venerdì 26 dicembre 2014

Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda


Il riorientamento strategico della Nato
dopo la guerra fredda

Manlio Dinucci


La Nato, fondata il 4 aprile 1949, comprende durante la guerra fredda sedici paesi: Stati Uniti, Canada, Belgio, Danimarca, Francia, Repubblica federale tedesca, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Turchia. Attraverso questa alleanza, gli Stati Uniti mantengono il loro dominio sugli alleati europei, usando l’Europa come prima linea nel confronto, anche nucleare, col Patto di Varsavia. Questo, fondato il 14 maggio 1955 (sei anni dopo la Nato), comprende Unione Sovietica, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Repubblica democratica tedesca, Romania, Ungheria, Albania (dal 1955 al 1968).

Dalla guerra fredda al dopo guerra fredda
Il 9 novembre 1989 avviene il «crollo del Muro di Berlino»: è l’inizio della riunificazione tedesca che si realizza quando, il 3 ottobre 1990, la Repubblica Democratica si dissolve aderendo alla Repubblica Federale di Germania. Il 1° luglio 1991 si dissolve il Patto di Varsavia: i paesi dell’Europa centro-orientale che ne facevano parte non sono ora più alleati dell’Urss. Il 26 dicembre 1991, si dissolve la stessa Unione Sovietica: al posto di un unico Stato se ne formano quindici.
La scomparsa dell’Urss e del suo blocco di alleanze crea, nella regione europea e centro-asiatica, una situazione geopolitica interamente nuova. Contemporaneamente, la disgregazione dell’Urss e la profonda crisi politica ed economica che investe la Russia segnano la fine della superpotenza in grado di rivaleggiare con quella statunitense.
La guerra del Golfo del 1991 è la prima guerra che, nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, Washington non motiva con la necessità di arginare la minacciosa avanzata del comunismo, giustificazione alla base di tutti i precedenti interventi militari statunitensi nel «terzo mondo», dalla guerra di Corea a quella del Vietnam, dall'invasione di Grenada all'operazione contro il Nicaragua. Con questa guerra gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza militare e influenza politica nell’area strategica del Golfo, dove si concentra gran parte delle riserve petrolifere mondiali, e allo stesso tempo lanciano ad avversari, ex-avversari e alleati un inequivocabile messaggio. Esso è contenuto nella National Security Strategy of the United States (Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti), il documento con cui la Casa Bianca enuncia, nell’agosto 1991, la nuova strategia.
«Nonostante l'emergere di nuovi centri di potere – sottolinea il documento a firma del presidente – gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un'influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali. Nel Golfo abbiamo dimostrato che la leadership americana deve includere la mobilitazione della comunità mondiale per condividere il pericolo e il rischio. Ma la mancanza di altri nell'assumersi il proprio onere non ci scuserebbe. In ultima analisi, siamo responsabili verso i nostri stessi interessi e la nostra stessa coscienza, verso i nostri ideali e la nostra storia, per ciò che facciamo con la potenza in nostro possesso. Negli anni Novanta, così come per gran parte di questo secolo, non esiste alcun sostituto alla leadership americana».

Il nuovo concetto strategico della Nato
Mentre riorientano la propria strategia, gli Stati Uniti premono sulla Nato perché faccia altrettanto. Per loro è della massima urgenza ridefinire non solo la strategia, ma il ruolo stesso dell’Alleanza atlantica. Con la fine della guerra fredda e il dissolvimento del Patto di Varsavia e della stessa Unione Sovietica, viene infatti meno la motivazione della «minaccia sovietica» che ha tenuto finora coesa la Nato sotto l’indiscussa leadership statunitense: vi è quindi il pericolo che gli alleati europei facciano scelte divergenti o addirittura ritengano inutile la Nato nella nuova situazione geopolitica creatasi nella regione europea.
Il 7 novembre 1991 (dopo la prima guerra del Golfo, a cui la Nato ha partecipato non ufficialmente in quanto tale, ma con sue forze e strutture), i capi di stato e di governo dei sedici paesi della Nato, riuniti a Roma nel Consiglio atlantico, varano «Il nuovo concetto strategico dell'Alleanza». «Contrariamente alla predominante minaccia del passato – afferma il documento – i rischi che permangono per la sicurezza dell'Alleanza sono di natura multiforme e multidirezionali, cosa che li rende difficili da prevedere e valutare. Le tensioni potrebbero portare a crisi dannose per la stabilità europea e perfino a conflitti armati, che potrebbero coinvolgere potenze esterne o espandersi sin dentro i paesi della Nato». Di fronte a questi e altri rischi, «la dimensione militare della nostra Alleanza resta un fattore essenziale, ma il fatto nuovo è che sarà più che mai al servizio di un concetto ampio di sicurezza». Definendo il concetto di sicurezza come qualcosa che non è circoscritto all’area nord-atlantica, si comincia a delineare la «Grande Nato».

Il «nuovo modello di difesa» dell’Italia
Tale strategia è fatta propria anche dall’Italia quando, sotto il sesto governo Andreotti, essa partecipa alla guerra del Golfo: i Tornado dell’aeronautica italiana effettuano 226 sortite per complessive 589 ore di volo, bombardando gli obiettivi indicati dal comando statunitense. E’ la prima guerra a cui partecipa la Repubblica italiana, violando l’articolo 11, uno dei principi fondamentali della propria Costituzione.
Subito dopo la guerra del Golfo, durante il settimo governo Andreotti, il ministero della difesa italiano pubblica, nell'ottobre 1991, il rapporto Modello di Difesa / Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni '90. Il documento riconfigura la collocazione geostrategica dell'Italia, definendola «elemento centrale dell'area geostrategica che si estende unitariamente dallo Stretto di Gibilterra fino al Mar Nero, collegandosi, attraverso Suez, col Mar Rosso, il Corno d'Africa e il Golfo Persico». Considerata la «significativa vulnerabilità strategica dell'Italia» soprattutto per l'approvvigionamento petrolifero, «gli obiettivi permanenti della politica di sicurezza italiana si configurano nella tutela degli interessi nazionali, nell'accezione più vasta di tali termini, ovunque sia necessario», in particolare di quegli interessi che «direttamente incidono sul sistema economico e sullo sviluppo del sistema produttivo, in quanto condizione indispensabile per la conservazione e il progresso dell'attuale assetto politico e sociale della nazione».
Nel 1993 – mentre l’Italia sta partecipando all’operazione militare lanciata dagli Usa in Somalia, e al governo Amato subentra quello Ciampi – lo Stato maggiore della difesa dichiara che «occorre essere pronti a proiettarsi a lungo raggio» per difendere ovunque gli «interessi vitali», al fine di «garantire il progresso e il benessere nazionale mantenendo la disponibilità delle fonti e vie di rifornimento dei prodotti energetici e strategici».
Nel 1995, durante il governo Dini, lo stato maggiore della difesa fa un ulteriore passo avanti, affermando che «la funzione delle forze armate trascende lo stretto ambito militare per assurgere anche a misura dello status e del ruolo del paese nel contesto internazionale».
Nel 1996, durante il governo Prodi, tale concetto viene ulteriormente sviluppato nella 47a sessione del Centro alti studi della difesa. «La politica della difesa – afferma il generale Angioni – diventa uno strumento della politica della sicurezza e, quindi, della politica estera».
Viene in tal modo istituita una nuova politica militare e, contestualmente, una nuova politica estera la quale, usando come strumento la forza militare, viola il principio costituzionale, affermato dall’Articolo 11, che «l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Questa politica, introdotta attraverso decisioni apparentemente tecniche, viene di fatto istituzionalizzata passando sulla testa di un parlamento che, in stragrande maggioranza, se ne disinteressa o non sa neppure che cosa precisamente stia avvenendo.

