mercoledì 30 novembre 2011

EGITTO: DA DOVE VIENE SECONDA ONDATA RIVOLUZIONE

E' necessario capire da dove venga l'attuale protesta che non ha mancato di sorprendere molti, inclusi alcuni militanti di sinistra, soprattutto tra quanti hanno deciso di partecipare al voto, all'ombra della giunta militare

GENNARO GERVASIO*

Il Cairo, 29 novembre 2011, Nena News - La seconda ondata della «rivoluzione egiziana» che ha travolto il paese e ha avuto ancora una volta come epicentro piazza Tahrir ha travolto anche molti degli attori politici e molti degli osservatori locali ed internazionali. La determinazione di giovani rivoluzionari è riuscita a tenere in scacco le Forze di sicurezza centrale (Fsc) e la polizia militare difendendo l’occupazione della piazza, durante cinque giorni di vera e propria guerriglia, che è costata la vita a più di quaranta persone, oltre a più di tremila feriti, a citare le stime più prudenti.

E’ necessario fare un passo indietro per cercare di capire da dove venga l’attuale ondata di proteste che non ha mancato di sorprendere molti, inclusi alcuni militanti di sinistra, soprattutto tra quanti che hanno deciso di partecipare alla competizione elettorale, all’ombra del potere del Consiglio supremo delle forze armate (Csfa), che di fatto ha ereditato il potere da Mubarak lo scorso febbraio. Lungi quanto ancora affermano alcuni media occidentali, la «rivoluzione di gennaio» non era stata una «rivoluzione dei social network», né era stata dominata dalla partecipazione della classi medie o privilegiate. È vero che gruppi di attivisti di tendenza laica, molto attivi su internet e poco presenti nelle strade del paese, avevano lanciato l’appello per la manifestazione del 25 gennaio 2011 e l’avevano iniziata, tuttavia la rivolta era stata alimentata e sostenuta, nelle sue ore più drammatiche in cui la repressione governativa si era scatenata contro i manifestanti, dai giovani provenienti dalle classi subalterne, dai «ragazzi di strada» e dagli emarginati da sempre vittime dei soprusi del regime e del suo braccio armato, le Fcs. Questa massa rivoluzionaria, per niente organizzata e ancora meno politicizzata, era scesa in piazza a gennaio proprio perché non aveva più nulla da perdere, tanto era deteriorata la situazione economica del paese, in seguito all’applicazione delle ricette neo-liberiste da parte di Gamal Mubarak, delfino dell’ex presidente, e dell’élite politico economica a lui vicina. Questi giovani, provenienti dalle periferie e dagli slums del Cairo e delle altre città, come pure dalle campagne, hanno pagato spesso con la vita la loro partecipazione ai moti di gennaio. Eppure, dopo l’insediamento al potere del Csfa e l’inizio della «normalizzazione» post-rivoluzionaria, ben presto i gruppi subalterni, come peraltro la classe medio-bassa, si sono trovati marginalizzati dal cosiddetto processo di transizione, dominato dall’élite militare in accordo, aperto o tacito, con alcune forze politiche, a cominciare dai partiti islamici. A ben vedere, il dato più sconcertante fino a qualche settimana fa, non era la prevedibile mancanza di entusiasmo del Csfa nel guidare il processo di transizione, quanto la quasi totale assenza dei problemi – aumentati dalla crisi economica post-rivoluzionaria – delle classi meno abbienti sia dalle preoccupazioni dei militari sia dai programmi elettorali degli islamisti e di molti dei nuovi partiti (oltre cinquanta) scaturiti dalla rivolta di gennaio. Pertanto, uno sguardo a volo d’uccello sullo scenario politico egiziano alla vigilia delle elezioni non poteva che suggerire un ragionevole pessimismo, basato sulla sensazione che ben poco fosse cambiato e che la distanza tra il popolo d’Egitto e la sua classe politica fosse addirittura aumentato.

Tuttavia, se si abbandonava questo sguardo dall’alto, per guardare alla parte opposta della piramide socio-politica egiziana, si scopriva invece che il cambiamento era già in atto e lo spirito della rivoluzione di gennaio era ben desto, ancor prima di manifestarsi in modo così prepotente in piazza Tahrir, negli ultimi giorni. Ci si riferisce all’ondata di scioperi, proteste, sit-in, che hanno visto migliaia di cittadini invocare i propri diritti, senza mediazioni, soprattutto nell’ancora elefantiaco settore pubblico. Nei blocchi stradali degli operai, nello sciopero degli autisti del servizio pubblico urbano, dei lavoratori della metropolitana e dei docenti, si poteva già intravvedere non solo la continuazione dello spirito partecipativo rivoluzionario di gennaio scorso, ma anche la netta cesura tra il vecchio sistema clientelare dominato dai sindacati di stato, e un modalità nuova, ancora tutta da costruire, di ridefinire il rapporto tra il potere e il comune cittadino.

Le manifestazioni della scorsa settimana costituiscono il più evidente ritorno della politica di strada e delle classi subalterne emarginate dal processo politico post-rivoluzionario. I giovani manifestanti, come in molti altri paesi, chiedono i loro diritti e il compimento di una vera rivoluzione che restituisca loro la dignità (al-karama) e la speranza nell’avvenire, inesistente fino a gennaio e poi sfumata nell’ombra dei palazzi del potere. La sinistra, sia quella che, avanzando più di un dubbio sulla bontà di una competizione elettorale da tenersi sotto la supervisione di un regime per nulla cambiato, ha deciso di boicottare le elezioni, sia quella che è invece si presenta nell’alleanza «La rivoluzione continua» e in liste indipendenti, dovrà inventarsi un nuovo linguaggio e un nuovo modo di fare politica, appoggiandosi alla proficua esperienza dei sindacati indipendenti, per dare rappresentanza a questo movimento di protesta senza leader e senza strategia, ma con una grande voglia di dire, una volta ancora,kifaya (basta!) a poteri autoritari e demagogici vecchi e nuovi.

*Docente di storia e politica del Medio Oriente alla British University of Egypt e alla Macquarie University di Sydney.

Questo articolo e’ stato pubblicato il 20 novembre 2011 dal quotidiano Il Manifesto

Aggrediti rifugiati kurdi del centro Arafat a Testaccio

Comunicato stampa: aggressione contro il centro socio-culturale Ararat di Testaccio

Il giorno 26 novembre, tra le 22.30 e le 23.00, una trentina di uomini armati di bastoni di ferro a volto scoperto ha tentato di fare irruzione nel centro Ararat di Testaccio a Roma entrando nel cortile antistante al centro, rompendo tavoli, sedie e vetri e costringendo i rifugiati politici kurdi lì ospitati a chiudersi dentro la sede. Gli aggressori hanno ripetutamente minacciato i kurdi intimandogli di non uscire più da Ararat e di non farsi vedere per il vicino quartiere di Testaccio, che ospita numerosi locali notturni. Solo il sangue freddo mostrato da alcuni dei rifugiati presenti ha impedito il precipitare degli avvenimenti. L’episodio sembrerebbe una “spedizione punitiva” organizzata dal giro dei buttafuori di alcuni tra questi locali, infastiditi dalla presenza di alcuni rifugiati nelle vicinanze. I carabinieri, accorsi sul posto dopo che queste persone si erano dileguate, hanno potuto accertare i danni e accompagnato i testimoni nei locali notturni della zona.
Non è possibile tollerare o minimizzare questo atto gravissimo che ha avuto come obiettivo dei rifugiati, visti evidentemente come persone deboli che si può impunemente colpire. Chiediamo alle istituzioni e alla società civile di vigilare per evitare che episodi come quello di ieri sera abbiano a ripetersi con conseguenze non prevedibili.
Rete Kurdistan Roma
Per info: 3498327322; retekurdistanroma@gmail.com; ass.senzaconfine@gmail.com
_______________________________________________
Coordinamentokurdistan mailing list
Coordinamentokurdistan@gnumerica.org
https://lists.circolab.net/mailman/listinfo/coordinamentokurdistan

lunedì 28 novembre 2011

Tsahal: silenzi e voci critiche.

Intervista a Breaking The Silence


Giugno 2004, Tel Aviv, una brigata in congedo inaugura una mostra di foto ed oggetti1 provenienti da Hebron. Era l'inizio di Breaking the Silence (BTS). Intervistiamo Yehuda Shaul, co-fondatore dell'ONG. BTS sono 800 soldati che hanno compiuto il servizio militare durante o dopo la Seconda Intifada, che effettuano interviste a commilitoni che verificano e pubblicano (100 all'anno) ed attività educative - tour e conferenze, 400 all'anno - il 40% sono dirette a ragazzi/e, nell'anno precedente alla leva.

Chi è Yehuda Shaul?
Sono un ebreo religioso ortodosso, ma quando ero comandante militare a Hebron non mi mettevo la kippá: non volevo che i miei soldati associassero il mio D-o con quello dei coloni. Il mio D-o non lascia Magen David sulle porte di negozi che ha obbligato a chiudere, il mio D-o non sigilla, non rende 'sterili' le strade impedendo ai palestinesi di passare e aprire i negozi.

BTS è stata criticata perché protegge l'anonimato delle fonti. Secondo lei, l'accusa è giustificata?
Se i mezzi di comunicazione israeliani facessero il loro mestiere non ci sarebbe bisogno di BTS: purtroppo questo non avviene. Noi giornalisti abbiamo il diritto di tutelare l'anonimato delle fonti. Un terzo di quelli che intervistiamo sono ancora in servizio quando decidono di parlarci, violando le norme militari. Ogni militare, uomo o donna, che ci racconta dei suoi atti durante il servizio militare, deve fare fronte a gravi implicazioni sociali e legali. Abbiamo un progetto in cui i testimoni raccontano le loro esperienze direttamente ed a volto scoperto: http://www.breakingthesilence.org.il/testimonies/videos. Più di 50 soldati hanno già rivelato la loro identità. Portiamo avanti questo lavoro per ridurre al minimo le scappatoie sociali che permettono di non rendersi conto di ciò che davvero avviene nei Territori Occupati.

Cos'è davvero l'occupazione?
In realtà, non si occupa la terra: si occupano le persone. Si mantiene un'intera nazione sotto controllo militare. Questo è indiscutibile. I palestinesi nei Territori Occupati non hanno diritti. Sono spogliati in milioni della loro dignità; un sergente di 19 anni può decidere della loro vita.

“Tsahal2 utilizza tattiche di autodifesa, gli eccessi sono saltuari”. È d'accordo?
Il problema non è l'esercito ma il compito politico assegnato ai soldati. Non credo che si possano mandare i militari a controllare una nazione per più di quarant'anni pensando che tutto fili liscio. Se da militare sei mandato in una situazione in cui c'è qualcuno che ha dei diritti e qualcuno che non ne ha, non puoi fare il tuo lavoro diversamente. Nessuno dei soldati che ha prestato servizio nei Territori Occupati ha le mani pulite.

Perché svolgete a Hebron gran parte del lavoro per sensibilizzare la società israeliana?
Hebron è l'unico centro palestinese, oltre a Gerusalemme Est, in cui le colonie sono nel centro della città: è una situazione unica. Hebron è un modello dell'occupazione in miniatura; l'hanno trasformata in una città fantasma. Questo tramite tre classiche politiche israeliane. La prima consiste nello 'sterilizzare', vale a dire proibire la presenza palestinese; la seconda nelle tattiche militari denominate 'far sentire la presenza (dell'esercito)', e cioè intimidire la popolazione, imporre il coprifuoco etc; la terza nella connivenza con gli atti violenti dei coloni. Come ben spiega B'Tselem, il risultato è che nel centro città il 42% degli abitanti - 1.014 famiglie3 – sono state costrette ad andare via. I difensori dello statu quo sostengono che Hebron è un caso estremo. Per noi è un microcosmo di due chilometri quadrati: se cammini per mezza giornata, puoi capire come funziona l'occupazione nel resto della Cisgiordania. Hebron è quindi un punto interrogativo per l'ebraismo del 2011: avere dei legami storici, religiosi e/o nazionali con una terra ti dà il diritto di far questo? Occorre chiedersi se le azioni israeliane si possono percepire come minimamente ebraiche, o no.

C'è un collegamento tra l'ideologia e la pratica della colonizzazione dei Territori Occupati e i protocolli di azione dell'esercito?
Per Bibi [Netanyahu ndr], Lieberman ed i loro sostenitori, il diritto di Israele ad esistere è il diritto ad occupare. Per me è un attacco colossale alla civiltà di Israele: per i nostri governanti, l'unico modo di garantire l'autodeterminazione israeliana è assicurare che i palestinesi non vi accedano. Secondo loro, perché gli ebrei ottengano diritti occorre assicurarsi che chi non è ebreo non ne abbia. Credo che sia un concetto profondamente antisionista. Un'idea sionista potrebbe essere: 'Siamo stufi che altri ci governino e ci amministrino: vogliamo governarci da noi e plasmare il nostro destino'. A mio avviso rivela passività sostenere: 'Non ci sono alternative, siamo condannati a vivere così”. Per loro, l'unico modo di vivere qui è assicurarsi che nessun altro possa avere la nostra libertà.

