, Nato e i suoi alleati del Cnt hanno fatto tabula rasa di molti civili e di moltissimi lealisti; e dire che avrebbero dovuto limitarsi a far rispettare la no-fly zone e a proteggere i civili se minacciati. Chi minacciava in civili in genere (e tanto più nel caso delle città assediate da fine agosto)? Le truppe armate del Cnt. Alleate e protette dalla Nato come se fossero civili.

2. Allucinante, un assassinio ordinato o compiuto direttamente dalla Nato dai paesi “democratici”. Dai paesi consumisti e militaristi, anche durante la crisi. Allucinante ma non per Ban Ki Moon, per il quale questa giornata è “storica” per la Libia. Ban Ki Moon è il segretario generale delle Nazioni Unite!! Lo stesso che non ha speso un parola su questa guerra, nemmeno sui civili di Sirte assediati e uccisi (e immaginarsi se può provare pietà per i soldati libici sui quali la nato ha fatto il tiro al tacchino. E Napolitano? Anche lui contento. Napolitano è il presidente della Repubblica italiana: ci rappresenta davvero questo guerrafondaio capo (il più accanito di tutti, a parlare di “iniziativa umanitaria”)? E i capi dell’Unione Europea che si compiacciono della nuova era? Ci rappresentano? Forse sì. Questo è l’”orrore su cui si fonda il consumismo” (frase di un’amica); sì, anche in tempi di crisi.

3. Oggi 20 ottobre vicino a Bani Walid è stato assassinato anche Sheik Ali, ottant’anni, capo tribale della tribù Warfalla. Uomo di pace, non aveva in casa nemmeno un fucile da caccia.

4. Non si è risparmiato nulla ai perdenti, per ridicolizzarli meglio. Un pro-Cnt (di quelli che senza la Nato non avrebbero fatto un passo) mostra la “pistola d’oro” che avrebbero trovato nelle tasche di Gheddafi! E poi naturalmente, dove l’hanno trovato ferito (è poi “morto in custodia”)? Saddam lo pescarono, barbone, in una buca, per avviarlo subito alla forca. Gheddafi, dicono, si era rifugiato ferito in un tubo di cemento sporgente dalla sabbia. Così hanno cercato di annullare il fatto che sia rimasto fino all’ultimo nel luogo della Libia più pericoloso, Sirte.

5. E’ stata la Nato a colpirlo? Ecco cosa dice il colonnello Lavoie in una di quelle dichiarazioni che a leggerle rivelerebbero altrettanti crimini di guerra o violazioni della risoluzione 1973 (alla quale la Nato ha continuato ad aggrapparsi): “aerei della Nato hanno colpito due veicoli militari pro-Gheddafi che facevano parte di un gruppo di veicoli militari che manovravano vicino a Sirte”. Allora ho chiesto all’ufficio stampa della Nato (cjtfuppress@jfcnp.nato.int): come mai avete colpito quei veicoli?”. Loro, coda di paglia, si lanciano in una excusatio non petita: “La Nato li ha colpiti perché erano una minaccia per i civili. La Nato non prende di mira individui specifici”. Allora ho risposto: “Non vi ho chiesto quale obiettivo specifico fosse quello. Ma in che modo minacciavano i civili? Dov’erano i civili minacciati?”. Allora hanno fatto rispondere a Lavoie: “given the nature of their conduct these armed vehicles continued to represent a threat towards civilians”. “Data la natura del loro comportamento, erano una minaccia. I combattimenti sono continuati fino alla caduta di Sirte”. Il tirapiedi di Lavoie aggiunge che non può aggiungere altro. Ma è chiarissimo: visto che Lavoie si riferisce ai combattimenti, significa che gli unici civili che la Nato ha voluto proteggere sin fall’inizio del resto, erano gli armati del Cnt. Ma ciò è illegale.

6. Dunque quando si farà un processo alla Nato sarà sempre troppo tardi.

7. E qui, gli occidentali – anche i “movimenti” - che sanno tutto (ma anche là, gli arabi addormentati da Al Jazeera), che hanno fatto? Non ha indignato quasi nessuno, nemmeno gli indignati, il macello che dura dall’inizio delle bombe (già: prima, i famosi 10mila o seimila morti erano stati un’invenzione. Lo hanno dichiarato gli stessi che l’avevano denunciato all’Onu…). Forse perché qui è dal 1945 che il cielo non ammazza di bombe e molti difettano di immaginazione. Adesso diranno: “Eh però era meglio processarlo…”. Siamo democratici e civili, noi gli altri li processiamo gli altri (noi stessi mai). Ammazziamo solo con le bombe e la rapina economica ed ecologica. Di cui le guerre come questa sono conseguenza e causa. Ma come mai non se ne rendono conto?

Marinella Correggia