La guerra contro la Iugoslavia
Poco tempo dopo essere stato enunciato, il «nuovo concetto strategico» viene messo in pratica nei Balcani. Nel luglio 1992 la Nato lancia la sua prima operazione di «risposta alle crisi», la Maritime Monitor, per imporre l’embargo alla Jugoslavia. Nei Balcani, tra l‘ottobre ’92 e il marzo ’99, conduce undici operazioni: Deny Flight, Sharp Guard, Eagle Eye e altre. Il 28 febbraio 1994, durante la Deny Flight in Bosnia, la Nato effettua la prima azione di guerra nella sua storia. Viola così l’art. 5 della sua stessa carta costitutiva, poiché l’azione bellica non è motivata dall’attacco a un membro dell’Alleanza ed è effettuata fuori dalla sua area geografica.
Spento l’incendio in Bosnia (dove il fuoco resta sotto la cenere della divisione in stati etnici), i pompieri di Washington corrono a gettare benzina sul focolaio del Kosovo, dove è in corso da anni una rivendicazione di indipendenza da parte della maggioranza albanese (un milione e 800 mila persone, in confronto a 200 mila serbi, oltre 100 mila rom e goranci). Attraverso canali sotterranei in gran parte gestiti dalla Cia, un fiume di armi e finanziamenti, tra la fine del 1998 e l’inizio del 1999, va ad alimentare l’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo), braccio armato del movimento separatista kosovaro-albanese. Eppure, ancora nei primi mesi del 1998, il Dipartimento di stato Usa, per bocca dell’inviato Gelbart, definisce l’Uck una organizzazione terroristica. Agenti della Cia dichiareranno successivamente di «essere entrati in Kosovo nel 1998 e 1999, in veste di osservatori dell’Osce incaricati di verificare il cessate il fuoco, stabilendo collegamenti con l’Uck e dandogli manuali statunitensi di addestramento militare e consigli su come combattere l’esercito iugoslavo e la polizia serba, telefoni satellitari e apparecchi Gps, così che i comandanti della guerriglia potessero stare in contatto con la Nato e Washington». L’Uck può così scatenare un’offensiva contro le truppe federali e i civili serbi, con centinaia di attentati e rapimenti.
Mentre gli scontri tra le forze iugoslave e quelle dell’Uck provocano vittime da ambo le parti, una potente campagna politico-mediatica prepara l’opinione pubblica internazionale all’intervento della Nato, presentato come l’unico modo per fermare la «pulizia etnica» serba in Kosovo. A tale scopo viene fatta fallire l’opera di mediazione della Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) che, nell’autunno 1998, invia una sua missione in Kosovo con il compito di vagliare le possibilità di pace e fermare la guerra denunciando le violazioni. E’ a questo punto che, alla metà di gennaio 1999, viene fuori a Racak, zona controllata dall’Uck, l’«eccidio» di 45 «civili albanesi»: sono, dimostreranno in seguito i medici legali di una commissione indipendente finlandese, combattenti albanesi vittime negli scontri, non civili indifesi. Dando immediatamente per buona la versione dell’eccidio di civili, il capo della missione Osce, lo statunitense William Walzer (già agente della Cia in Salvador negli anni Ottanta), ritira la missione internazionale. I serbi vengono accusati di «pulizia etnica», nonostante che un rapporto Onu del gennaio 1999 valuti il numero di sfollati, sia albanesi che serbi e rom, in circa 60 mila, e la stessa missione Osce non abbia parlato sino a quel momento, nei suoi rapporti, di pulizia etnica. Vi sono evidentemente degli eccidi, commessi dall’una e dall’altra parte, non però la «pulizia etnica» che serve a motivare l’intervento armato degli Stati Uniti e dei loro alleati.
La guerra, denominata «Operazione forza alleata», inizia il 24 marzo 1999. Mentre gli aerei di Stati Uniti e altri paesi della Nato sganciano le prime bombe sulla Serbia e il Kosovo, il presidente democratico Clinton annuncia: «Alla fine del XX secolo, dopo due guerre mondiali e una guerra fredda, noi e i nostri alleati abbiamo la possibilità di lasciare ai nostri figli un’Europa libera, pacifica e stabile». Determinante, nella guerra, è il ruolo dell’Italia: il governo D’Alema mette il territorio italiano, in particolare gli aeroporti, a completa disposizione delle forze armate degli Stati Uniti e altri paesi, per attuare quello che il presidente del consiglio definisce «il diritto d’ingerenza umanitaria».
Per 78 giorni, decollando soprattutto dalle basi italiane, 1.100 aerei effettuano 38mila sortite, sganciando 23 mila bombe e missili. Il 75 per cento degli aerei e il 90 per cento delle bombe e dei missili vengono forniti dagli Stati Uniti. Statunitense è anche la rete di comunicazione, comando, controllo e intelligence (C3I) attraverso cui vengono condotte le operazioni: «Dei 2.000 obiettivi colpiti in Serbia dagli aerei della Nato – documenta successivamente il Pentagono – 1.999 vengono scelti dall’intelligence statunitense e solo uno dagli europei».
Sistematicamente, i bombardamenti smantellano le strutture e infrastrutture della Serbia e del Kosovo, provocando vittime soprattutto tra i civili. I danni che ne derivano per la salute e l’ambiente sono inquantificabili. Solo dalla raffineria di Pancevo fuoriescono, a causa dei bombardamenti, migliaia di tonnellate di sostanze chimiche altamente tossiche (compresi diossina e mercurio). Altri danni vengono provocati dal massiccio impiego da parte della Nato di proiettili a uranio impoverito, già usati nella guerra del Golfo.
Ai bombardamenti partecipano anche 54 aerei italiani, che compiono 1.378 sortite, attaccando gli obiettivi indicati dal comando statunitense. «Per numero di aerei siamo stati secondi solo agli Usa. ... L’Italia è un grande paese e non ci si deve stupire dell’impegno dimostrato in questa guerra», dichiara il presidente del consiglio D’Alema durante la visita compiuta il 10 giugno 1999 alla base di Amendola, sottolineando che, per i piloti che vi hanno partecipato, è stata «una grande esperienza umana e professionale».
Il 10 giugno 1999, le truppe della Federazione iugoslava cominciano a ritirarsi dal Kosovo e la Nato mette fine ai bombardamenti. La risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che assume i contenuti della pace firmata a Kumanovo in Macedonia, «autorizza stati membri e rilevanti organizzazioni internazionali a stabilire la presenza internazionale di sicurezza in Kosovo, come disposto nell’annesso 2.4». L’annesso 2.4 dispone che la presenza internazionale deve avere una «sostanziale partecipazione della Nato» ed essere dispiegata «sotto controllo e comando unificati». A chi spetti il comando lo ha già chiarito il giorno prima il presidente Clinton, sottolineando che l’accordo sul Kosovo prevede «lo spiegamento di una forza internazionale di sicurezza con la Nato come nucleo, il che significa una catena di comando unificata della Nato». «Oggi la Nato affronta la sua nuova missione: quella di governare», commenta The Washington Post.
Finita la guerra, vengono inviati in Kosovo dal «Tribunale per i crimini nella ex Iugoslavia» oltre 60 agenti dell’Fbi statunitense, ma non vengono trovate tracce di eccidi tali da giustificare l’accusa di «pulizia etnica». Il Kosovo, divenuto una sorta di protettorato della Nato, viene di fatto distaccato dalla Federazione Iugoslava. Gli Usa, in aperto disprezzo degli accordi di Kumanovo, costruiscono presso Urosevac, Camp Bondsteel, la più grande base militare statunitense di tutta l’area, destinata a rimanervi per sempre. Contemporaneamente, sotto la copertura della «Forza di pace», l’ex Uck terrorizza ed espelle dal Kosovo oltre 260mila serbi, rom, albanesi «collaborazionisti» ed ebrei.

Il superamento dell’articolo 5 e la conferma della leadership Usa
Mentre è in corso la guerra contro la Iugoslavia, viene convocato a Washington, il 23-25 aprile 1999, il vertice della Nato che ufficializza il «nuovo concetto strategico»: nasce «una nuova Alleanza più grande, più capace e più flessibile, impegnata nella difesa collettiva e capace di intraprendere nuove missioni, tra cui l’attivo impegno nella gestione delle crisi, incluse le operazioni di risposta alle crisi». Da alleanza che, in base all’articolo 5 del trattato del 4 aprile 1949, impegna i paesi membri ad assistere anche con la forza armata il paese membro che sia attaccato nell’area nord-atlantica, essa viene trasformata in alleanza che, in base al nuovo «concetto strategico», impegna i paesi membri anche a «condurre operazioni di risposta alle crisi non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza».
A scanso di equivoci, il presidente democratico Clinton chiarisce che gli alleati nord-atlantici «riaffermano la loro prontezza ad affrontare, in appropriate circostanze, conflitti regionali al di là del territorio dei membri della Nato». Alla domanda di quale sia l’area geografica in cui la Nato è pronta a intervenire, «il Presidente si rifiuta di specificare a quale distanza la Nato intende proiettare la propria forza, dicendo che non è questione di geografia». In altre parole, la Nato intende proiettare la propria forza militare al di fuori dei propri confini non solo in Europa, ma anche in altre regioni.
Ciò che non cambia, nella mutazione genetica della Nato, è la gerarchia all’interno dell’Alleanza. Il Comandante supremo alleato in Europa resta un generale statunitense nominato dal presidente degli Stati Uniti. Tutti gli altri comandi chiave sono controllati direttamente dal Pentagono.
La Casa Bianca dice a chiare lettere che «la Nato, come garante della sicurezza europea, deve svolgere un ruolo dirigente nel promuovere un’Europa più integrata e sicura» e che «noi manterremo in Europa circa 100 mila militari per contribuire alla stabilità regionale, sostenere i nostri vitali legami transatlantici e conservare la leadership degli Stati uniti nella Nato». Dunque, un’Europa stabile sotto la Nato e una Nato stabilmente sotto gli Stati Uniti.