Cosa ha significato Piombo Fuso per l'ethos di Tsahal? Alcuni hanno sostenuto che i rabbini dell'esercito avevano avuto un ruolo nel preparare psicologicamente i soldati. Cosa emerge dalle testimonianze a BTS?
Già solo il permettere che determinato materiale circolasse con il logo, il timbro e la firma del comando è importante. I documenti trovati nella sede del rabbinato militare durante Piombo Fuso segnalano quale fosse l'atmosfera permessa dal comando. Nei volantini distribuiti ai soldati prima dell'operazione si comparavano i palestinesi con i filistei, con moltissimi commenti estremamente razzisti. Si incitava a rimuovere i limiti della vecchia scuola, a 'togliersi i guanti'. A Gaza abbiamo oltrepassato tutte le linee rosse della prassi militare israeliana fin dal 2002. Ho finito il servizio militare nel 2004 ed ho ascoltato un buon numero di storie orribili di comportamenti di soldati, ma ai primi due che si sono presentati a parlarci dopo Piombo Fuso non riuscivo a credere. Parlavano di un esercito che non conoscevo.
Dopo aver ascoltato 50 militari che non si conoscono, ma che raccontano la stessa storia - 50 persone, di diverse unità, con gradi differenti, intervenuti in diversi momenti dell'operazione, in zone differenti, allora cominci a crederci: protocolli di azione estremamente permissivi, tattiche usate in presenza di popolazione civile, demolizioni di proprietà private senza ragioni operative, tipo di armamento, uso di fosforo bianco, bombardamenti di artiglieria in aree urbane...

BTS è considerata un nemico della società israeliana?
Se non ti piaci, non hai voglia di guardarti allo specchio. BTS offe alla società la possibilità di specchiarsi. Capiamo perché c'è chi si infuria: tocchiamo un argomento estremamente sensibile, dato che l'esercito ha un ruolo importante nella società. La gente ha il diritto di sostenere che per loro devi smettere di dire brutte cose su di loro e sull'esercito. È molto diverso se è il governo a determinare cosa puoi dire e cosa devi tacere.

Esiste un rapporto tra il lavoro di BTS e il fatto che siano presentate proposte di legge4 per rendere più stretti i controlli e limitare le attività delle ONG?
Probabilmente sì. Ma questo non fa che dimostrare come i nostri parlamentari concepiscono la democrazia. In Israele potevi esprimere le idee più radicali e, fino a 3 o 4 anni fa, nessuno ti avrebbe imbrattato la porta di casa con lo spray. Rabin, primo ministro, è stato assassinato, ma non ne era stato responsabile il potere esecutivo. Questo governo, invece, si adopera per distruggere la nostra organizzazione.

Il lavoro di BTS può alimentare reazioni antisemite?
La migliore campagna pubblicitaria per l'antisemitismo è l'occupazione. Non c'è bisogno di BTS per diventare antisemiti. Battendoci contro l'occupazione combattiamo l'antisemitismo; è importante farlo come israeliani. Non è che se non ci fosse l'occupazione non ci sarebbe più antisemitismo, ma la macchina rimarrebbe senza il carburante principale.

La presenza militare israeliana in Cisgiordania c'entra con la 'sicurezza'?
La questione è un'altra: cosa siamo autorizzati a fare in nome della sicurezza? Sei autorizzato o no a mantenere un'occupazione prolungata su un altro popolo? Viviamo in una cultura per la quale Israele non è in Medio Oriente ma in Europa. Che ritiene che i nostri vicini non sono la Siria o l'Egitto bensì l'Italia o la Francia, che non c'è alcuna necessità di integrarsi, ne' di essere parte di questa regione. Si tratta di capire, invece, che ci troviamo in Medio Oriente.

Ci sono alternative per proteggere i civili israeliani?
Quando pattugliavo il confine con il Libano, il mio obiettivo era chiaro: proteggere e difendere il confine. Quando pattugliavo Hebron avevo una missione chiara: proteggere e difendere gli abitanti ebrei dell'area. Si percepisce la differenza? Se vuoi discutere di sicurezza devi allontanare mezzo milione di coloni dalla Cisgiordania. I nostri parenti più anziani sono venuti qui come rifugiati. Con questo non voglio assolutamente negare che nel '48 Israele abbia commesso azioni orribili. Ma il contesto era quello di una nazione di profughi che lottava per un posto in cui vivere. Al contrario, dal '67 ad oggi, Israele insiste nel sostenere di essere un'entità coloniale. Da fuori si tende a guardare alla situazione come a un gioco a somma zero tra israeliani e palestinesi, tra pro-e anti-: o stai da una parte o stai dall'altra. Il modo giusto di pensare al conflitto è un altro: sostenere occupazione e violenza od opporvisi.

BTS si dirige al pubblico anche fuori da Israele. Qual'è il vostro messaggio?
Che come ex soldati, come israeliani e come ebrei abbiamo la responsabilità di comunicare quel che avviene nei Territori Occupati: abbiamo responsabilità civili ed etiche per ciò che si compie in nostro nome. Le comunità ebraiche all'estero hanno da assumere un ruolo positivo ed una responsabilità precisa: denunciare l'occupazione.

Gli Europei si appellano ai supermercati e ai governi affinchè mettano l'apartheid fuori dei menù Share3

Comunicato del Comitato nazionale palestinese per il boicottaggio

Gli attivisti europei affermano che le importazioni di frutta e verdura da parte di Israele facilitano le violazioni dei diritti dei palestinesi e del diritto internazionale
Più di 60 le azioni che si svolgono in 10 paesi

fuorilapartheidPalestina occupata, 27 novembre – Un'ondata di manifestazioni, flash mob e azioni di pressione da parte di attivisti europei per i diritti umani, sindacalisti, organizzazioni non governative e gruppi religiosi ha chiesto di porre fine al commercio con le aziende israeliane di esportazioni agricole come Mehadrin e Agrexco a causa della loro complicità con le violazioni israeliane del diritto internazionale e diritti dei palestinesi.

Le azioni, organizzate sotto la sigla "Fuori l'Apartheid dal menù", coincidono con la Giornata delle Nazioni Unite di solidarietà con il Popolo Palestinese del 29 novembre, volta a sensibilizzare l'opinione pubblica circa il ruolo che le aziende agricole israeliane svolgono nel furto di terra e risorse palestinesi nei territori palestinesi illegalmente occupati e nello sfruttamento dei lavoratori palestinesi.

Delle dimostrazioni si sono svolte al di fuori della sede centrale britannica e francese del principale esportatore di frutta e verdura israeliano, la Mehadrin, che esporta prodotti provenienti da colonie israeliane illegali nei territori occupati palestinesi e che lavora con Mekerot, una società di proprietà statale che priva dell'acqua le comunità palestinesi. Gli attivisti di Roma hanno organizzato uno spezzone sulla Palestina alla manifestazione nazionale per l'accesso all'acqua ad un giusto prezzo per tutti.

Jamal Juma', coordinatore di Stop the Wall, la campagna palestinese contro il muro dell'apartheid che sta lavorando per supportare Al Hadidiye, una comunità di beduini su territorio palestinese occupato a cui sono stati recentemente consegnati ordini di demolizione dalle autorità israeliane, ha detto: "Ai residenti di Al Hadidye viene negato l'accesso all'acqua e di conseguenza possono solo allevare bestiame. Nei vicini insediamenti illegali di Ro'i e Beqa'ot, i prodotti agricoli sono coltivati con abbondanza d'acqua rubata per l'esportazione verso l'Europa da Mehadrin e da altre società, e sono queste le aziende che trarranno beneficio dalle minacciate demolizioni di Al Hadidye . "

"Aziende come la Mehadrin traggono profitto e spesso sono direttamente coinvolte nella colonizzazione della terra palestinese e nel furto delle nostre risorse. Il commercio con aziende come queste costituisce una forma importante di sostegno per il regime di apartheid di Israele sul popolo palestinese e deve essere portata a termine ", Juma' ha aggiunto.

Gli attivisti in Belgio, Gran Bretagna, Germania, Svizzera, Norvegia e Svezia hanno picchettato dei supermercati, invitando i consumatori a boicottare i prodotti delle aziende israeliane di esportazione di prodotti agricoli e chiedendo ai supermercati di non venderne più. Molti si sono concentrati sui supermercati di cooperative, che sono tradizionalmente visti avere standard etici più elevati rispetto agli altri supermercati più commerciali.

"Le campagne popolari di BDS e la pressione pubblica che deriva da esse hanno già costretto supermercati in diversi paesi europei ad implementare politiche che sostengano l'impedimento alla vendita di prodotti provenienti da colonie illegali di Israele", ha detto Awwad Hind, coordinatrice del Comitato Nazionale Palestinese della campagna di BDS.

"Ma sono le aziende di esportazioni agricole israeliane che hanno la responsabilità per la complicità con le violazioni di Israele del diritto internazionale, non i singoli prodotti. Queste aziende hanno dimostrato di indurre in errore il consumatore circa l'origine dei prodotti che vendono. Ecco perché gli attivisti chiedono la fine completa del commercio con queste aziende ", ha aggiunto.

In Belgio, gli attivisti hanno tenuto azioni di pressione alla sede del Ministero dell'Economia, per protestare contro la vendita nei supermercati belgi di prodotti coltivati negli insediamenti illegali di Israele nei territori occupati palestinesi.

"I governi europei hanno il dovere di ritenere Israele responsabile per le sue violazioni del diritto internazionale ma l'Europa rimane il più grande mercato per i prodotti agricoli israeliani, compresi i prodotti provenienti da insediamenti illegali israeliani. Un divieto di commercio con gli esportatori israeliani di prodotti agricoli sarebbe in linea con le politiche dichiarate sulla illegalità delle colonie illegali di Israele ", ha detto Awwad.

In Gran Bretagna, gli attivisti hanno picchettato gli uffici delle filiali britanniche di aziende agricole israeliane, comprese la Bickel Flowers e la Edom. Insieme alla società israeliana Orian, la Bickel Flowers ha acquistato di recente l'azienda israeliana di esportazione Agrexco, che era in crisi e che è stata posta in liquidazione dopo la pubblicazione delle loro perdite record e per il fatto di non essere riuscita a pagare i suoi creditori. Gli attivisti sostengono che la loro campagna a livello europeo contro la società, tra cui il boicottaggio popolare, i picchetti nei supermercati, i blocchi dei locali aziendali e le azioni di pressione, siano stati uno dei fattori principali per il collasso della società.

Le azioni si sono svolte come parte del movimento che sta rapidamente emergendo, guidato dai Palestinesi, per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) contro Israele fino a quando non sia conforme al diritto internazionale.

Comitato nazionale palestinese per il boicottaggio
info@bdsmovement.net

NOTE PER GLI EDITORI

1. Una mappa interattiva di tutte le azioni si puo' trovare su http://www.bdsmovement.net/activecamps/take-apartheid-off-the-menu

Per ulteriori informazioni di base, vedere

http://www.bdsmovement.net/activecamps/take-apartheid-off-the-menu#.Tsuwm3OVtMc

2. Mehadrin è diventata la più grande società di esportazione agricola di Israele dopo il crollo dell'Agrexco.

L'azienda esporta prodotti proveniente dagli insediamenti illegali, tra cui Beqa'ot nella valle del Giordano. Durante le interviste con dei ricercatori, i lavoratori palestinesi del villaggio hanno spiegato che guadagnano addirittura anche solo € 11 al giorno. Uva e datteri confezionati nello stabilimento sono stati tutti etichettati come 'Prodotto di Israele'.

Il ruolo della Mehadrin nel fornire acqua agli agricoltori e i suoi rapporti con la società israeliana di stato per l'acqua Mekorot, rende l'azienda direttamente complice con le politiche discriminatorie sull'acqua di Israele.

Per maggiori informazioni sul Mehadrin, vedere http://www.bdsmovement.net/2011/mehadrin-profile-8450#.Ts-BJXOVtMc

Per informazioni dettagliate sulla complicità di altri esportatori di prodotti agricoli israeliani vedere http://bit.ly/vIrqLp

3. Agrexco, che era in passato la più grande esportatrice di prodotti agricoli di Israele, esporta prodotti proveniente dagli illegali insediamenti israeliani e un tempo era responsabile per l'esportazione e la commercializzazione del 60-70% di tutti i prodotti coltivati negli insediamenti illegali.