(1 – continua)

mercoledì 24 dicembre 2014

Hamas e l'UE



Poichè la proposta francese non stabilisce sanzioni e passi vincolanti in caso di fallimento dei negoziati, ciò significa che torneremo al circolo vizioso dei negoziati per i negoziati, minacciando ulteriormente i nostri diritti e il nostro progetto nazionale.

nena-news.it



di Rasem Obeidat – Alternative Information Center

Sono stupito di quello che viene dall'Ovest e mi sono ricordato di un adagio arabo: niente di quello che arriva dall'Ovest ti rallegra il cuore. La decisione della Corte Europea di Bruxelles di togliere il movimento Hamas dalla lista dei "terroristi", nella quale era stato messo su pressione americana e israeliana, è già stata messa in discussione e attaccata da alcuni Paesi europei, mentre Israele sostiene che questa decisione prova che l'Europa non ha imparato niente dall'Olocausto.

Alcune informazioni indicano il fatto che il proposito di questa sentenza è quello di spingere Hamas ad adeguarsi, a cambiare la propria identità politica e a partecipare alle successive mosse politiche pianificate dagli Stati Uniti e dall'UE. Gli Stati Uniti e l'Europa Occidentale possono avvalersi di Hamas nelle sue dispute riguardo alla legittima rappresentanza palestinese da parte dell'OLP, o forse stanno pianificando un ruolo per il movimento nel periodo post-Abbas, prendendo atto che l'utilità della vita politica di Abbas per loro è finita. L'Europa continuerà a esercitare pressioni sul movimento, che ha accolto con favore la sentenza della corte, considerandola la correzione di un errore da parte dei politici dell'UE. Queste pressioni da parte europea includeranno canali riservati di comunicazione tra Hamas, la Svizzera e la Norvegia, le ultime due note per lavorare nell'ombra, mentre gli USA cercheranno di sfruttare il loro affidabile alleato, l'emirato del Qatar, per esercitare pressioni su Hamas affinché faccia concessioni politiche, rendendo il movimento accettabile sulla scena politica mondiale, a livello regionale e persino per gli israeliani.

Questa sentenza arriva circa una settimana dopo che un'autorevole delegazione di Hamas, guidata dal membro del suo ufficio politico Mohammad Nasser, si è recata a Teheran, così come nel 27° anniversario del movimento. Hamas sembra essere tornato ad avere l'appoggio militare, finanziario, politico e mediatico dell'Iran, allontanandosi gradualmente dall'influenza turco-qatariota e tornando all'asse Iran-Hezbollah-Siria. Questo significa che la questione palestinese sarà sotto il controllo dell'asse iraniano, che vuol dire opposto agli Stati Uniti, all'Europa occidentale e agli Emirati petroliferi, per non parlare della Turchia e di Israele.

Il verdetto dell'UE è una carota per Hamas, una carota che porta anche una molteplicità di messaggi per l'Autorità Nazionale Palestinese. Il primo è che l'insistenza nel voler sottomettere la questione palestinese a un voto al Consiglio di Sicurezza dell'ONU per determinare una tabella di marcia che ponga fine all'occupazione della terra palestinese che dura dal 1967 sarà una falsa partenza. Se l'ANP dovesse insistere su questa strada, ciò rappresenterebbe la sua morte politica, in quanto sarebbe già pronta un'alternativa: Hamas. In base a ciò, i palestinesi hanno emendato la loro proposta eliminando dalla tabella di marcia per il ritiro israeliano qualunque specificazione, parlando invece di un ritorno a seri negoziati per un anno, dopodiché verrà stabilito un calendario [per il ritiro israeliano]. La proposta presentata dai palestinesi è aperta a cambiamenti e non sarà presentata per un voto immediato. Però, se neanche questo fosse accettato, è molto probabile che l'ANP accoglierà la proposta alternativa francese così com'è. Francia, Gran Bretagna e Germania lavoreranno sicuramente sulla bozza di un progetto di risoluzione europeo alternativo per ricevere l'approvazione americana e impedire [il ricorso al] le istituzioni internazionali [da parte dei palestinesi].

Date le pesanti pressioni internazionali, anche da parte delle potenze arabe e regionali, sull' ANP perché non presenti la proposta originale al Consiglio di Sicurezza, l'ANP ha capitolato e ha perso un'opportunità per prendere una decisione, già adottata dal popolo palestinese in seguito all'uccisione da parte israeliana del ministro palestinese Ziad Abu Ein all'inizio del mese. L'ANP ha fatto dichiarazioni roboanti, annunciando sul momento la fine della coordinazione per la sicurezza con Israele. Tuttavia, si trattava solo di parole perché, in seguito a un incontro della dirigenza palestinese, è stato annunciato che la coordinazione per la sicurezza sarebbe continuata. Riguardo al ricorso alle istituzioni internazionali, ci sono riluttanza e incapacità di proseguire su questa strada a causa dei timori di sanzioni americane e delle minacce di John Kerry in questo senso.

La proposta francese si basa su una serie di idee fondamentali, comprese:

1- la richiesta di ripresa per un anno e mezzo - due anni dei negoziati tra palestinesi e israeliani;

2- negoziati sotto la mediazione americana;

3- Gerusalemme come capitale dei due Stati;

4- alla fine dei negoziati lo Stato palestinese sarà riconosciuto, in base ai confini del 1967 in seguito ad un "accordo per lo scambio di territori" e garantendo "gli interessi di Israele in termini di sicurezza."

La proposta francese non menziona le colonie in continua espansione, la politica di punizioni collettive, la demolizione delle case, la ebraicizzazione di Gerusalemme, i tentativi di dividere temporalmente e spazialmente la moschea di Al Aqsa, le espulsioni e le demolizioni. La proposta fa riferimento a un nuovo periodo di negoziati, e non a un calendario per il ritiro israeliano dai territori occupati. Poiché non prevede sanzioni e passi vincolanti in caso di fallimento dei negoziati, ciò significa che torneremo al circolo vizioso di negoziati per i negoziati, minacciando ulteriormente i nostri diritti ed il nostro progetto nazionale.

E' vero, Hamas ha ricevuto il riconoscimento come parte del movimento nazionale palestinese, un partito legittimato dalle elezioni, e da oggi ciò vuol dire che le sue azioni rappresentano una legittima resistenza e non terrorismo. Tuttavia, bisogna essere cauti su questa mossa europea, che nasconde intenzioni e obiettivi malevoli.

Rasem Obeidat è un autore palestinese, membro del Comitato Nazionale Palestinese.



(Traduzione di Amedeo Rossi)

sabato 20 dicembre 2014

L'arresto di Giulietto Chiesa e la crisi Russia-Nato

[Attachment(s) from carla included below]




Com’è possibile che un cittadino europeo, per giunta giornalista ed ex europarlamentare, venga improvvisamente arrestato nella capitale dell’Estonia senza che abbia commesso alcun reato? Questa la domanda posta dal nostro ministro degli esteri all’ambasciatore estone in seguito all’arresto di Giulietto Chiesa, tenuto in cella per sette ore a Tallin in Estonia, dov’era stato invitato per un convegno, e poco dopo aver rilasciato un’intervista ad una televisione estone …. Un decreto che considera Giulietto Chiesa “persona non gradita” sarebbe datato 13 dicembre 2014, cioè il giorno dopo il meeting internazionale organizzato a Roma proprio da Chiesa, con grandi giornalisti e autorevoli politologi russi e americani, tra cui Paul Craig Roberts, già viceministro di Regan, tutti critici con la gestione Usa della crisi ucraina … «Questa, dichiara Giulietto Chiesa dopo il rilascio, non è certo l’Europa che sognava Altiero Spinelli» …. Vent’anni prima che diventasse popolare la denuncia della disinformazione di massa organizzata in modo sistematico del mainstream, Giulietto Chiesa ne ha fatto una ragione di vita: «Non sappiamo nulla di quanto avviene attorno a noi, perché non ce lo dicono, e se non sappiamo nulla potrebbe accadere di tutto, al riparo dalla verità» …. Per Pino Cabras, l’incredibile arresto intimidatorio e illegale cui è stato sottoposto Giulietto Chiesa a Tallinn «ci dice che il regime europeo non solo emargina le voci dissidenti ma non vuole più tollerarne l’esistenza … il silenzio mediatico su notizie importanti non basta più alle correnti atlantiste che dominano il continente. Vedono che c’è chi non si rassegna al silenzio, mentre avverte che bisogna fare molto chiasso, e urlare che la guerra non sarà in nostro nome»