Per maggiori informazioni sull'impatto della campagna contro l'Agrexco vedere

http://www.jnews.org.uk/commentary/why-did-agrexco-go-bankrupt

4. Il dominio di Israele sulla fornitura di acqua in Israele e nei territori palestinesi occupati lascia molte comunità palestinesi senza apporti di base di acqua. Secondo le statistiche OCSE, gli agricoltori israeliani usano un sorprendente quantità di 1.127 milioni di metri cubi ogni anno. Solo circa 60 milioni di metri cubi d'acqua in totale sono assegnati all'Autorità palestinese.

OECD (2010), OECD Review of agricultural policies: Israel, 2010

Vedi anche Amnesty International, Assetati di giustizia: l'accesso all'acqua palestinese http://www.amnesty.org/en/library/info/MDE15/028/2009/en

5. Al Hadidiye è una comunità beduina di circa 112 abitanti permanenti e circa 130 abitanti che durante i due mesi più freddi tornano ai villaggi vicino Tobas, dal momento che le forze israeliane hanno già distrutto le loro case e non hanno trovato i mezzi necessari per costruire dei ripari che possono proteggerli dal freddo invernale. Giovedì 10 novembre, le autorità israeliane hanno emanato nove nuovi ordini di demolizione per la comunità, che hanno come obiettivo 17 strutture e interesseranno 72 persone, tra cui donne e bambini. Le organizzazioni palestinesi hanno invitato i sostenitori dei diritti dei palestinesi a contattare le loro ambasciate in Israele sulle demolizioni proposte.

http://stopthewall.org/2011/11/13/al-hadidiye-be-demolished-once-again-halt-new-wave-ethnic-cleansing

Fonte: Comitato nazionale palestinese per il boicottaggio

Traduzione a cura di Stop Agrexco Italia

sabato 26 novembre 2011

SALUTO ED APPELLO DA PARTE DELLA CMPAGNA PER LA GIUSTIZIA E PER L’ACQUA IN PALESTINA, 26 NOVEMBRE 2011

A lungo ai Palestinesi sono stati negati i più basilari diritti. Uno tra questi è il diritto all’acqua. L’acqua è il simbolo della vita, e per questo voi state manifestando in Italia, ma Israele ha reso molto difficile ai Palestinesi l’accesso all’acqua.
Israele preleva per i propri consumi quasi il 90% dell’acqua dai territori occupati, sottraendola all’uso della popolazione palestinese. Il risultato è che le Comunità palestinesi restano giorni e anche settimane senza acqua, soprattutto nei torridi mesi estivi, mentre a pochi metri di distanza gli insediamenti illegali dei coloni ebrei , hanno giardini lussureggianti, piscine e accesso senza limite all’acqua.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda che ogni cittadino abbia almeno 100 litri di acqua al giorno per l’uso domestico e la igiene personale. Ma la media dei cittadini Palestinesi ha accesso a soli 50 litri e molti anche meno, mentre invece gli israeliani ne consumano fino a sei volte di più.
La condizione dei villaggi palestinesi che si trovano isolati all’interno dei territori occupati è anche più difficile, perché devono comperare l’acqua per poi conservarla in serbatoi, che Israele demolisce. Questo rende la situazione estremamente precaria tanto da costringere molte famiglie a lasciare le loro case perché l’ acqua disponibile non è sufficiente per la sopravvivenza.
A Gaza il 95 % dell’acqua è inutilizzabile per il consumo umano perché troppo inquinata. L’assedio da parte di Israele impedisce ai Gazawi di procurarsi fonti alternative e questo contribuisce al diffondersi di gravissime malattie soprattutto tra i bambini. Se non si interverrà con urgenza, la falda idrica sotterranea di Gaza, che resta l’unica fonte di acqua per 1.6 milioni di persone, sarà al collasso e questo porterà ad una situazione catastrofica la situazione di approvvigionamento di acqua..
L’assedio di Gaza impedisce anche il trattamento delle acque reflue, per cui ogni giorno si riversano 80 milioni di di acqua di fognatura nel mediterraneo, provenienti dalla striscia. E questo fa si che anche le spiagge di Gaza, uno dei pochi posti a dove la gente può avere un po’ di sollievo, siano inquinate con rischio per salute pubblica.
Salutiamo i nostri compagni e le compagne italiane che si sono uniti alla Campagna “Thirsting for Justice”- “Assetati per la giustizia” che recentemente è stata lanciata in Palestina. Questa campagna vuole accrescere la consapevolezza di tutte le persone di coscienza sul fatto che ai Palestinesi è negato il diritto all’acqua e alla salute, e sulla necessità di fare pressione sui Governi e sull’Unione Europea affinchè Israele sia chiamato a rispondere per le sue persistenti violazioni del diritto internazionale,
Vi chiediamo di approfondire la vostra conoscenza sulla situazione dei Palestinesi e di comprenderci nella campagna contro la privatizzazione dell’acqua che continuerete nei prossimi mesi.
I Palestinesi sono assetati di Giustizia e voi potete avere un ruolo accanto a noi. Grazie per il vostro supporto.
ZYAD LUNAT

Incredibile e provocatoria accusa contro 4 mediattivisti 3 italiani e una blogger di Gaza

La Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese rilancia il seguente comunicato pubblicato sul blog Indipendenti



La scorsa notte, al termine di una nuova intensa giornata di mobilitazione di massa intorno a piazza Tahrir, 4 mediattivisti, tre italiani e una giovane blogger palestinese di Gaza, sono stati tratti in arresto dalla polizia egiziana e sono tuttora trattenuti con la grave e ingiustificata accusa di sabotaggio.
I quattro raccontano di essersi trovati nei pressi di un incendio che aveva colpito le piante all’ingresso di un noto albergo del centro e, mentre stavano documentando quanto accadeva con macchina fotografica e telecamera, sono stati avvicinati da due uomini in borghese e non identificati che inveivano in arabo contro di loro.

Nella situazione concitata hanno preso un taxi per farsi portare a casa ma la vettura con i 4 a bordo é stata poco dopo fermata dalle stesse persone che, ancora una volta senza qualificarsi, hanno imposto al conducente di condurli al commissariato dove li hanno appunto trattenuti con la fantasiosa accusa di essere i responsabili dell’incendio.
Da ieri sera sono dunque in stato di fermo e da qualche ora sono stati tolti loro i telefoni cellulari attraverso cui eravamo in contatto con loro.
Sicuri che al più presto la situazione si risolverà nel migliore dei modi, non possiamo fare a meno di segnalare la preoccupazione per il trattamento riservato in questi contesti a chi si mobilita per garantire quello scambio di informazioni attraverso la rete, i twitter e i blog che tanto hanno aiutato le popolazioni di tutto il mondo a liberarsi dai regimi e a rivendicare una società più giusta e libera.

Tutte e tutti Liberi!
Roma, 26 novembre 2011
segui le info su http://www.indipendenti.eu/blog/?page_id=26579

Video scioccante

ancora beit hanina

http://occupiedpalestine.wordpress.com/2011/11/25/israeli-troops-demolish-palestinian-homes-by-haitham-al-katib-video/

DIFENDIAMO LA RIVOLUZIONE EGIZIANA!

In risposta all'appello dei manifestanti di Piazza Tahrir
IL GIORNO 29 NOVEMBRE 2001 ALLE ORE 16
presidio di solidarietà con la rivoluzione davanti all'Ambasciata Egiziana in V.Salaria, 267
Il popolo egiziano non si arrende, e continua a sfidare le forze armate perchè non venga tradito il sacrificio di oltre 1100 persone, che da gennaio hanno dato la vita per pane, libertà e giustizia sociale. Dopo la caduta di Mubarak la repressione non è affatto diminuita. Scrivono i manifestanti:
<< Da quando la giunta militare ha preso il potere, più di 12000 dei nostri compagni sono stati giudicati da un tribunale militare, senza la possibilità di chiamare testimoni, a porte chiuse, e con accesso limitato solo agli avvocati. Ci sono minori in prigioni per adulti, sentenze di morte, e l’uso della tortura è tornato ad essere la norma. Le manifestazioni delle donne sono state attaccate con violenza e molestie sessuali (...) da parte dell’esercito. >>
Fin’ora sarebbero 40 manifestanti sono uccisi al Cairo e in altre tre città egiziane, e i feriti si contano nuovamente in migliaia. Non possiamo tacere mentre G8, FMI e stati del Golfo promettono al nuovo regime prestiti per 35 miliardi di dollari.
Chiediamo assieme al popolo di Piazza Tahrir che il potere venga immediatamente e realmente trasferito dalla giunta militare a un'autorità civile credibile, che garantisca un autentico processo di transizione verso un governo eletto dal popolo, ristabilisca un'autorità giudiziaria indipendente, gestisca la sicurezza interna con altre modalità, punisca i colpevoli di crimini e eccidi commessi contro i manifestanti.
Chiediamo inoltre la libertà degli attivisti e blogger incarcerati per aver esercitato la semplice libertà d'espressione e manifestazione, basta detenuti politici!
Chiediamo che il nuovo Governo Italiano prenda atto dellasituazione e interrompa le relazioni diplomatiche con la giunta militare, condannando le violazioni dei diritti umani in atto.
Sosteniamo i movimenti civili di popolo che ancora lottano contro dittature e regimi non democratici in altri paesi del mondo arabo ed in medio oriente , facciamo luce sulle loro rivendicazioni e rifiutiamo ogni tipo di intervento armato da parte della comunità internazionale per presunti motivi umanitari. Non le armi ma la forza della mobilitazione civile, locale e internazionale, consegnano il potere al popolo.
Ti aspettiamo al presidio!
Un Ponte per, Action for Peace,Selforuminternazionale,

Immagine edificante dell'esercito israeliano che invade casa di Nabi Saleh

Il futuro di Israele, un futuro che in buona parte è già in atto

Un nuovo Israele in costruzione
Il futuro è adesso. La rivoluzione va avanti; basta aspettare quel che capita.
Di Gideon Levy
Un giorno non molto lontano da oggi, ci si sveglierà in un altro genere di paese, il paese che adesso si va formando. Non somiglierà al paese che conosciamo, che ha già la sua parte di imperfezioni, di distorsioni e di mali. E quando ce ne renderemo conto, sarà troppo tardi. Allora il vecchio Israele sarà descritto in termini elogiativi, un modello di democrazia e di giustizia, a confronto con la nuova versione, che prende forma mentre noi stiamo ad occhi chiusi, giorno dopo giorno, una nuova legge dopo l’altra.
Il modo di vivere nel nuovo Israele nel quale vivremo e moriremo, non ci ricorderà affatto il paese al quale eravamo abituati. Anche questo articolo non potrà essere pubblicato. Saranno pubblicate solo le opinioni convenienti, quelle approvate dalla nuova associazione dei giornalisti patrocinata dal governo, i cui membri saranno seduti in ogni sala d’informazione affinché non vi siano opinioni fuori dal coro.
Le leggi ed i regolamenti (passeranno chiaramente come regolamenti “d’urgenza”) impediranno la pubblicazione di tutto ciò che, agli occhi delle autorità, potrebbe nuocere allo Stato. Una nuova legge impedirà la diffamazione dello Stato, e il giornale che voi avete in mano sarà diverso. Riferirà soltanto buone notizie.
I programmi della radio e della televisione non saranno più quelli a cui siete abituati. Nessuna uscita dei media potrà andare oltre i limiti di legge a causa delle penalità draconiane che ci si tirerebbero addosso. La parola “occupazione” sarà illegale, come pure l’espressione “Stato palestinese”. I giornalisti traditori saranno messi alla gogna o arrestati o come minimo licenziati. Questo giorno non tarda ad arrivare.
In un futuro non troppo lontano, il paesaggio urbano avrà un aspetto diverso. Ciò che avviene ora a Gerusalemme, si svolgerà in tutto il paese domani, quando l’immagine delle donne sarà bandita dalla pubblica visione. Oggi, Gerusalemme, domani il paese intero. Bus e strade separate per gli uomini e le donne. Radio e televisione manderanno in onda solo cantanti uomini. A un certo punto si pretenderà che le donne si coprano la testa. Poi sarà la volta degli uomini. Si impedirà loro di presentarsi rasati o con la testa scoperta. Questo giorno non tarda ad arrivare.
Le città saranno chiuse il sabato. Nessun negozio, teatro o cinema sarà aperto. Poi arriverà il divieto di viaggiare in giorno di sabato. I ristoranti non kasher saranno illegali. Saranno obbligatorie le mezuzah sugli stipiti delle porte di tutte le camere della casa. Le coppie non registrate dal rabbinato non saranno autorizzate a vivere insieme, e le coppie in cui un solo membro è ebreo saranno immediatamente deportate. Sarà proibito alle coppie non sposate di passeggiare in pubblico tenendosi sottobraccio.
Una volta al mese, tutti gli studenti del paese faranno visite di solidarietà alle colonie in Cisgiordania. Tutte le lezioni cominceranno col canto dell’inno nazionale e il saluto alla bandiera. Coloro che non faranno servizio nell’esercito perderanno la cittadinanza e saranno deportati.
E lo Stato ebraico avrà un Parlamento ebraico. Dapprima si proibirà agli Arabi di presentarsi con loro partiti al Parlamento. Poi non si permetterà più assolutamente la loro elezione. Nell’attesa, i deputati che all’inizio di ogni sessione del Parlamento non cantano le parole dell’inno nazionale sul “desiderio ardente di un’Anima ebraica” saranno definitivamente scartati.
Si rifiuterà agli Arabi il diritto all’istruzione universitaria, con l’eccezione di una quota simbolica approvata dai servizi di sicurezza dello Shin Bet. Sarà illegale affittare ad arabi, al di fuori delle loro proprie città e villaggi, e la lingua araba sarà proibita. Anche le poesie del poeta arabo Mahmoud Darwish e dei suoi compatrioti ebrei Aharon Shabtai e Yitzhak Laor saranno proibite. Amos Oz, A.B. Yehoshua e David Grossman dovranno decidere. Si chiederà a loro, e a tutti i cittadini del paese, di dichiararsi anch’essi sionisti per essere pubblicati.
La Cisgiordania sarà annessa, ma non i Palestinesi che vi abitano. Le organizzazioni di sinistra saranno dichiarate illegali e i loro dirigenti arrestati. Il Governo pubblicherà una lista nera di quelli che hanno opinioni sgradite, ai quali non sarà permesso lasciare il paese o parlare con media stranieri. Solo chi uccide un Ebreo sarà giudicato un vero assassino e i testi delle leggi saranno divisi in due parti, una per gli Ebrei ed una per i non-Ebrei. Solo gli Arabi saranno passibili della pena di morte.
Una legislazione speciale darà ai coloni il diritto di prendere il controllo di qualsiasi terreno in Cisgiordania, e la censura militare impedirà qualsiasi informazione che potrebbe “nuocere alla potenza delle Forze israeliane di difesa”. La Corte suprema servirà unicamente come Corte d’appello e non esaminerà petizioni dirette sulle violazioni dei diritti civili. I giudici della Corte suprema saranno selezionati dal Parlamento e in tribunale ci saranno fasce orarie riservate ai coloni di Cisgiordania, ai rabbini e al partito al potere. Solo giudici religiosi potranno avere l’incarico di presidente di tribunale. I rabbini godranno dell’immunità legale simile a quella dei deputati del Parlamento. Qualsiasi dichiarazione di guerra o di pace dovrà ricevere l’approvazione dei Saggi del Consiglio della Torah.
In realtà non è necessaria molta immaginazione per evocare tutto ciò. Il futuro è adesso. La rivoluzione va avanti; basta aspettare quel che capita.
http://www.haaretz.com/print-edition/opinion/a-new-israel-in-the-making-1.395241