L’evento di cui sopra è scatenante per tutti i siti italiani di informazione alternativa, L’antidiplomatico.it propone in primo piano sei articoli sulla crisi Russia-Nato:

"I nostri paesi sono vicini e non possono non collaborare. Ma da ora questa cooperazione sarà razionale e pragmatica, possiamo dire che sarà 'europea'. La Russia intende seguire rigorosamente i propri interessi nazionali e li difenderà con fermezza, come si farebbe con qualsiasi altro partner. Costruendo relazioni in questo nuovo ambiente, mettiamo da parte le emozioni e il sentimento familiare. Noi non manterremo l'economia ucraina. Non ci risulta redditizia, e, francamente, siamo stanchi … Se l'Ucraina vuole vivere come in Europa, impari a pagare i conti, ad iniziare da quelli con la Russia” ha scritto il capo del governo russo, Dmitri Medvedev, nel suo articolo per 'Nezavisimaya Gazeta'.



Kissinger, scrive Alexander Donetsky sul giornale online della Strategic Culture Foundation, non è mai stato un amico della Russia. Al contrario, ha sempre fatto del suo meglio per indebolirla, nella convinzione che questo rispondesse agli interessi degli Stati Uniti. Quindi la sua opinione ha un certo peso. Kissinger è certo che Washington e Bruxelles sono responsabili per l'escalation della situazione in Ucraina. Come dice lui, «l'Europa e l'America non hanno capito l'impatto di questi eventi, a cominciare dai negoziati sulle relazioni economiche tra l'Ucraina e l'Unione europea, culminati con le manifestazioni a Kiev. Queste negoziazioni, e il loro impatto, avrebbero dovuto essere oggetto di un dialogo con la Russia … l'Ucraina ha sempre avuto un significato particolare per la Russia. E' stato un errore non rendersi conto di questo» …. Dopo tre settimane dall'intervista, la Camera dei Rappresentanti Usa ha portato il mondo più vicino alla tragedia, dalla quale un veterano della politica estera qual è Kissinger ci aveva messo in guardia. Il 4 dicembre i rappresentanti hanno approvato una risoluzione che accusa la Russia di scatenare un'aggressione militare contro l'Ucraina, la Georgia e la Moldavia e chiede aiuti militari e di intelligence per l'Ucraina. Il documento chiede agli alleati della NATO, ai partner degli Stati Uniti in Europa e alle nazioni in tutto il mondo di sospendere ogni forma di cooperazione militare con la Russia, e di vietare la vendita al governo russo di materiale militare letale e non letale …. Inoltre, si invitano l'Ucraina e l'Unione europea a respingere le forniture energetiche russe. I rappresentanti minacciano direttamente la Federazione russa e l’accusano di violare il trattato INF, Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty …. Eccetera, sull’articolo sono documentate anche le reazioni contrarie.



Tirando le somme dell’anno che sta per concludersi, il ministro degli Affari Esteri, Sergei Lavrov, rispondendo alle domande sui rapporti fra Russia e Stati Uniti, ha detto: “Da parte nostra, siamo sempre aperti al dialogo onesto e costruttivo con gli USA, tanto negli accordi bilaterali, quanto nell'arena mondiale, dove entrambi i paesi ricoprono particolare responsabilità per la sicurezza internazionale e la stabilità. La domanda è quando sarà pronta Washington alla cooperazione sui principi di vera parità e rispetto degli interessi russi, rispetto ai quali non intendiamo retrocedere per nessun motivo …. In contrasto con l'accordo sui missili di minore e media gittata, gli americani si preparano dal prossimo anno a piazzare scudi antimissile in Romania e Polonia, utilizzabili al contempo per il lancio di missili da crociera a medio raggio come i Tomahawk. A Washington, purtroppo, fanno finta di non capire le preoccupazioni russe …. Avvisiamo, che a un certo punto dello sviluppo di questi scudi antimissile, noi ci vedremo costretti a prendere adeguate misure per garantire la nostra sicurezza …. L'Alleanza prosegue la sua politica di contenimento della Russia, adottando misure per l'incremento del potenziale bellico e l'accrescimento della presenza militare ai confini russi”



Lo sviluppo da parte della Russia di un nuovo missile da crociera, secondo gli Stati Uniti viola il trattato del 1987 …. Il missile russo, che tanta rabbia ha provocato al Pentagono, è l’R-500, con il quale si prevede di dotare i sistemi missilistici Iskander-M russi, dispiegati dalla Russia sul suo confine occidentale, in risposta al dispiegamento del sistema di difesa missilistica degli Stati Uniti in Europa. Secondo i risultati dei suoi test nel 2007, il missile è invisibile ai radar nemici e nella fase finale può realizzare curve strette e lanciare esche, rendendo la sua intercettazione praticamente impossibile.



"Gli Stati Uniti hanno bisogno di un nemico per utilizzare la loro vecchia politica di pressione. Non possono vivere senza un nemico. Sono ancora schiavi della loro vecchia politica …. Gli Stati Uniti sono alla ricerca di una scusa per intervenire ... hanno bisogno di una figura nemica ... ogni volta che c'è molta tensione, ogni volta che c'è instabilità in un paese o in una regione, è l'occasione per un intervento" Così ha parlato l’ex presidente sovietico, Mikhail Gorbaciov, in un'intervista a Russia Today.



Dopo l’antidiplomatico, anche Pop Off Quotidiano propone un articolo di Andrea Ferrario che si focalizza sulla crisi separatista in Ucraina: Nuovo governo a Kiev, oligarchi in stand-by e divisioni tra i separatisti. Lo spettro del default in Ucraina. Lo spettro della fame nel Donbass …. All’inizio di quello che sarà un lungo e drammatico inverno tutte le principali parti in causa nel conflitto ucraino sembrano avere assunto una posizione di attesa. Ma dietro a questa facciata incombe sempre il rischio di un riaprirsi dei combattimenti in primavera …. Non è chiaro nemmeno cosa accadrà con le sanzioni, che cominceranno progressivamente a scadere a partire da marzo e per il rinnovo delle quali sarà difficile trovare a Bruxelles la necessaria unanimità. Su tutto incombe l’incognita della situazione economica, disastrosa in Ucraina, in caotico e precipitoso calo in Russia e ai limiti della fame nel Donbass …. In questa situazione congelata le uniche novità fattuali rilevanti sono state quelle registrate a Kyiv. Gli inattesi risultati delle elezioni del 26 ottobre, che hanno visto una parità di fatto tra il Blocco Petro Poroshenko e il Fronte Nazionale di Arseniy Yatsenyuk, basta dire che a un certo punto il vicepresidente statunitense Joseph Biden ha dovuto prendere l’aereo per Kyiv al fine di forzare un compromesso tra Poroshenko e Yatsenyuk …. Il particolare che più ha richiamato l’attenzione dei media internazionali è quello della nomina di tre ministri stranieri, nello specifico la statunitense di origini ucraine Natalya Yaresko (ministro delle finanze), il lituano Aivaras Abromavicius (ministro dell’economia) e il georgiano Alexander Kvitashvili (ministro della sanità). La prima, già a capo della sezione economica dell’ambasciata Usa a Kyiv, è comproprietaria di un fondo di investimento, il secondo proviene anch’egli dal mondo della speculazione finanziaria, mentre il terzo è stato responsabile in Georgia di una riforma del sistema sanitario di chiaro stampo neoliberale. Salta subito all’occhio il particolare dei tre paesi di provenienza: da una parte una cittadina degli Usa, tutori dell’ordine neoliberale mondiale, dall’altra cittadini di due paesi che sono allo stesso tempo ligi esecutori di tale ordine e simbolo dell’antiputinismo …. Dietro a tutto questo ci sono le manovre degli oligarchi, che dopo avere visto i propri equilibri interni sconvolti da Maidan ora cercano faticosamente di ricostruirli, in collaborazione con l’élite politica.