venerdì 25 novembre 2011

Continua pulizia etnica e arresti arbitrari

COMUNICATO STAMPA

Arrestate due ragazze palestinesi durante demolizione di abitazioni nel villaggio palestinese di Umm Fagarah



24 Novembre 2011


At-Tuwani – Il 24 Novembre l'esercito israeliano ha fatto irruzione nel villaggio di Umm Fagarah demolendo diverse abitazioni e prelevando due ragazze.

Alle 10:00 del mattino due bulldozer sono arrivati nel villaggio scortati da cinque mezzi militari. Senza mostrare alcun tipo di ordine di demolizione, hanno abbattuto due case, la moschea, una stalla ed una struttura che conteneva il generatore.

Nel corso delle operazioni, due ragazze palestinesi sono state fermate dalla Border Police. Mentre gli abitanti accorsi dai villaggi limitrofi osservavano, le due ragazze inginocchiate a terra dai soldati imploravano di interrompere la demolizione. Ignorando la richiesta dei palestinesi di poter mettere in salvo i conigli, i soldati hanno abbattuto la stalla ferendo ed uccidendo gli animali. Al termine delle demolizioni, l'esercito ha portato via le due ragazze senza fornire alcuna spiegazione sull'accusa.

Episodi analoghi si sono succeduti nel villaggio di Susiya, dove sono state demolite un'abitazione ed una stalla.

I villaggi di Umm Fagarah e Susiya si trovano in area C, sotto controllo amministrativo e militare israeliano. All'interno di quest'area ogni costruzione deve essere approvata dall'amministrazione israeliana. Secondo un rapporto dell'ONU, costruire è vietato su circa il 70% della Cisgiordania, con il 30% rimanente in cui vengono applicate tutta una serie di restrizioni che eliminano di fatto la possibilità di ottenere un permesso.

In aggiunta i palestinesi di quest'area sono soggetti alla legge militare che ne limita di fatto i diritti.

Il 22 Novembre un ragazzo di Umm Fagarah, fratello di una delle giovani donne arrestate, è stato prelevato dalla sua abitazione e temporaneamente detenuto per tutta la giornata, senza alcuna accusa concreta.


Operazione Colomba mantiene una presenza costante nel villaggio di At-Tuwani e nell'area delle colline a sud di Hebron dal 2004.


Foto dell'incidente: http://www.operazionecolomba.it/galleries/palestina-israele/2011/demolition-in-umm-fagarah/

Video dell'incidente: Il video verrà caricato a breve


Per informazioni:

Operazione Colomba, +972 54 99 25 773

giovedì 24 novembre 2011

La NATO VUOLE RIPETERE IL CRIMINE COMMESSO IN LIBIA ANCHE IN SIRIA

SIRIA: IL CANARD ENCHAINE’ RIVELA PIANO NATO CONTRO DAMASCO
Secondo il settimanale satirico francese, sempre bene informato, la Nato avrebbe preparato un intervento armato «limitato» in Siria, predisposto a partire dalla Turchia. La Francia intanto propone «corridoi umanitari» in Siria.

GERALDINA COLOTTI*

Roma, 24 novembre 2011, Nena News – Dopo aver fatto da battistrada in Libia, la Francia morde il freno anche sulla Siria. Ieri ha riconosciuto Il Consiglio nazionale – una delle due principali componenti dell’opposizione, formatisi all’estero e composta principalmente dai Fratelli musulmani – come «interlocutore legittimo» di Parigi. Al termine di un incontro con Burhan Ghalioun, leader del Cns, tenutosi nella capitale francese, Juppé ha annunciato che la Francia proporrà all’Unione europea di esaminare la possibilità che vengano istituiti «corridoi umanitari» in Siria. «I corridoi umanitari – ha aggiunto Juppé – sono un punto che abbiamo esaminato con Ghalioun e chiederò alla prossima riunione del consiglio dei ministri europei di mettere questo punto all’ordine del giorno». Secondo il settimanale satirico francese, Canard Enchainé (sempre bene informato, e che questa volta cita fonti anonime del ministero della Difesa), la Nato avrebbe già preparato un intervento armato «limitato» in Siria, predisposto a partire dalla Turchia e con la partecipazione, in un primo momento, di Francia, Gran Bretagna e militari turchi. Il progetto prevederebbe anche l’addestramento alla guerriglia dei disertori siriani da parte dei servizi segreti francesi. Le fonti citate parlano di «Turchia base di un intervento limitato, prudente e umanitario della Nato, senza azione offensiva». I servizi segreti francesi, secondo il Canard, sono già stati inviati al Nord del Libano e in Turchia per costituire i primi contingenti dell’Esercito siriano libero: raggruppando i disertori che sono fuggiti dalla Siria e allenandoli per la guerriglia urbana. Martedì, Parigi aveva applaudito alla risoluzione adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite che condannava la «sanguinosa repressione» del regime di Bashar al-Assad. La «comunità internazionale», divisa sul voto al Consiglio di sicurezza per via del sostegno della Cina e della Russia alla Siria, continua a premere su al-Assad perché lasci il potere.

Ieri, anche l’ambasciatore russo in Siria, Athimatullah Kolmohammadov, ha incontrato i rappresentanti di un’altra formazione di opposizione a Damasco, l’Ente di coordinamento delle forze per il Cambiamento democratico guidato da Hasan Abdel Athim. Si tratta del primo incontro di un diplomatico russo con un esponente dell’opposizione interna in Siria da quando è iniziata la rivolta, lo scorso marzo. Abdel Athim ha afferamto: «Abbiamo espresso all’ambasciatore la nostra posizione sostenendo che non c’è nessuna serietà in un dialogo che non porti a un cambiamento del regime e che non trasformi lo Stato in uno Stato democratico, pluralista e parlamentare. Il dialogo deve avvenire nell’ambito di una fase di transizione nella quale siano delineati i compiti di ogni parte. Abbiamo inoltre espresso – ha aggiunto – la nostra insoddisfazione nei confronti della posizione assunta dalla Russia riguardo la crisi in Siria». La Russia è stata finora la più ferma nella difesa del suo alleato nella regione e buon cliente della sua industria di armi. Il porto di Tartus dovrebbe accogliere la sola base navale destinata ai sottomarini nucleari russi nel Mediterraneo.

La situazione in Siria è giunta a «un punto di non ritorno», ha affermato il presidente turco Abdullah Gul, che ha accusato il governo siriano di «oppressione e violenze contro il suo popolo». E ieri, civili libanesi della regione di Aarsal, a maggioranza sunnita, nella valle orientale della Bekaa frontaliera con la Siria, hanno aperto il fuoco contro una pattuglia dell’esercito giunta sul luogo per arrestare dei ricercati. Secondo i locali, i militari, giunti a bordo di due auto civili, volevano catturare degli attivisti siriani in fuga dalla repressione nel loro paese. Nena News

mercoledì 23 novembre 2011

EGITTO, PUGNO DI FERRO DELLA GIUNTA MILITARE

EGITTO, PUGNO DI FERRO DELLA GIUNTA MILITARE: 2 MORTI E 500 FERITI
A meno di una settimana dal voto l'Esercito attacca i dimostranti rimasti in piazza Tahrir dopo la manifestazione di venerdi'. Si annunciano nuove mobitazioni contro il Consiglio delle Forze Armate

PAOLO GERBAUDO

Cairo, 20 novembre 2011, Nena News – Dopo la primavera della speranza ecco l’inverno della disillusione. Era da settimane che i giovani egiziani, reduci dalla rivoluzione del 25 gennaio, lo sussuravano nei cafè di Bursa, Kit-kat, e After 8, luoghi di ritrovo della Cairo giovane e progressista. «È l’ultima occasione per salvare la rivoluzione» dicevano, aggiugendo a bassa voce «serve una seconda insurrezione». I violenti scontri di ieri con le forze di sicurezza, che hanno lasciato sul terreno 2 morti e 500 feriti tra i manifestanti, di cui molti gravi, potrebbe essere l’inizio di una fase di scontro aperto contro la giunta militare succeduta a Mubarak, capace di mandare all’aria le contestate elezioni parlamentari previste per il 28 novembre.

L’accampata

Dopo la manifestazione di venerdì, una delle più grandi dai giorni della rivoluzione, che ha visto scendere in piazza circa 200.000 persone, ieri al Cairo centinaia di ragazzi hanno dato battaglia alle forze di sicurezza per tutta la giornata. Tutto è cominciato in mattinata quando gli agenti della Central Security Force (Csf) hanno circondato Tahrir prendendo di mira le famiglie dei martiri della rivoluzione che avevano improvvisato una piccola accampata. Gli agenti hanno caricato i manifestanti e arrestato una decina di persone. Appena la notizia si è diffusa attraverso messaggi di testo, facebook e twitter, in centinaia sono accorsi a dare rinforzo. Attorno alle due di pomeriggio i manifestanti sono riusciti a respingere la polizia e hanno preso d’assalto uno dei blindati Iveco in dotazione alle forze di sicurezza egiziane. Una decina di manifestanti sono saliti sul tetto del veicolo ad intonare cori contro il ministro dell’interno e contro la giunta militare presieduta dal feldmaresciallo Hussein Tantawi, mentre la piazza si riempiva di ragazzi con mascherine mediche, bottiglie di Pepsi e limoni per i gas lacrimogeni. Per tutto il pomeriggio in piazza a Tahrir e nelle vie circostanti è stata battaglia. I manifestanti hanno dato vita ad una fitta sassaiola contro gli agenti che hanno sparato centinaia di gas lacrimogeni e pallottole di gomma made in Usa, e cartucce da caccia di fabbricazione italiana (marca Fiocchi). Centinaia di feriti, di cui molti con ferite alla testa, sono stati portati a braccia fuori dalla zona, mentre a dare manforte in serata sono giunti gli ultras dello Zamalek e del Al-Ahly, già decisivi nella rivoluzione di otto mesi fa. «Abbiamo abbattuto un Mubarak, e adesso ne abbiamo 20» grida Mustafa, un giovane rivoluzionario con il volto inumidito dai gas.

E i militari?