Bernard Guetta, analista francese, interviene su interazionale.it: La Federazione russa è il paese più esteso al mondo, uno dei primi produttori mondiali di gas e petrolio, un esportatore di energia da cui dipendono l’industria e le famiglie europee e una terra di investimento per le banche e le grandi aziende occidentali. Per questo un collasso economico della Russia avrebbe gravissime conseguenze per l’economia mondiale. E purtroppo questo collasso è sempre più vicino …. Dall’inizio dell’anno la valuta russa ha perso il 60 per cento sul dollaro (era il 40 per cento fino a pochi giorni fa) e questo significa che il costo delle importazioni e degli interessi sul debito dovuto alle banche straniere è aumentato enormemente. Siamo davanti a un naufragio, una catastrofe nazionale.

Claudio Conti su contropiano spiega: Il conflitto sotterraneo esploso definitivamente con l'apertura della crisi ucraina ha di fatto tagliato via dal mercato mondiale un'economia incentrata fondamentalmente sull'esportazione di materie prime energetiche (petrolio e gas, ma anche carbone) …. Del resto, negli ultimi 40 anni, sono innumerevoli i casi di paesi destabilizzati senza colpo ferire, semplicemente operando sul mercato dei capitali e pilotandone il flusso da una parte all'altra. Con la Russia si è pensato di poter fare lo stesso e soltanto ora qualche commentatore “cortomirante” comincia a rendersi conto dell'effetto boomerang …. Già nei giorni scorsi c'erano state cadute verticali delle principali borse mondiali, trascinate ufficialmente dalla frana del prezzo del petrolio …. Insomma nessuno si può permettere a lungo una situazione del genere: o la Russia cede di schianto e rapidamente (qualche mese, al massimo), oppure sono guai giganteschi per tutti. La finestra temporale deve esser chiusa rapidamente. E questo non agevola le decisioni sensate ... Una Russia che “tiene duro” che sta inoltre facendo incetta di oro fisico approfittando del basso prezzo sul mercato, creando al contempo rapporti solidi con Cina e altri pasi emergenti sulla base di scambi non prezzati in dollari è l'ultimo degli eventi desiderabili per il capitalismo mondiale; di cui la Russia è parte non secondaria dalla caduta del Muro in poi.

Anche Paul Craig Roberts offre ai lettori la sua visione: Se vuoi essere informato, e possibilmente preparato, per conoscere dove ti sta, veramente, portando il "tuo" governo e avere qualche piccola possibilità di riorientare il corso degli eventi, continua a leggere ... I neoconservatori, un piccolo gruppo di guerrafondai strettamente alleati con tutto il complesso militar/industriale e con Israele, intendo quelli che spinsero gli USA dentro Grenada e dentro al Contras affair in Nicaragua, condannati da Reagan e graziati da Bush senior. Protetti dal denaro israeliano, rialzarono la testa durante l'amministrazione Clinton e si misero al lavoro per disgregare la Jugoslavia, entrare in guerra con la Serbia, ed espandere la Nato fino ai confini della Russia. Essi hanno dominato per tutto il periodo del regime di Bush junior, quando controllavano il Pentagono, il Consiglio di Sicurezza Nazionale, l'Ufficio del Vice Presidente, e molto altro, portandoci all'11-settembre e a tutto quello che ne conseguì …. In breve, i neoconservatori hanno gettato le basi per una dittatura e per una Terza Guerra Mondiale. Essi rimangono sempre molto influenti anche durante il regime di Obama; la neoconservatrice Susan Rice Consigliere alla Sicurezza Nazionale. La neoconservatrice Samantha Power ambasciatore alle Nazioni Unite. La neoconservatrice Victoria Nuland Assistente del Segretario di Stato, organizzatrice del colpo di stato in Ucraina …. "America uber alles" il neoconservatorismo è ormai l'unica ideologia politica esistente …. Credono addirittura che la Storia abbia scelto gli Stati Uniti per esercitare un’egemonia sul mondo intero. Anche Obama ha detto cose di questo genere …. La propaganda anti-Russia ha raggiunto il suo culmine quando Putin è stato definito "Nuovo Hitler" …. Tutta l'umanità è ormai minacciata da un manipolo di uomini e donne malvagi che si sono insediati in posizioni di potere a Washington …. Nel suo libro di prossima pubblicazione, The Globalization of War: La lunga guerra dell'America contro l'umanità, il professor Michel Chossudovsky presenta una valutazione realistica su quanto Washington abbia portato il mondo vicino alla sua disfatta con una guerra nucleare. Questo è un passaggio tratto dalla prefazione: "La globalizzazione della guerra è un progetto egemonico. Le principali operazioni di intelligence militare in corso sono state segretamente prese in modo da produrre effetti simultanei in Medio Oriente, in Europa orientale, nell'Africa sub-sahariana, in Asia centrale e in Estremo Oriente. L'agenda militare USA combina i teatri bellici delle operazioni più importanti con operazioni segrete, volte alla destabilizzazione di Stati sovrani." …. Meglio leggere l’intero articolo in primo piano su reteccp.org

Il Fatto Quotidiano: Vladimir Putin è andato in onda in diretta tv, radio e internet dal centro congressi del World Trade Center di Mosca. Con il Paese alle prese con una fortissima crisi economica aggravata dalla caduta del rublo, il presidente russo ha tenuto la sua tradizionale conferenza annuale di fronte a 1.259 giornalisti, di cui oltre 200 stranieri, con un solo obiettivo: rassicurare l’opinione pubblica. “Abbiamo le risorse sufficienti per affrontare la crisi, il ritorno alla crescita è inevitabile, nel peggiore dei casi ci vorranno 2 anni …. No, la crisi in Russia non è il risultato dell’annessione della Crimea, ma bensì del desiderio dei russi di difendere la loro sovranità”, ha risposto Putin ad un giornalista, “l’Occidente vorrebbe che l’orso mangiasse tranquillamente il miele, mentre tentano di metterlo in catene, togliergli denti e artigli e d’impagliarlo …. Abbiamo cercato di aprirci all’Occidente, ma siamo stati respinti” …. intanto, a Mosca è attesa la visita di Romano Prodi, invitato in qualità di ex presidente della Commissione europea ed ex premier italiano.

Mi sono dilungato, e ho anche rinunciato ad approfondire la situazione del rublo, che non pare così disastrosa come viene descritta, almeno secondo un uomo d’affarri russo. A pensar male si fa peccato, ma spesso si coglie la verità. Scrive su Notizie Geopolitiche Dario Rivolta, analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali, parafrasando Andreotti. Sempre sull’antidiplomatico si legge: Gli Stati Uniti hanno a lungo goduto di ciò che Giscard d’Estaing chiamava “il privilegio esorbitante” di emettere moneta che appare essere la valuta di riserva mondiale …. ma è possibile che la valuta del popolo cinese sostenuta dall'oro detronizzi il dollaro USA ….

Chi vivrà vedrà, dice il poeta, per quanto mi riguarda trovo molto inquietante questa autoattribuzione messianica del destino egemonico degli Usa, sembra molto una brutta parodia del popolo eletto di antica memoria, e indica, sempre a mio parere, quanto in realtà il sionismo israeliano si sia stato capace di appropriarsi della politica statunitense.


Maurizio

www.reteccp.org

lunedì 1 dicembre 2014

LO STATO FUORILEGGE DI iSRAELE PARTE PRIMA


Dal 1948 Israele ha accumulato un lungo elenco di aggressioni
militari, violazioni di diritti umani e crimini di guerra.
Al Jazeera 20 agosto, 2014
Richard Falk
Richard Falk è Albert G. Milbank Professore Emerito di Diritto Internazionale
all’Università di Princeton e ricercatore presso il Centro Orfalea di Studi Globali. E’
anche stato relatore speciale per le Nazioni Unite sui diritti umani dei palestinesi.
Akbar Ganji
Akbar Ganji è uno dei più importanti dissidenti politici iraniani ed ha ricevuto più di
una dozzina di premi per i diritti umani per il suo lavoro. In carcere in Iran fino al
2006, è autore del volume The Road of Democracy in Iran (la strada della democrazia
in Iran), che delinea una strategia per una transizione non violenta alla democrazia in
Iran.
Israele è diventato uno Stato fuorilegge. John Rawls, nel suo libro The Law of Peoples [La legge
dei popoli] definisce Stato fuorilegge lo Stato che viola in modo sistematico i principi universali dei
diritti umani ed aggredisce altre nazioni. Israele è colpevole di tali reiterate violazioni, come anche
di parecchie massicce azioni di aggressione, per cui è ragionevole e responsabile identificarlo come
Stato fuorilegge.
Aggressioni militari di Israele contro altri paesi
Lo Stato di Israele è nato nel 1948. La Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni
Unite è ampiamente considerata la base legale più solida per la fondazione dello Stato di Israele. A
quella data ai palestinesi fu riconosciuto il 45% della Palestina storica, mentre il 54% fu attribuito
ad Israele, e l’1% venne qualificato come zona speciale destinata alla città di Gerusalemme, sotto
controllo internazionale.
Dopo la Guerra del 1948 contro I vicini Stati arabi, le annessioni di territori da parte di Israele
ridussero l’area palestinese al solo 22%. Nella guerra del 1967 Israele occupò i restanti territori
palestinesi, dal 1948 sotto l’amministrazione di Giordania ed Egitto, e da allora ha usurpato la
Palestina occupata nei peggiori modi illegali, rendendo di fatto impossibile il progetto di uno Stato
palestinese.
Inoltre Israele ha sferrato una serie di brutali aggressioni contro Gaza (2008-2009, 2012,2014),
violando la legislazione internazionale, la Carta delle Nazioni Unite e le leggi di guerra.
Ad aggravare ulteriormente la posizione di Israele intervengono numerose azioni di aggressione
contro altri Stati sovrani:
Attacchi militari all’Iraq nel giugno 1981, che distrussero il reattore nucleare Osirak, allora in fase
di costruzione, al fine di impedire il programma nucleare iracheno e perpetuare così il monopolio
israeliano sugli armamenti nucleari nella regione.
Invasione del Libano nel 1978 e 1982, a cui va aggiunta l’occupazione israeliana del sud del Libano
fino al 2000. Nel settembre 1982 Israele si rese complice del massacro di Sabra e Shatila compiuto
dalle milizie falangiste maronite, durante il quale vennero uccisi a sangue freddo dai 1500 ai 3000
palestinesi, donne, bambini e disabili.
Attacco militare al Quartier Generale dll’OLP ad Hamman in Tunisia, nell’ottobre 1985, che causò
l’uccisione di 60 persone, e venne condannato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Invasione del sud del Libano nel 2006, che consistette in 33 giorni di guerra contro Hezbollah, e
nella distruzione di quartieri residenziali nel sud di Beirut, dove fu applicata la “Dottrina Dahiya” –
la razionalizzazione dell’uso illegale da parte di Israele di una potenza militare sproporzionata
contro il popolo palestinese.
Attacchi contro la Siria, il 2 ottobre 2007, che distrussero il reattore nucleare nella regione di Deir
ez-Zor.
L’attacco, nel maggio 2010, in acque internazionali, della nave passeggeri turca Mavi Marmara, che
faceva parte della Freedom Flotilla, impegnata a portare assistenza umanitaria alla popolazione di
Gaza sfidando il blocco internazionale: vennero uccisi nove pacifisti nonviolenti.
Tre attacchi militari illegali alla Siria, nel 2013 e 2014.
Reiterati attacchi militari in Sudan, nel 2009, 2011 e 2012, presumibilmente diretti ad impedire il
rifornimento di armi ad Hamas a Gaza, che provocarono parecchi morti.
Inoltre Israele occupa dal 1967 le alture del Golan siriano, ha costruito colonie illegali ed ha
instaurato una presenza permanente. Israele ha anche rifiutato di ritirarsi dalla Cisgiordania e da
Gerusalemme Est, come richiesto all’unanimità dalla Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza.
Israele ha acquisito segretamente ed illegalmente un arsenale di circa 300 testate nucleari,
diventando l’unica potenza nucleare in Medio Oriente, e l’unico paese al mondo che rifiuta di
ammettere di essere in possesso di armi nucleari.
Violazioni sistematiche dei diritti umani e regime di apartheid
L’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter ha dichiarato, nel suo libro Palestine: Peace not
Apartheid, che il regime di occupazione in Cisgiordania presenta gli aspetti di sistematica
discriminazione propri di un regime di apartheid. La minoranza palestinese residente in Israele è
soggetta a cinquanta leggi discriminatorie, che ne limitano i diritti sia individuali che collettivi. Lo
Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale considera l’apartheid un crimine contro
l’umanità.
I palestinesi della Cisgiordania vivono senza la protezione della legge e privi di diritti fin dal 1967,
essendo sottoposti all’amministrazione militare e alle pratiche oppressive dell’Autorità Palestinese,
mentre gli abitanti illegali delle colonie godono della piena protezione dello Stato di diritto
israeliano.
Come scrive Gideon Levy, giornalista israeliano progressista, Israele è “una democrazia soltanto per
i suoi cittadini ebrei, che sono pronti ad adeguarsi al pensiero dominante, ogni volta che i carri
armati israeliani oltrepassano il confine”. I cittadini ebrei di Israele che osano opporsi alle
aggressioni condotte dal proprio paese vengono spesso attaccati e minacciati. I palestinesi di Israele
vengono trattati ancor peggio, sono sottoposti a dure misure restrittive e sono oggetto di forti
sospetti ogni volta che si pone un problema di sicurezza.
Crimini di Guerra di Israele nei confronti dei palestinesi.
Non solo la Risoluzione 465 del Consiglio di Sicurezza parla ben due volte di “Territori palestinesi
o arabi occupati dal 1967”, ma dichiara ed afferma anche che le colonie di ebrei nei territori
palestinesi costituiscono una violazione della Quarta Convenzione di Ginevra. L’arrogante rifiuto di
smantellare gli insediamenti – illegali in base all’articolo 49 (6) – ed il rifiuto di rimuovere il muro
di separazione come imposto dalla Corte Internazionale di Giustizia, rappresentano gravi violazioni
di questa Convenzione, ed in quanto tali si configurano come crimini di guerra.
Israele evacuò le proprie forze militari ed i coloni dalla Striscia di Gaza con l’iniziativa di
“disimpegno” del 2005, ma in realtà mantenne il controllo effettivo di Gaza, e rimase vincolato agli
obblighi di una potenza occupante previsti dal diritto internazionale umanitario.
Di fatto, Israele ha trasformato le condizioni di vita a Gaza da una situazione di amministrazione
militare diretta ad una restrizione della popolazione nella più grande prigione a cielo aperto del
mondo. Ha mantenuto il controllo totale delle vie di entrata e di uscita da Gaza, dello spazio aereo e
delle acque marittime, impedendo la vita all’interno di questa prigione con periodiche violente
incursioni mortali. La maggior parte dei palestinesi di Gaza sono stati di fatto rinchiusi fin dal 1967,
ed in modo assoluto dal 2007. Durante questo periodo, Israele ha condotto periodicamente
operazioni militari contro Gaza; ha imposto e mantenuto un blocco illegale; ha commesso frequenti
azioni violente oltre confine ed ha commesso numerosi gravi crimini di guerra:
Israele ha attaccato Gaza nel 2008-2009, uccidendo più di 1400 palestinesi, ferendone 5300,
creando 51.000 rifugiati interni, distruggendo 4000 case, provocando danni economici per 4
miliardi di dollari, ed impedendo il rifornimento dei materiali necessari alla ricostruzione.
Gli attacchi israeliani su Gaza del 2012 hanno provocato la morte di 173 persone e il ferimento di
1221, originati dall’assassinio mirato da parte di Israele del leader militare di Hamas, Ahmed Jabari,
mentre stava per firmare un documento di tregua.
L’aggressione contro Gaza sferrata l’8 luglio 2014 ha ucciso più di 2000 palestinesi, ne ha feriti
circa 10.181, con il 75-80% di vittime tra i civili. Questa massiccia operazione militare israeliana ha
causato oltre 660.000 sfollati interni, tenendo conto del divieto di ogni diritto per i palestinesi di
lasciare la zona di conflitto durante tutta l’offensiva militare che ha terrorizzato l’intera popolazione
di Gaza. Secondo le stime, 459 bambini palestinesi sono stati uccisi e circa 3000 feriti.
A fronte di questo, le perdite da parte israeliana in questo attacco sono ammontate a 68 israeliani
morti, di cui 65 erano militari. La disparità nel numero delle vittime ed il rapporto tra morti militari
e morti civili sono indici significativi per come attribuire la responsabilità morale del massacro
compiuto.
Questa è la prima parte del saggio di Richard Falk e Akbar Ganji sulla violazione del diritto
internazionale da parte di Israele. La seconda parte verrà pubblicata il 21 agosto.
Le opinioni espresse in questo articolo sono opinioni personali degli autori e non rispecchiano
necessariamente le politiche editoriali di Al Jazeera.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)

martedì 14 ottobre 2014

Quali forze hanno formato i palestinesi di Gaza?