12 mila persone sono ancora rinchiuse nelle carceri. Mentre nella notte continuano ad arrivare notizie preoccupanti di violenti scontri in centro città in molti i si chiedono quale sarà la reazione della giunta militare. Tra le opzioni potrebbe addirittura esserci un rinvio delle elezioni parlamentari, che in molti tra i giovani rivoluzionari considerano una farsa dato che i militari hanno intenzione di rimanere al governo almeno fino al 2013. Nena News

Questo articolo e’ stato pubblicato il 20 novembre 2011 dal quotidiano Il Manifesto

lunedì 21 novembre 2011

SIRIA: LO SPETTRO DI UNA GUERRA CIVILE INDOTTA

La scorsa notte attaccata la sede del partito Baath a Damasco. Le parole del Segretario di stato Clinton sul pericolo di «una guerra civile», più che esprimere una preoccupazione appaiono una minaccia

MICHELE GIORGIO

Roma, 20 novembre 2011, Nena News – Non era chiara ieri la posizione di Damasco alla vigilia della scadenza dell’ultimatum lanciato dalla Lega araba al regime di Bashar al-Assad chiamato ad accettare il «piano arabo» e in particolare ad accogliere osservatori per non vuole affrontare pesanti sanzioni economiche. Venerdì Damasco aveva chiesto la modifica di 18 clausole dell’accordo per l’arrivo degli osservatori, ma l’organizzazione panaraba ha opposto – stando alla stampa locale – un secco rifiuto. Come si concluderà il braccio di ferro ieri non era chiaro, in ogni caso il futuro della Siria sarà nero. Le parole del Segretario di stato Usa Hillary Clinton sul pericolo di «una guerra civile» più che esprimere una preoccupazione rappresentano una minaccia. I recenti blitz dei disertori del cosiddetto «Esercito libero siriano» confermano che l’opposizione è sempre più armata e aiutata dall’esterno. Lo scenario libico perciò incombe sulla Siria. Stavolta però con la Russia (alleata di Damasco) nettamente contraria a un intervento militare della Nato, è la Lega araba che sta facendo il grosso del lavoro per tenere sotto pressione il regime siriano, preparare l’opposizione politica a diventare la futura classe dirigente, modello Cnt libico.

Il ruolo svolto nel 2010 dalla Lega Araba è stato straordinario per una organizzazione che negli ultimi venti anni non ha mai avuto una reale influenza, poteri concreti e, più di tutto, consenso popolare. Un risveglio che non può non sollevare interrogativi sulle finalità di tanto improvviso attivismo. Senza dubbio la situazione in Siria è gravissima e le responsabilità del regime sono enormi. Assad sostiene di avere il consenso della maggioranza dei siriani ma deve provarlo. E per farlo non ha scelta: deve indire elezioni libere e lasciare al suo popolo il diritto di esprimersi senza restrizioni e intimidazioni. In ogni caso nessun leader politico può varare misure repressive così pesanti, costate la vita a tanti cittadini, pur di rimanere al potere.

Il presidente siriano Bashar Assad

Allo stesso tempo dovrebbe ormai essere chiaro che quella in corso in Siria non è una rivolta simile a quelle di Egitto e Tunisia. Lo è stata all’inizio, con le proteste spontanee esplose a metà marzo e organizzate dai comitati popolari. Non lo è certo ora con le manifestazioni che si concentrano nelle città roccaforti del sunnismo militante (Hama, Homs), nemico del regime del partito Baath dominato dagli «apostati» alawiti, la setta sciita alla quale appartiene lo stesso Assad. Non ora con i disertori e civili armati che lanciano attacchi contro i servizi di sicurezza e l’Esercito. E forse non erano frutto della propaganda del regime le notizie di agguati ad unità della polizia e delle forze armate diffuse nei mesi scorsi dai media statali.

Alle redini della Lega araba (La) oggi c’è di fatto il Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), guidato dall’Arabia saudita e composto dalle monarchie ed emirati del Golfo. La caduta del dittatore egiziano sotto l’urto della rivoluzione del 25 luglio e la dipendenza dell’Egitto dagli aiuti dei paesi arabi ricchi, ha catapultato alla testa della La il Consiglio che ha mosso subito i passi necessari per impedire che la «primavera araba» potesse mettere a rischio la stabilità delle petromonarchie. La casa reale saudita, che ha inviato truppe in Bahrain a reprimere le manifestazioni popolari, ha compreso che le proteste in Siria possono essere «guidate» non tanto per abbattare Assad – peraltro un nemico solo a parole perché dipendente dagli aiuti arabi e garante della stabilità regionale -, quanto per scardinare la trentennale alleanza tra Siria e Iran. Nella strategia saudita in Siria, la caduta di Assad non serve per dare la libertà ai siriani ma ad assicurare il raggiungimento di un obiettivo fondamentale: l’isolamento totale di un potente nemico, l’Iran sciita.

Tagliente come sempre è il giudizio del noto commentatore arabo Asad AbuKhalil, che pure è un feroce critico del regime siriano: «I media occidentali descrivono la decisione della Lega araba di sospendere la Siria come un passo importante a favore della democrazia ma evitano di spiegare perché non è stata presa una decisione simile nei confronti del dittatore yemenita (Ali Abdullah Saleh) che pure usa i carri armati e gli elicotteri contro la sua gente. Se un dittatore gode del sostegno del Ccg, i suoi crimini verranno tollerati, a maggior ragione se è alleato degli Stati uniti».

Sono considerazioni pregne di un vetero anti-americanismo quelle di Abu Khalil? Difficile sostenerlo quando gli danno ragione gli sviluppi sul terreno e le manovre in atto dietro le quinte. La Lega araba a trazione saudita prosegue il suo compito di surrogato del ruolo della Nato provando a mettere insieme le diverse anime dell’opposizione siriana per prepararla a prendere la guida della Siria quando Assad e il Baath verranno travolti. Riyadh con i suoi principali alleati – Giordania, Qatar e i sunniti libanesi (il governo di Beirut controllato dagli sciiti di Hezbollah invece è ancora dalla parte di Damasco) – lavorano alla costituzione di un fronte unito che, su modello del Cnt libico, dovrà diventare il «rappresentante legittimo del popolo siriano», come è stato stabilito nell’ultimo incontro al Cairo con alcuni oppositori di Assad. Nel frattempo si studiano tempi e modi del via libera che verrà dato alla Turchia (e forse anche alla Giordania) per la creazione in territorio siriano di «zone cuscinetto a protezione dei civili».

Ad intralciare, per il momento, i disegni della Lega Araba-Ccg sono le spaccature tra il Consiglio nazionale siriano (Cns) che si considera il solo rappresentante dell’opposizione siriana, e il Comitato di coordinamento nazionale (Ccn), con posizioni più moderate e favorevole al dialogo con Assad. Senza dimenticare le ambizioni della Commissione generale della rivoluzione siriana (Cgrs) e il ruolo svolto sin dalle prime proteste dai Comitati di coordinamento locali (Ccl). Secondo il giornale libanese Al Akhbar, le prossime mosse della Lega araba saranno il riconoscimento del fronte unito delle opposizioni quale unico rappresentante legittimo del popolo siriano; la creazione delle «zone cuscinetto»; l’avvio della transizione dei poteri. Non sono contrari all’unità delle opposizioni ma sollevano obiezioni su vari punti Haytham Manna, leader del Ccn, e due intelletuali della «Dichiarazione di Damasco» (2005), Michel Kilo e Samir Aita, che temono che la Siria faccia la fine della Libia. Per i vertici della La inoltre non è facile capire il peso reale di Burhan Ghalioun, il leader del Cns. Questo storico oppositore (dall’estero) di Assad raccoglie davvero consenso? Oppure è un altro Ahmad Chalabi, l’ambizioso iracheno sponsorizzato da Washington che, fatto rientrare a Baghdad dopo la caduta di Saddam Hussein, dimostrò di rappresentare solo se stesso? Nena News

Dimostrazioni di giovani egiziani

Egitto: punto e da capo

EGITTO: ALMENO 22 MORTI E CENTINAIA DI FERITI
Continua a salire il bilancio ufficiale di dimostranti uccisi dalla repressione di Esercito e polizia. Ma secondo il Movimento 6 Aprile i morti sarebbero gia' oltre 30. Scontri anche oggi in piazza Tahrir.

Roma, 21 novembre 2011, Nena News – Proseguono gli scontri in Piazza Tahrir mentre si svolge un Consiglio dei ministri straordinario sulle manifestazioni che da tre giorni infiammano il Cairo e altre città. Al centro della discussione del governo ci sono prima di tutto i 22 egiziani caduti tra sabato e domenica sotto il fuoco di esercito e polizia. Un numero di vittime che ricorda i giorni peggiori della repressione scatenata dall’ex rais Mubarak. I morti sarebbero addirittura trenta e mille i feriti secondo il Movimento 6 aprile protagonista della rivoluzione del 25 gennaio che aveva aperto la strada alla creazione di un nuovo Egitto che invece non è mai nato. Stamani i giovani rivoluzionari hanno comunicato le loro richieste che prevedono un calendario per il passaggio immediato del potere dai militari a un presidente civile, al massimo entro il prossimo aprile, le dimissioni del governo di Essam Sharaf e la nomina di un governo di salvezza nazionale. A questo punto sarà fondamentale la posizione che assumeranno i Fratelli Musulmani e gli altri gruppi islamisti indicate dai sondaggi come i probabili vincitori delle elezioni legislative che cominciano il 28 novembre.

L’Egitto è tornato ai giorni della repressione sanguinosa scatenata dieci mesi fa dall’ex rais Hosni Mubarak rimasto per trent’anni al comando del paese. Ma stavolta ad ordinare a polizia e soldati di aprire il fuoco contro i manifestanti riuniti in Piazza Tahrir al Cairo sono stati i generali del Consiglio supremo delle Forze Armate (Csfa). Lo scorso febbraio i comandanti militari si offrirono di proteggere il popolo e imposero a Mubarak di farsi da parte. Ora non esitano ad usare la forza contro chi contesta il loro potere e chiede che questo potere passi subito ai civili. I generali del Csfa però non cedono, intendono garantirsi, oltre la Costituzione, il diritto di ultima parola su ogni aspetto della vita politica e istituzionale del paese. Un potere che gli egiziani, dalla sinistra agli islamisti, non intendono concedere alle Forze Armate.

Il disprezzo della vita

Ieri hanno fatto il giro del mondo le immagini di un poliziotto che getta in un cumulo di rifiuti il cadavere di un dimostrante. Un scena che pochi dimenticheranno e che simboleggia una giornata segnata dal disprezzo totale della vita umana. Il fuoco è stato indiscriminato, con i cecchini che dai piani alti dei palazzi hanno sparato ai dimostranti che riempivano non solo piazza Tahrir al Cairo ma anche le strade di Alessandria, Suez, Minya, Qena. E’ stata una carneficina, a meno di una settimana delle elezioni legislative (28 novembre). Il governo del premier Essam Sharaf si è schierato dalla parte dei militari. Si è dimesso solo il ministro della Cultura, Emad Abou Ghazi. Ai morti e ai feriti si aggiungono centinaia di arrestati, tra i quali la candidata alle presidenziali Buthaina Kamel. «I generali egiziani sono criminali e fuorilegge. Il Consiglio supremo delle forze armate è come Mubarak», ha protestato Kamel che è stata liberata questa mattina. E’ un Egitto molto lontano da quello che avevano sognato i ragazzi di piazza Tahrir, che ora tornano a manifestare in massain tutto il Paese ma con prospettive molto più cupe.

Si protesta anche per le disparità economiche

Al Cairo è stato dato fuoco al palazzo delle tasse, un atto simbolico che ricorda quello del Partito Nazionale Democratico di Mubarak, bruciato a gennaio. I manifestanti chiedono non solo un Paese con diritti garantiti a tutti e il passaggio immediato dei poteri ai civili. Vogliono anche un Egitto con stipendi che consentano livelli di vita accettabili, la riduzione del gap che vede, come ai tempi di Mubarak, il 10% della popolazione vivere in ricchezza di fronte ad un 90% che, in tanti casi, non riesce ad assicurarsi un pasto al giorno. Gli egiziani lottano per i diritti e per una politica economica più giusta che non favorisca solo l’elite legata ai poteri forti e sostenitrice della politica del pugno di ferro dei militari. Nena News

domenica 20 novembre 2011

Check point alla moschea di Abramo

La testimonianza: io, soldato IDF ad Hebron

Avihai ha 27 anni e vive a Gerusalemme. È ebreo e cittadino israeliano. Nel 2001 è reclutato nell’esercito del suo Paese, il famoso e temuto Idf (Israeli Defence Force). È il secondo anno della Seconda Intifada e Avihai viene mandato in una delle unità di stanza a South Hebron Hills, nel cuore dei Territori Palestinesi Occupati.