di Randa Farah
Settembre 2014
Abbiamo conquistato vaste zone, massacrando tutta la gente […] Dove potete fuggire? Quale strada prenderete per sfuggirci? […] Il nostro cuore è duro come le montagne […] Non siamo commossi dalle lacrime, né toccati dai lamenti. Solo coloro che invocheranno la nostra protezione saranno salvi. […] Se resistete patirete le più terribili catastrofi. Noi distruggeremo le vostre moschee e sveleremo la debolezza del vostro Dio, e allora uccideremo sia i vostri figli che i vostri anziani. Al momento siete gli unici nemici contro i quali dobbiamo marciare.
Lettera al sultano dell’Egitto Qutuz [inviata] da Hulagu, nipote di Genghis Khan. Qutuz rifiutò di arrendersi e si riconciliò con Baibars, capo dei Mamelucchi. Insieme bloccarono l’avanzata dei Mongoli nella famosa battaglia di ‘Ain Jalut, presso Nazareth, nel settembre del 1260.
Nelle descrizioni popolari, tra i palestinesi ed altri arabi, gli attacchi israeliani sono stati spesso paragonati alle guerre contro i mongoli, o i tartari, durante i quali ogni distruzione era permessa e niente era sacro.
Durante l’attacco israeliano contro Gaza nel luglio-agosto 2014 questi paragoni sono tornati con brutalità. Niente è rimasto indenne dalle modernissime armi di Israele, compresi siti storici, moschee e il porto di Gaza.
Ci sono altri paralleli contemporanei con la battaglia di ‘Ain Jalut del XIII° secolo che mettono in luce sia la forza che la debolezza emerse durante la guerra di Israele contro i palestinesi di Gaza, durata 50 giorni.
Paralleli con il passato
Il primo parallelo consiste nel fatto che i gruppi della resistenza palestinese a Gaza hanno rifiutato in modo unanime di considerare il disarmo come parte dei negoziati per il cessate il fuoco, nonostante abbiano vissuto, loro e la popolazione [civile], terribili morti e distruzioni. Ciò è avvenuto al culmine dell’assedio quasi totale di Israele ai danni di Gaza fin dal 2007 e dopo i precedenti attacchi che la popolazione di Gaza ha dovuto subire in questo decennio e le cui ferite sono ancora da sanare. Il prezzo per i palestinesi è stato di 2.131 morti, dei quali 1.473 erano civili, un numero stimato di 11.000 feriti, alcuni dei quali in modo grave, circa mezzo milione di persone sono sfollate in un’area grande metà di New York.
Questa sorprendente resistenza è stata resa possibile dall’unificazione e dalla collaborazione tra le fazioni palestinesi che si è evidenziata rapidamente dopo che l’attacco è iniziato e che ha unito, tra gli altri, Hamas, Jihad Islamica, Fatah e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. L’unità tra queste fazioni si è manifestata più tardi anche sul piano politico, nelle richieste unitarie presentate dalla delegazione palestinese al governo egiziano che fungeva da mediatore durante i negoziati del Cairo.
Ancor più significativo è stato [il fatto che] la piccola, deliberatamente impoverita e assediata Striscia sia stata in grado di infliggere un colpo umiliante all’esercito israeliano, considerato il sesto più forte al mondo. Nell’operazione “Margine protettivo” di luglio-agosto è stato ucciso un numero di soldati israeliani molto maggiore che nelle precedenti operazioni di Israele: 66 soldati (e sei civili) rispetto ai 10 dell’operazione “Piombo fuso” del 2008-09 e all’unico [soldato ucciso] durante “Pilastro di difesa” nel 2012. Naturalmente la quantità di morti e di distruzioni a danno dei palestinesi evidenzia il cinismo del nome che Israele ha dato alle sue operazioni: chi, durante “Margine protettivo”, aveva bisogno di essere protetto da chi?
Le fazioni della resistenza palestinese a Gaza non avevano gli armamenti [tali] da infliggere niente che potesse raggiungere un livello di distruzione comparabile in Israele, ma la guerra ha lasciato i suoi segni sull’economia israeliana e contribuirà senza dubbio a un’emigrazione da Israele che attualmente è apertamente pubblicizzata.
Inoltre, nonostante la sua preponderanza militare, il governo israeliano non è stato in grado di ottenere una vittoria decisiva contro i movimenti di resistenza gazawi, una debolezza che gli israeliani hanno riconosciuto nei sondaggi successivi alla tregua. Al contrario, l’appoggio ad Hamas e agli altri movimenti di resistenza si è incrementato nei territori palestinesi occupati: dopo l’attacco, il doppio dei palestinesi (61%) afferma che voterebbe per il dirigente di Hamas Ismail Haniye rispetto a quelli che voterebbero per il leader di Fatah Mahmoud Abbas.
La tenace resistenza da parte dei gruppi della resistenza palestinese a Gaza peraltro è minata non solo dalla complessiva debolezza del movimento nazionale palestinese dentro e fuori la Palestina storica, ma anche dalla risposta molto limitata da parte del mondo arabo, di per sé notevolmente indebolito e frammentato da conflitti e divisioni. Il silenzio delle autorità arabe è ancor più stridente se confrontato con il crescente aumento dell’appoggio a Gaza nel resto del mondo e all’indignazione per lo spietato attacco contro un popolo che non ha nessun posto in cui scappare a causa dell’oppressivo assedio mantenuto da Israele, come anche dall’Egitto.
Il recente passato dei palestinesi a Gaza
Quali forze hanno forgiato il popolo che ha ancora una volta resistito contro la potenza militare israeliana, nonostante il grave costo che ciò ha comportato? I palestinesi di Gaza sono stati forgiati dal peso e dalle ferite del loro recente passato. Oggi la maggioranza dei 1.701.437 palestinesi che vivono a Gaza sono rifugiati sopravvissuti alla brutale pulizia etnica della Palestina nel 1948. Questa prima ondata di espulsioni ha quadruplicato la popolazione di Gaza che all’epoca era di 270.000 persone. Le persone registrate come rifugiati dall’ Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) ha raggiunto nel giugno 2014 un totale di 1.328.351. Provengono da cittadine della Palestina centro-meridionale, come Beersheba, Jaffa, Lydda, e villaggi come Al-Faluja, Al- Manshiyyeh, Salama, Hamama, and Al-Batani, tra gli altri. Circa metà della popolazione di rifugiati a Gaza prima della recente invasione israeliana viveva in uno degli otto campi di rifugiati gestiti dall’UNRWA.