Avihai racconta le sue giornate da giovane soldato di stanza ad Hebron: “Nei primi sette mesi di formazione, ci hanno insegnato come sparare, come disperdere la folla, come perquisire una casa. Ma una volta arrivati ad Hebron, capisci di non sapere nemmeno da dove cominciare. E allora, ricevendo pochissimi ordini dall’alto, ti adegui al comportamento dei tuoi commilitoni. Venivamo lasciati per ore e giorni senza fare nulla e allora per combattere la noia prendevamo d’assalto un villaggio. Lanciavamo pietre e piccole granate, devastavamo le case, arrestavamo gli uomini per la strada. Come in un videogame”.

Oppure si divertiva con i compagni a picchiare i fermati: “Una volta abbiamo arrestato un uomo, Fatrinaja, responsabile di aver ucciso alcuni coloni. Lo abbiamo preso a pugni e a calci. Io mi dicevo: è giusto punirlo, ha ammazzato la tua gente. Ma in realtà lo facevamo con tutti. Picchiavamo a sangue e tenevamo chiusi per giorni bambini colpevoli di aver tirato un sasso. A volte arrestavamo persone senza neppure sapere il perché, solo per indebolire la resistenza dei villaggi”.

Il clima di violenza e machismo che si respira a vent’anni nell’esercito ha condotto molti ex soldati a togliersi la vita: il suicidio è la prima causa di morte tra ex militari dell’Idf, uccide più del conflitto israelo-palestinese.

Per Avihai l’angoscia è la stessa. L’orrore delle urla degli uomini palestinesi che picchia nelle caserme e il dolore delle donne a cui devasta la casa gli entrano dentro. Non riesce più a ricacciarli indietro. Finché tre anni fa trova uno strumento di liberazione e espiazione: Breaking The Silence. L’associazione, creata nel 2004 da ex soldati israeliani, è oggi una delle organizzazioni per i diritti umani più nota nel Paese. Negli anni ha raccolto le testimonianze di oltre 700 giovani combattenti, reclutati poco più che ventenni e lanciati in prima linea.

Il bagaglio di violenza che hanno visto e che hanno commesso ha finito per fargli aprire gli occhi sull’occupazione della Cisgiordania e l’assedio di Gaza. E hanno cambiato il loro obiettivo: raccontare all’opinione pubblica israeliana le violenze quotidiane dei coloni e dell’esercito contro il popolo palestinese. “Il nostro primo obiettivo – racconta Avihai all’Alternative Information Center – è stato quello di portare Hebron a Tel Aviv, di far conoscere al cuore del nostro Paese che cos’è la Cisgiordania. Ora l’obiettivo è portare Tel Aviv a Hebron”.

Come? Attraverso visite guidate dagli stessi ex soldati. I tour del Sud della Cisgiordania sono rivolti soprattutto a scuole, gruppi di giovani e studenti prossimi ad entrare nell’esercito: “Prima di indossare la divisa non avevo lontanamente idea di cosa ci fosse al di là del confine con la Palestina – continua Avihai –. Per questo so che molti dei miei concittadini si formano idee e opinioni sull’ignoranza. Li portiamo a South Hebron Hills per mostrargli l’apartheid che abbiamo creato, la sofferenza di cui siamo responsabili”.

MentreIsraele si prepara ad attaccare Iran e Libano l'Italia non trova di meglio che vendere armi al paese guerrafondaio

AEREI ADDESTRAMENTO ITALIANI PER AVIAZIONE ISRAELE
Nella regione rullano i tamburi di guerra e Israele pianifica attacco all’Iran. In questo clima la Alenia Aermacchi è pronta a vendere jet da addestramento all’aviazione militare israeliana.

Gerusalemme, 17 novembre 2011, Nena News – Si stringono ulteriormente i rapporti militari tra Israele e Italia. Dopo gli addestramenti congiunti dei “top gun” dei due paesi, segnati dalla recente esercitazione israeliana in Sardegna, adesso una grande industria, la Alenia Aermacchi, si prepara chiudere un contratto per la vendita di aerei da addestramento M-346 allo Stato ebraico.

Israele deve sostituire i suoi A-4 Skyhawks, velivoli del periodo della guerra del Vietnam sui quali si addestrano da 30 anni i giovani piloti israeliani destinati a far parte dell’aviazione da combattimento, fiore all’occhiello delle Forze Armate e quasi certa protagonista dell’attacco che Tel Aviv intenderebbe lanciare contro l’Iran.

I comandanti militari israeliani appaiono indecisi. La stampa locale, in particolare il quotidiano “Jerusalem Post”, nei giorni scorsi ha riferito che Israele avrebbe deciso di congelare un contratto da un miliardo di dollari per l’acquisto di aerei coreani da addestramento T-50 Golden Eagle e di firmare un accordo preliminare con la Alenia Aermacchi. Un passo che ha mandato su tutte le furie la Corea del Sud che minaccia l’interruzione degli accordi di cooperazione militare con Israele e l’acquisto di armi israeliane per 280 milioni di dollari.

A favorire l’industria italiana sarebbe, secondo il quotidiano di Tel Aviv “Haaretz”, la possibilità per Israele di ottenere un’ulteriore accordo economico, oltre agli aerei da combattimento, del valore di un miliardo di dollari che includerebbe la progettazione di satelliti e la vendita in futuro di aerei senza piloti (droni) israeliani all’Italia. Non è escluso peraltro che lo Stato ebraico possa ottenere gli M-346 in cambio della consegna all’Italia di due aerei radar israeliani, AWACs. Nena News

sabato 19 novembre 2011

Le mani di Mazin con le bruciature che ha in tutto il corpo

"Liberato" bambino torturato dagli israeliani

Scarcerato il quattordicenne torturato dagli israeliani
da Raccogliendo la pace


È stato scarcerato il 4 novembre Mazin Zawahreh un ragazzo palestinese di 14 anni di Betlemme, arrestato l’11 settembre scorso nei pressi del checkpoint di Beit Jala, a Sud di Gerusalemme.

Quel giorno Mazin si trovava con tre amici: stavano giocando a pallone quando sette soldati israeliani, al vederlo, lo hanno aggredito colpendolo col calcio del fucile. Lo hanno messo in ginocchio, gli hanno strappato i vestiti, legate le mani e coperti gli occhi con la sua stessa maglietta, dopodiché lo hanno picchiato per due ore. Prima che lo portassero via su una jeep, un conoscente, vedendo il ragazzo in quelle condizioni, ha avvisato i familiari, che altrimenti non avrebbero saputo niente dell’avvenuto arresto del figlio.

Mazin è stato portato nel carcere israeliano di Mascobia, a Gerusalemme, dove è stato tenuto ed interrogato per ventinove di giorni con l’accusa di aver cercato di uccidere i soldati con un coltellino rinvenuto nella sua tasca. Il ragazzo è stato sottoposto ad un trattamento inumano: minacciato e torturato, tenuto in uno stanzino sottoterra, legato al letto in una posizione forzata che gli ha provocato seri problemi respiratori. Questo trattamento brutale era finalizzato ad ottenere una dichiarazione di colpevolezza rispetto alle accuse mossegli contro, dichiarazione che nonostante tutto Mazin ha avuto la forza non firmare.

I genitori non sapevano neanche se il figlio fosse vivo o morto, finché non li hanno chiamati dal carcere per dirgli di andarlo a visitare a Gerusalemme, cosa impossibile in quanto sprovvisti del permesso per passare il checkpoint. Saputo che il figlio era vivo, i genitori hanno intrapreso ogni via legale per strapparlo dalla prigione; si sono rivolti ad una associazione di avvocati, Defence for Children International. Il legale che ha preso in carico la causa parla sia ebraico che arabo, elemento importantissimo in quanto i processi presso la Corte Israeliana vengono svolti interamente in ebraico e i traduttori ufficiali semplificano le traduzioni.

Dopo la prima udienza, alla quale i familiari non hanno potuto assistere, il ragazzo è stato trasferito nel carcere di Offeq, un carcere per criminali comuni, nel quale dopo aver subito ripetutamente percosse e minacce è stato tenuto in isolamento, privato di luce e di aria, costretto a dormire per terra, in condizioni che hanno aggravato i suoi problemi respiratori. Qui ha subito anche bruciature in tutto il corpo, bruciature che sono tuttora visibili.

Nella seconda udienza, conclusasi pochi giorni fa, finalmente i genitori hanno potuto vedere il figlio e constatarne lo stato psico-fisico provato da quasi due mesi di carcere. Al mostrare le ferite provocate dalle bruciature, la Corte ha risposto seccamente che non era di sua competenza, delegando la responsabilità all’amministrazione del carcere. Colpiscono le parole del padre che, rivolgendosi alla Corte, ha espresso tutto il proprio dolore pregandogli di uccidere subito il figlio, anziché farlo giorno per giorno.

Il secondo processo si è risolto con la richiesta della Corte di un pagamento da parte dell’accusato di 20.000 shekel, circa 4.000€, una prima tranche di 10.000 come cauzione di uscita e una seconda da versare a fine processo. Il 4 novembre è stato comunicato alla famiglia che Mazin è stato liberato e lasciato vicino al checkpoint di Tul Karm, a un centinaio di chilometri da Betlemme. Ma il processo resta aperto, la prossima udienza è fissata per il 22 novembre e il ragazzo rischia nuovamente di essere incarcerato.

La cosa più aberrante di tutta questa storia è il trattamento che le autorità israeliane riservano ai giovanissimi palestinesi, vedendo dietro ognuno di loro non un giovane che si affaccia alla vita ma soltanto un pericoloso terrorista. Torturare un ragazzo di 14 anni, isolarlo, sottoporlo a condizioni inumane, negargli ogni diritto: a cosa mira tanta brutalità se non a cercare di annichilire la speranza, la tranquillità, la voglia di lottare, che è dentro di lui?

Yallah zeituna!!

Liberati? Nessuno è libero in Palestina.

Israele interroga e minaccia prigionieri palestinesi appena liberati
di Mikaela Levin


Un gruppo di prigionieri palestinesi liberati nello scambio con il soldato Shalit sono stati soggetto di intimidazione da parte dell’esercito israeliano e delle forze di sicurezza.


Nael e Fakhri Barghouti, rilasciati appena tre settimane fa dalle prigioni israeliane (Foto: Ana Alba)

Era la loro 25ima notte di libertà. Si trovavano nella loro casa, ancora godendosi la meraviglia del cibo fatto in casa e la compagnia dei loro cari, quando hanno sentito soldati israeliani entrare nel villaggio. Kobar è una piccola cittadina poco fuori Ramallah, dove tutto conoscono tutti. Ogni angolo, ogni muro, ha graffiti e disegni con i volti dei prigionieri della famiglia Barghouti.





Ieri, lunedì 14 novembre, poco dopo le 2 di notte, soldati israeliani hanno bussato alle porte della casa dei due ex prigionieri, Nael e Fakhri Barghouti, liberati nello massiccio scambio di detenuti palestinesi con il soldato Gilad Shalit. I militari hanno consegnato loro degli ordini di comparizione, ordinando di recarsi la mattina seguente al carcere di Ofer per un interrogatorio.

Uno dei cugini, anche lui di nome Fakhri, ha parlato dell’interrogatorio all’Alternative Information Center: “Hanno incontrato l’ufficiali dell’intelligence responsabile per l’intera regione, un capitano. Era un semplice interrogatorio con domande ordinarie. Voleva solo presentarsi”.

Durante il cosiddetto interrogatorio, il capitano israeliano ha ricordato agli ex detenuti che avrebbero dovuto evitare di compiere qualsiasi atto “pericoloso”.

Secondo i media palestinesi, altri nove ex prigionieri liberati in cambio di Shalit hanno ricevuto la stessa notifica per un incontro con un ufficiale israeliano. Alcuni hanno ricevuto l’ordine domenica notte. Come riportato dall’agenzia di stampa palestinese WAFA, un gruppo di soldati israeliani hanno fatto irruzione nella casa di Somud Karajeh a Saffa, città ad Est di Ramallah: hanno portato tutta la famiglia fuori, hanno perquisito l’abitazione e hanno controllato le carte di identità di tutti i familiari.

Karajeh stava scontando una pena di vent’anni di carcere per aver accoltellato un soldato israeliano nel checkpoint di Qalandyia, quando è stata liberata nell’accordo tra Hamas e Israele dello scorso 18 ottobre. Solo poche ore dopo che i militari israeliani si erano presentati nella sua casa per consegnarle l’ordine di comparizione, si è recata nel carcere di Ofer per l’interrogatorio con il capitano dell’intelligence.

Stessa scena a Qalqilya, città completamente circondata dal Muro di Separazione e a soli 15 chilometri da Tel Aviv; nella città di Jenin; e nel campo profughi di Balata, vicino alla città di Nablus. Alcuni dei detenuti liberati hanno subito restrizioni al movimento per ragioni di sicurezza – Nael Barghouti, ad esempio, non è autorizzato a lasciare il distretto di Ramallah per i prossimi tre anni – ma alcuni no. Alcuni di loro stavano scontando un ergastolo, altri dai 5 ai 14 anni di prigione.

Solo due settimane fa dopo il rilascio, l’AIC ha parlato con i cugini Barghouti nella loro casa. Stavano ancora tentando di riabituarsi alla presenza dei familiari intorno a loro. Erano felici, ma cauti. Nael Barghouti aveva sottolineato: “La lotta non è finita. Siamo liberi, ma l’occupazione c’è ancora, ci opprime tutti”.

L’ordine di comparizione consegnato di notte e il cosiddetto interrogatorio con il capitano dell’intelligence provano che Barghouti ha ragione.

giovedì 17 novembre 2011

ESSERE ARRESTATI PER PRENDERE UN AUTOBUS: QUESTO È L'APARTHEID

FREEDOM RIDERS PALESTINESI ARRESTATI DA ISRAELE
"I bus israeliani sono il simbolo della segregazione che oggi vige in Israele. Perchè un palestinese non può andare a Gerusalemme senza un permesso?”. Ieri pomeriggio i Freedom Riders palestinesi, saliti su un autobus israeliano diretto a Gerusalemme, sono stati fatti scendere con forza ed arrestati.

MARTA FORTUNATO

Beit Sahour (Cisgiordania), 16 novembre 2011, Nena News (nella foto l’attivista palestinese Huweida Arraf, fonte Activestills) – L’iniziativa di disobbedienza civile organizzata dai Comitati di Resistenza Popolare è incominciata ieri pomeriggio quando sei attivisti palestinesi si sono presentati alla fermata dell’autobus 148 – che collega la colonia di Ariel a Gerusalemme – indossando la kuffiya palestinese e magliette con scritto “Giustizia”, “Libertà”, “Dignità”.

Scopo dell’azione era quello di salire sui bus israeliani ed andare a Gerusalemme, sfidando il regime israeliano di apartheid e la sua politica di segregazione. Alla fermata del 148, presso la colonia israeliana di Psagot, i sei Freedom Riders palestinesi, accompagnati da circa venti giornalisti, hanno aspettato l’autobus diretto a Gerusalemme Est, nella colonia di Pisgat Zeev, che si trova fuori dalla Linea Verde.

“Si tratta di una forma di disobbedienza civile ispirata alla lotta contro l’apartheid negli Stati Uniti” ha spiegato l’attivista ed organizzatore Mazin Qumsiyeh – non so quello che succederà ma penso che verremo duramente puniti : per un palestinese con carta d’identità della Cisgiordania la pena prevista per ingresso illegale può arrivare a sette anni di prigione. Ma voglio che si sappia che qui c’è un sistema di apartheid, che ci sono insediamenti coloniali illegali sulla nostra terra, che queste colonie hanno i loro autobus e che i coloni possono andare a Gerusalemme senza nessun tipo di controllo”.

“Vogliamo mostrare al mondo che questo non è un paese democratico” ha dichiarato il Freedom Rider Basil al-Araj, originario del villaggio di al-Walaje (area di Betlemme) – E’ un paese di apartheid ed ingiustizia. Voglio solamente andare a Gerusalemme! E questi bus sono un simbolo della segregazione che vige oggi in Israele”.

“Sono quasi due milioni i palestinesi della Cisgiordania che non hanno il diritto di entrare a Gerusalemme ed in Israele senza un permesso speciale” ha spiegato Sari Bashi, direttore dell’organizzazione israeliana per i diritti umani Gisha.

Durante l’attesa – due bus sono transitati senza fermarsi – alcuni coloni che si trovavano alla fermata si sono allontanati dal gruppo di palestinesi. “Non penso che dovrebbero stare qui” ha affermato un colono di Rimonim – dovrebbero rimanere nei loro villaggi. Perchè ora sono nella nostra area? Anche noi non abbiamo il diritto di andare nelle loro aree. Se entrassimo a Ramallah, ci ucciderebbero”.

Alla fine gli attivisti palestinesi ed i giornalisti sono riusciti a salire nel bus, assieme a molti coloni e ad un poliziotto israeliano. Al checkpoint di Hizma la polizia israeliana di frontiera è entrata nel bus e ha iniziato a controllare le carte d’identità dei palestinesi chiedendo loro il permesso per entrare a Gerusalemme. “Noi abbiamo il diritto di entrare a Gerusalemme. Perchè un colono non ha bisogno del permesso? Noi non vogliamo seguire queste regole di apartheid” hanno risposto i Freedom Riders.

L’autobus ha superato il posto di blocco e si è fermato dopo pochi metri in un parcheggio. La autorità israeliane hanno chiesto agli attivisti palestinesi di scendere dall’autobus, ma di fronte al loro rifiuto, li hanno presi con forza ed arrestati per ingresso illegale in Israele. Assieme a loro è stato arrestato anche Mohamed Jaradat, giornalista di Ramallah, che non aveva il permesso di entrare a Gerusalemme. Questa mattina tutti i detenuti sono stati rilasciati.

“Speriamo che questa sia stata la prima di tante azioni simili” ha concluso la Freedom Rider Huwaida Arraf – ci sono tanti altri palestinesi che vogliono prendere parte a questa iniziativa”. Nena News

Attivista buttata giù dall'autobus con la forza

Discorso di chiusura alla manifestazione NO F35 di Novara

Siamo giovani studenti o disoccupati, siamo lavoratori precari, siamo operai ed impiegati, siamo dipendenti pubblici da razionalizzare, siamo irriducibili antimilitaristi e disarmanti pacifisti, siamo riformisti e antagonisti, siamo cittadini di buon senso indignati ed esasperati.
Per l'ennesima volta siamo qui a manifestare.
Dobbiamo ripeterci, dobbiamo insistere.
Quelli che hanno le chiavi del potere non sentono, sono sordi di fronte alle nostre richieste.
Ma noi non demordiamo.
Noi insistiamo; non ci fermiamo.

Chi passi dalle parti dell'aeroporto militare di Cameri, a pochi chilometri da qui, può vedere il loro capolavoro.
Crescono gli hangar destinati ad ospitare la fabbrica della morte, la fabbrica per assemblare i cacciabombardieri F-35.
Ormai lo sanno tutti che cosa sono questi cacciabombardieri: armi d'attacco, micidiali macchine di morte per lo sterminio di massa.
I loro predecessori (Tornado e compagnia bella) li abbiamo visti recentemente in azione sui cieli della Libia.
O meglio: l'aeronautica militare riferisce che erano in azione e che hanno compiuto innumerevoli missioni al suolo.
Noi non abbiamo visto un bel niente.
Le guerre vengono nascoste agli occhi del mondo.
Si fanno vedere poche cose e si offrono immagini manipolate.
Ma l'aeronautica militare italiana non nasconde il suo orgoglio per la precisione conseguita nel raggiungimento dei loro target.
Tradotto in italiano significa che si sono dichiarati orgogliosi di aver colpito ed ucciso.
Ecco: gli F-35 andranno a sostituire i cacciabombardieri attualmente in servizio.
Andranno a combattere le prossime guerre. Non resteranno certo ad arrugginire negli aeroporti militari. Non svolazzeranno certo per il divertimento di piloti simpatici ragazzini.
Si alzeranno in volo, nelle prossime guerre, e sganceranno il loro carico di morte da quote irraggiungibili.
Vigliaccamente nascosti tra le nuvole, andranno a colpire uomini e donne, vecchi e bambini, esseri umani ed animali.

Le guerre, già, le guerre.
Ormai l'Italia sta in guerra da vent'anni.
Ormai l'Italia è una vera e propria piattaforma di guerra.
Si parte da qui e si combatte dovunque.
Ora qui, ora lì: la prima guerra del Golfo, la Somalia, l'ex Jugoslavia ed il Kosovo, l'Afghanistan, l'Iraq, il Libano, la Libia.
Quante guerre per una nazione che crede di essere in pace.
Quante guerre per una repubblica che ha scritto, nella sua Costituzione, di ripudiare la guerra.
Quante violazioni della legalità costituzionale.
Quanto disprezzo per i diritti degli individui e dei popoli.
Quanta prepotenza.
Quanta sete di potere.
Quanta subordinazione alla volontà dei padroni del mondo, che tutto vogliono controllare: territori, risorse naturali, coscienze.
Si stravolge pure la verità dei fatti e si trasformano l'aggressione in legittima difesa, i prepotenti in timidi difensori dei diritti umani, i rapinatori di risorse in pensosi asceti tutti dediti al bene comune.

Certo: spendere, solo in Italia, più di venti miliardi di euro per costruire e per acquistare cacciabombardieri può sembrare a qualcuno un grande affare.
Certo: un grande affare, ma solo per qualcuno.
Per i soliti noti pescecani delle industrie militari.
Prendono soldi pubblici sottratti alla spesa per i servizi sociali ed effettuano commesse per grandi imprese in cui prevale il capitale privato. Si spendono soldi pubblici e si permette ad un numero ristretto di azionisti di accrescere i loro profitti.
Questo è il loro libero mercato: i costi addossati alla comunità, i profitti concentrati nelle mani dei soliti oligarchi.

E poi, nel silenzio politico-istituzionale, hanno già creato un nuovo modello di difesa: lo determinano le scelte economiche delle grandi imprese produttrici di armi. Nel nostro caso si tratta della statunitense Lockheed Martin e del suo partner italico, Finmeccanica, la società capogruppo di Alenia, che è appunto impegnata appunto nell'assemblaggio degli F-35.
Un modello di difesa che è pericoloso per la sicurezza internazionale e che corrompe le strutture dello Stato.
Un modello che ci porta diritti alla completa militarizzazione della società. L'abbiamo visto chiaramente di recente in Val di Susa: forze di polizia e militari che comprimono le libertà fondamentali in nome del profitto di poche imprese.

Ci dicono che la fabbrica camerese porterà chissà quanti posti di lavoro per i giovani delle nostre parti.
Anche se fosse, si tratterebbe di posti maledetti, creati sulla pelle dei poveri del mondo e delle vittime delle guerre. Una vergogna insopportabile: vogliono rendere i giovani complici della loro violenza, delle loro aggressioni, delle loro guerre.
Anche se fosse vero, anche se davvero potessero essere creati innumerevoli posti di lavoro, noi comunque ci opporremmo.
Ma in realtà non è neppure vero.
I posti saranno pochi (e maledetti).
Con gli enormi capitali impiegati si potrebbero creare, in qualsiasi settore civile, almeno il triplo dei posti di lavoro che stanno promettendo.

Ma noi non ci caschiamo: non vi dovete illudere.
Non siamo noi a cancellare il futuro dei giovani e le opportunità di lavoro.
Siete voi, carissimi politici ed industriali criminali, ad avere cancellato il futuro della stragrande maggioranza degli esseri umani.
Siete voi che ci volete regalare un destino da vittime bombardate o da servi della vostra cupidigia.

Noi comunque siamo qui a ribadire la nostra posizione ed a lottare per raggiungere i nostri obiettivi: la cancellazione del progetto F-35, il rifiuto di tutte le guerre, il taglio netto delle spese militari.
I tempi ormai sono maturi, ormai è ora di gridare a gran voce che non possiamo sopportare che, in un solo anno, vengano impiegati 27 miliardi dei nostri soldi per il mantenimento di un apparato militare pletorico e per la partecipazione a guerre d'aggressione.
Ora basta.
Non possiamo vedere sprecare vite, denaro, risorse nelle guerre, mentre dobbiamo sopportare il taglio dei salari reali e la riduzione di servizi sociali d'ogni genere (dalla scuola alla sanità).
Otto miliardi di tagli alla scuola pubblica: tanto per fare un esempio.
Ma per le armi i soldi ci sono.
Per le guerre i soldi ci sono.
Per gli F-35 non si gioca al risparmio.

Ma noi resistiamo.
Non li lasceremo in pace.
Daremo loro fastidio in ogni modo lecito possibile.
Non lasceremo in pace chi vuol fare la guerra.

Movimento NO F35

SE ISRAELE ATTACCA L’IRAN SCENARI DA INCUBO

SE ISRAELE ATTACCA L’IRAN SCENARI DA INCUBO
La distruzione di Bushher produrrebbe una nube radioattiva che si diffonderebbe sul Golfo persico e sul Mediterraneo. Se venisse distrutto il reattore di Dimona la nube si diffonderebbe non solo su Israele. Le morti nella regione sarebbero molte migliaia

di Manlio Dinucci

Roma, 11 novembre 2011, Nena News – Col tono da imbonitore, il ministro israeliano della difesa Ehud Barak ha annunciato che, se «il paese fosse costretto a una guerra» contro l’Iran, non gli costerebbe «100mila morti, né 10mila e neppure 1.000, ma appena 500 e anche meno se tutti stessero al riparo in casa». Non sono compresi, nel macabro calcolo, tutti gli altri morti.



Secondo alti funzionari britannici, l’attacco all’Iran potrebbe avvenire tra Natale e gli inizi del nuovo anno, con l’appoggio logistico statunitense. Gli esperti ritengono che i siti nucleari iraniani verrebbero colpiti con missili e cacciabombardieri, attraverso tre corridoi aerei: uno diretto attraverso Giordania e Iraq, uno meridionale attraverso Giordania ed Arabia saudita, uno settentrionale attraverso il Mediterraneo e la Turchia. Gli impianti nucleari verrebbero colpiti con bombe penetranti a testata non-nucleare, come le Blu-117 già fornite dagli Usa, che possono essere sganciate a oltre 60 km dall’obiettivo, su cui si dirigono automaticamente.

Che cosa avverrebbe se fosse distrutta la centrale nucleare iraniana di Bushher, che ha cominciato a produrre elettricità lo scorso settembre con una capacità di 60 megawatt? Si produrrebbe una nube radioattiva simile a quella di Cernobyl che, a seconda dei venti, si diffonderebbe sul Golfo persico o anche sul Mediterraneo. Ancora più gravi sarebbero le conseguenze se, per ritorsione, l’Iran colpisse il reattore israeliano di Dimona, la cui potenza viene stimata in 70-150 MW. L’Iran non possiede armi nucleari, ma ha missili balistici a medio raggio, testati lo scorso giugno, che con la loro gittata di circa 2.000 km sono in grado di raggiungere Israele. Tali missili sono installati in silos sotterranei e, quindi, difficilmente neutralizzabili con un attacco «preventivo». Se venisse danneggiato o distrutto il reattore di Dimona, che produce plutonio e trizio per le armi nucleari israeliane, la nube radioattiva si diffonderebbe non solo su Israele (Dimona dista appena 85 km da Gerusalemme), ma anche sulla Giordania (25 km) e l’Egitto (75 km). E, a seconda dei venti, potrebbe raggiungere anche l’Italia e altri paesi europei. Le radiazioni (soprattutto quelle dello iodio-131 e del cesio-137) provocherebbero col tempo migliaia di morti per cancro.

Questo è previsto da chi pianifica l’attacco all’Iran. E’ quindi previsto di neutralizzare la capacità di risposta dell’Iran. Ciò non potrebbe essere fatto dalle sole forze israeliane. Secondo Dan Plesch, direttore del Centro di studi internazionali dell’Università di Londra, «i bombardieri Usa sono già pronti a distruggere 10mila obiettivi in Iran in poche ore». E anche la Gran Bretagna, rivela The Guardian, è pronta ad attaccare l’Iran. Il piano prevede sicuramene lo schieramento di armi nucleari israeliane (tra cui il missile Jericho a lungo raggio testato il 2 novembre) e anche statunitensi e britanniche. O per dissuadere l’Iran dall’effettuare una pesante rappresaglia, anche contro basi Usa nel Golfo, o per un attacco risolutivo effettuato con una bomba a neutroni, che contamina meno ma uccide di più.

Una guerra all’Iran comporterebbe la più alta probabilità di un uso di armi nucleari dalla fine della guerra fredda ad oggi. Mentre l’opinione pubblica è concentrata sullo «spread» finanziario, aumenta lo «spread» umano, il differenziale tra le scelte politiche e quelle necessarie per la sopravvivenza della specie umana.

lunedì 14 novembre 2011

TRIBUNALE RUSSELL ACCUSA:ISRAELE PRATICA APARTHEID

Formato da personalità emerite, giuristi e intellettuali, il Tribunale ha affermato che i palestinesi sono "soggetti a un regime istituzionalizzato di dominazione che integra la nozione di apartheid come definita in diritto internazionale".

di CHANTAL MELONI

Roma, 09 novembre 2011, Nena News – Si è chiusa a Cape Town (Sud-Africa) la terza sessione del Tribunale Russell sulla Palestina. Nel corso dei tre giorni appena trascorsi, giuristi, intellettuali e attivisti provenienti da tutto il mondo si sono confrontati con la domanda se le pratiche israeliane contro la popolazione palestinese violino il divieto di apartheid in base al diritto internazionale. La conclusione è stata una netta affermazione di responsabilità nei confronti di Israele: il Tribunale Russell ha affermato che il popolo palestinese è “soggetto a un regime istituzionalizzato di dominazione che integra la nozione di apartheid come definita in diritto internazionale”.



Nato dall’idea del filosofo inglese Bertrand Russell e del commediografo e filosofo francese Jean Paul Sartre nel 1966 – come risposta ai crimini commessi durante la guerra del Vietnam – il Tribunale Russell è un cosiddetto tribunale di opinione. Si tratta in altre parole di un’istituzione priva di poteri giudiziari o coercitivi, composta non da magistrati togati ma da personalità emerite, giuristi e intellettuali, tra cui, storicamente, diversi premi Nobel. Il suo scopo è di portare attenzione e pubblica consapevolezza su gravi situazioni di violazioni di diritti umani, commissione di crimini di guerra, contro l’umanità, o altre violazioni del diritto internazionale.

Il presente Tribunale Russell sulla Palestina si inserisce dunque in una lunga tradizione: dopo l’esperienza molto positiva del tribunale post-Vietnam un certo numero di altri tribunali di opinione (anche chiamati Peoples’ Tribunals) sono stati istituiti negli ultimi quaranta anni per situazioni quali l’America latina, l’Argentina, le Filippine, il Salvador, l’Afghanistan, Timor Est, lo Zaire, il Guatemala, nonché per il genocidio degli armeni da parte della Turchia e per la recente invasione e occupazione dell’Iraq da parte della coalizione guidata dalle truppe americane.

Tale tribunale vuole essere una risposta all’inazione della comunità internazionale di fronte alle accertate violazioni del diritto internazionale commesse da Israele. Due sessioni sono già state celebrate nel corso del 2010, la prima a Barcellona e la seconda a Londra, dedicate rispettivamente alle responsabilità dell’Unione Europea e alla complicità delle coorporations rispetto alle violazioni commesse contro i Palestinesi da parte dello Stato di Israele.

La giuria della sessione sud-africana è stata composta, tra gli altri, da uno dei padri della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, il giurista, partigiano, sopravvissuto all’olocausto, Stéphane Hessel, dalla premio Nobel per la pace Mairead Maguire e dall’ex senatrice americana Cynthia McKinney. Il discorso introduttivo è stato affidato all’arcivescovo Desmond Tutu, che ha ovviamente voluto ricordare l’esperienza del Sud-Africa, ove il regime di apartheid fu sconfitto anche e soprattutto grazie alla protesta coraggiosa e ostinata di migliaia di cittadini comuni (demonizzati come terroristi dal regime), attorno ai quali si formò un movimento di solidarietà internazionale di tale portata che mise alle spalle il regime. Certamente di fondamentale importanza fu la adozione della Convenzione Onu sul crimine di apartheid del 1973, e le relative Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e dell’Assemblea Generale.

Come lo stesso Tutu notava in un recente editoriale sul Guardian, non si possono trarre facili paralleli tra la situazione sud-africana e quella israelo-palestinese. Si tratta di due situazioni certamente diverse da un punto di vista storico e di contesto, e tuttavia come da lui riconosciuto, molte delle pratiche israeliane addirittura superano – a livello di discriminazione e oppressione – quella che era la realtà sud-africana. In questo senso anche le recenti esternazioni di Richard Goldstone, che in una excusatio non petita ha sostenuto dalle pagine del New York Times che le accuse mosse ad Israele di essere uno stato che pratica l’apartheid sono “false e maliziose”, sono state definite superficiali ed erronee, nelle parole di Tutu, nonché in cattiva fede (si veda tra gli altri Richard Falk in un duro commento di tre giorni fa).

Quel che è certo è che il crimine di apartheid non è scomparso una volta terminata l’apartheid in Sud-Africa e la sua nozione è di per sé utilizzabile anche al fuori del contesto sud-africano. Questo è reso peraltro esplicito dallo Statuto della Corte Penale Internazionale (del 1998, quindi successiva alla fine del regime di apartheid sud-africana), che all’art. 7 comma 1 prevede l’apartheid tra i crimini contro l’umanità, definendolo come un “atto inumano commesso nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e dominazione di un gruppo razziale su di un altro gruppo razziale e commesso con l’intento di mantenere quel regime” (sub 7(1)(j) degli Elements of crimes).

Molti testimoni ed esperti sono stati chiamati a testimoniare davanti al Tribunale Russell a Cape Town; tra questi Raji Sourani, il direttore del Centro Palestinese per i Diritti Umani (PCHR) di Gaza. Esponendo le pratiche discriminatorie perpetrate da Israele ai danni del popolo Palestinese, Sourani ha messo bene in luce come queste pratiche siano diverse a seconda che si tratti della minoranza palestinese residente in Israele, dei Palestinesi in Cisgiordania, a Gerusalemme Est o dell’oltre milione e mezzo di Palestinesi di Gaza. E tuttavia nella sostanza poco cambia: il complesso delle gravi discriminazioni commesse ai danni della popolazione non ebrea in Israele o dei Palestinesi nei territori occupati integra una forma di apartheid, che sebbene non coincidente nella forma quella a suo tempo praticata in Sud-Africa, ne ricalca la sostanza.

Lo spiega particolarmente bene John Dugard (anche lui sud-africano), professore emerito di diritto internazionale, ex Special Rapporteur all’Onu sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato (fino al 2008) e voce particolarmente autorevole in materia, non solo per essere l’autore della più importante pubblicazione scientifica in tema di apartheid, ma anche in quanto come avvocato e direttore del Center for Applied Legal Studies sud-africano, fu in prima persona impegnato nel movimento di opposizione all’apartheid.

Come Dugard ricorda in un recente breve articolo, l’essenza del regime di apartheid si basa su tre pilastri: la discriminazione razziale, la repressione e la frammentazione territoriale. Nel Sud-Africa dell’apartheid era reato per un nero trovarsi nelle cosiddette “zone bianche” senza i necessari permessi; la legge permetteva di arrestare e detenere gli oppositori per motivi di sicurezza a tempo indeterminato e senza processo.

Dugard, che conosce benissimo la situazione israelo-palestinese avendo ricoperto diversi incarichi di alto profilo e avendo visitato la regione regolarmente a partire dal 1982, racconta di essere da subito rimasto scioccato dalle similitudini tra il regime di apartheid in Sud-Africa e le pratiche israeliane nei confronti dei palestinesi nel territorio occupato (e che tuttavia fino al 2005 come Special Rapporteur decise nei primi anni di astenersi da tale paragone per paura di essere delegittimato). Dugard non manca a sua volta di notare le differenze tra i due regimi: mentre il Sud-Africa dell’apartheid era un regime che praticava la discriminazione avverso i suoi propri cittadini, Israele è una potenza di occupazione che controlla un territorio straniero e i suoi abitanti in forza di un regime che è riconosciuto dal diritto umanitario internazionale.

Ma in pratica, nota ancora Dugard, non vi è molta differenza: entrambi i regimi sono caratterizzati da discriminazione, repressione e frammentazione territoriale. L’esperienza degli umilianti check points, delle strade separate (riservate ai coloni), della demolizione di case e degli accampamenti dei beduini, del muro di separazione (in realtà atto a confiscare terre ai contadini), le detenzioni amministrative a tempo indeterminato e senza garanzie: tutte pratiche di cui Dugard fa esperienza con i suoi occhi per una seconda volta. La differenza maggiore a suo parere è che il regime di apartheid sud-africano “era più onesto: la legge di apartheid era stata passata in parlamento ed era visibile a tutti, mentre quella che governa i Palestinesi nei territori occupati è contenuta in oscuri decreti militari e regolamenti di emergenza che sono praticamente inaccessibili”.

Non solo lo stato di Israele viene continuamente meno al suo obbligo, imposto dal diritto internazionale come potenza occupante, di garantire il benessere e la sicurezza della popolazione civile del territorio occupato (è bene notare che quasi tutte le infrastrutture nel territorio palestinese, incluse le scuole, gli ospedali, le strade, gli acquedotti sono opera di donors stranieri e agenzie di aiuti internazionali); Israele pratica, sempre nelle parole di Dugard, il peggiore tipo di colonalismo, sfruttando le risorse idriche e la terra dei Palestinesi mediante una aggressiva comunità di coloni ebrei che non ha alcun interesse nel benessere degli abitanti della zona.

Se non è apartheid questa, occorre allora coniare una nuova parola per descrivere il crimine che i palestinesi stanno subendo, una parola che rispecchi la disumanità delle politiche di soggiogamento e oppressione di una intera popolazione da oltre 44 anni. Nena News

*Ricercatrice in Diritto Penale / Istituto Cesare Beccaria, Universitá degli Studi di Milano
Alexander Von Humboldt Stipendiatin / Völkerstrafrecht, Humboldt Universität zu Berlin