Parecchie generazioni hanno vissuto e sono morte in quei campi, in attesa di avere diritto al ritorno. Tra il 1948 ed il 1967 l’Egitto ha governato Gaza in modo temporaneo e ha concesso alla popolazione che ci viveva i documenti come rifugiati. Lo status legale dei palestinesi di Gaza che hanno documenti egiziani è diverso rispetto a quello dei palestinesi della Cisgiordania, che hanno ottenuto la cittadinanza giordana in seguito all’annessione da parte della Giordania all’inizio degli anni ’50. Fino al 1967, soprattutto dopo che il dirigente nazionalista Gamal Abdel Nasser prese il potere in Egitto, era relativamente facile circolare tra Egitto e Gaza. Attraversare la frontiera divenne più difficile nel periodo neoliberale del successore di Nasser., Anwar el-Sadat, e così è rimasto molto ridotto fino a oggi, durante il regime di Hosni Mubarak, la breve presidenza di Mohammed Morsi e l’attuale regime di Abdel Fattah el-Sisi.
I palestinesi di Gaza hanno subito una storia di violenze brutali da parte di Israele. Per citare solo uno degli attacchi più recenti, durante la triplice aggressione militare del 1956 da parte di Israele, Gran Bretagna e Francia, Israele occupò Gaza fino al marzo 1957 e vi uccise tra i 275 e i 515 gazawi, molti dei quali erano civili, comprese alcune dozzine di persone che vennero messe al muro e mitragliate a Khan Younis. La ferocia è continuata dopo l’occupazione di Gaza, della Cisgiordania e di altri territori arabi nel 1967. Il defunto premier israeliano Ariel Sharon si è guadagnato uno dei suoi soprannomi, “il Bulldozer”, per il modo in cui ha demolito la resistenza palestinese all’occupazione di Gaza (un altro soprannome di Sharon era “il macellaio di Beirut”, che gli venne attribuito durante l’invasione del 1982 e i relativi massacri).
Dal 1967 Israele ha impedito alla maggioranza dei palestinesi di Gaza che erano andati a visitare [qualcuno], a studiare o a lavorare fuori [dalla Striscia] di tornare alle loro case, famiglie, e/o campi di rifugiati a Gaza. Ha inoltre controllato rigidamente la loro possibilità di viaggiare alla e dalla zona costiera. Chi aveva documenti egiziani per rifugiati ha incontrato discriminazioni in parecchi paesi, anche arabi. L’UNRWA li ha classificati come “ex-gazawi”, e a quelli che sono finiti in paesi come la Giordania dopo gravi sconvolgimenti nella regione, come l’invasione irakena del Kuwait nel 1990, sono stati anche negati molti diritti, tra gli altri nel lavoro, nell’educazione e nei benefici sociali e sanitari.
In quanto rifugiati apolidi, molti palestinesi di Gaza sono bloccati alle frontiere. Ciò è accaduto, per esempio, a metà degli anni ’90, quando la Libia espulse circa mezzo milione di lavoratori egiziani così come 30.000 palestinesi per protestare contro gli accordi di pace israelo-palestinesi. A quel tempo l’Egitto non permise ai palestinesi di Gaza di attraversare la sua frontiera, e la Libia non consentì loro di tornare. E, ovviamente, molti sono profughi interni a Gaza in seguito agli attacchi israeliani. Attualmente, da quando il suo assedio a Gaza è stato rafforzato in seguito alla vittoria di Hamas nelle elezioni legislative del 2006, Israele continua a controllare i cieli, il mare ed i confini terrestri di Gaza, compreso il valico di Rafah, che sorveglia indirettamente grazie alla collaborazione dell’Egitto. Dopo che è stata raggiunta l’ultima tregua tra Israele e i palestinesi in agosto, Israele ha continuato ad attaccare, come nel passato, i pescatori in mare e gli agricoltori nella zona cuscinetto vicino al confine, unilateralmente dichiarata all’interno di Gaza, e che rappresenta il 17% della terra della Striscia.
Gaza 2014
La resistenza palestinese a Gaza nel 2014 deve essere vista nel più vasto contesto regionale. E’ avvenuta quando le rivolte arabe, che, iniziate con la promessa della primavera del 2011, sono finite in un inverno mortale. Gli Stati arabi come la Siria, l’Iraq e la Libia sono stati distrutti dall’interno quando violenti gruppi reazionari hanno preso il sopravvento sulle richieste popolari di una riforma. Le potenze occidentali, compreso Israele, continuano ad alimentare le divisioni etniche e religiose che stanno smantellando gli Stati-nazione e fanno a pezzi la moderna mappa del Medio Oriente che loro stessi hanno imposto all’inizio del XX° secolo.
Premesso che le dinamiche regionali influenzano la politica palestinese, è vero anche il contrario. Una chiara e unitaria strategia palestinese che comprenda differenti forme di resistenza e una forte unità nazionale avrebbe effetti sul mondo arabo. Ciò dovrebbe riportare il centro della lotta dove dovrebbe essere: contro l’asse Stati Uniti-Israele in quanto [si tratta di] un reale pericolo per la regione e per la Palestina, luogo centrale della lotta. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina/ Autorità Nazionale Palestinese deve rompere definitivamente con gli accordi di Oslo e porre fine alla collaborazione con Israele in materia di sicurezza. Ora che la maggior parte delle fazioni palestinesi ha accettato di firmare lo Statuto di Roma e di rivolgersi alla Corte Penale Internazionale, non ci sono scuse per non andare avanti.
Gaza rimarrà, come un’eco della [battaglia] di ‘Ain Jalut, “l’unico nemico” contro il quale Israele deve marciare, o le battaglie del 2014 sono il presagio di un nuovo capitolo di cambiamenti storici e strategici? I primi segnali del periodo successivo alla tregua non sono incoraggianti, con scambi di accuse tra le autorità di Ramallah e quelle di Gaza che minacciano l’accordo di riconciliazione. Ma c’è da sperare nella crescente forza della società civile palestinese e nel movimento di solidarietà internazionale, che rimane concentrato sul garantire l’autodeterminazione palestinese in modo da ottenere libertà, giustizia e uguaglianza
Randa Farah è professore associato presso il dipartimento di antropologia dell’università dell’Ontario occidentale.
La dott.ssa Farah ha scritto sulla memoria popolare palestinese e sulla ricostruzione dell’identità in base al suo lavoro di ricerca in un campo di rifugiati in Giordania. E’ stata ricercatrice associata presso il Centro di Studi e Ricerche sul Medio Oriente Contemporaneo (CERMOC) in Giordania, dove ha condotto ricerche sui rifugiati palestinesi e l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi (UNRWA). Ha ricoperto varie funzioni come Visiting Fellow e ricercatrice associata presso il Centro Studi per i rifugiati (RSC) dell’università di Oxford.
http://al-shabaka.org/what-forces-shape-palestinians-gaza
(trad. Amedeo Rossi)

lunedì 13 ottobre 2014

Intervista ad Ahmad Sa'adat



"Cessare i negoziati, rinnovare l’unità nazionale e ricostruire la resistenza"


Nella primavera del 2002, al culmine della seconda intifada in Cisgiordania[…] le forze israeliane portarono avanti campagne di arresti ad ampio raggio in tutti i territori occupati e invasioni su larga scala di numerose città palestinesi. Ahmad Sa'adat […] [rappresenta una ] delle figure politiche palestinesi più importanti e conosciute arrestate in quella campagna, diventando nel tempo anche un leader del movimento dei prigionieri.

Ahmad Sa'adat è il segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) ed ex membro del Consiglio Legislativo Palestinese (CLP). È il funzionario di più alto rango appartenente a una fazione palestinese attualmente imprigionato dal regime israeliano di occupazione. La prigionia di Saadat non è atipica per i leader politici in Palestina, molti dei quali sono stati arrestati e detenuti, con o senza accuse, da Israele. Tuttavia, ad essere uniche erano le circostanze dell'arresto iniziale di Saadat ed i primi quattro anni della sua detenzione.
Uno degli aspetti critici degli arresti del 2002 era la collaborazione di sicurezza tra l'Autorità Palestinese (AP) e le forze di occupazione israeliane. Grazie al suo alto profilo e al livello di coinvolgimento dell’AP, l'arresto di Saadat si distingue in particolare come uno degli esempi più eloquenti di questa stretta cooperazione. […]
Giudicato da un tribunale militare israeliano nel 2006, Saadat è stato condannato come leader di un'organizzazione terroristica illegale. Nel periodo di detenzione israeliana, tra cui tre anni di isolamento, Saadat ha partecipato a numerosi scioperi della fame per migliorare le condizioni dei detenuti, e dal 2011 è stato uno dei leader più risoluti del movimento dei prigionieri. Nella politica palestinese, Saadat è diventato il simbolo di molte cose: il militante tenace (munadil), la vittima del tradimento dell’AP, il leader del partito, il prigioniero, e altro ancora. Ma Saadat è anche un fratello, un marito, un padre e ora un nonno. Come molti prigionieri, anche lui ha subito una serie di restrizioni non solo al suo lavoro politico, ma anche alla possibilità della sua famiglia di fargli visita in carcere e, come prolungamento della pena israeliana, alla loro [dei membri della famiglia, ndt] possibilità di ottenere permessi per viaggi personali e, pertanto, ai loro movimenti quotidiani. […]

In che modo la prigione ha cambiato la tua vita personale? Qual è il significato della tua vita? Come vedi e come ti tieni aggiornato sulla situazione politica? Puoi scrivere?
La mia esperienza carceraria ha forgiato ed ha temprato allo stesso tempo la mia visione politica e la mia appartenenza di partito, ma il tempo che ho trascorso in prigione è stato anche arricchito dalla mia esperienza di lotta vissuta al di fuori [della prigione, ndt]. A intermittenza, ho trascorso un totale di 24 anni in carcere, ed eccomi qui, incarcerato ancora una volta con il resto dei miei compagni. Passo il mio tempo a leggere e ad impegnarmi in attività legate alla nostra lotta di prigionieri, che comprende l'istruzione dei miei compagni e l'insegnamento di un corso di storia all’interno del programma dell’Università di Al-Aqsa. La maggior parte dei miei scritti riguarda le esigenze dell’organizzazione dei prigionieri del PFLP e le questioni di interesse nazionale. Cerco anche di sostenere i membri della dirigenza del FPLP all'esterno ogni volta che posso. Se dovessi descrivere in che modo la detenzione attuale mi ha cambiato, lo riassumerei dicendo che osservo gli eventi politici con più distacco in quanto mi è stata offerta l'opportunità di non essere immerso nei piccoli problemi quotidiani del lavoro politico e di organizzazione all'esterno. Questa prospettiva non ha fatto altro che rafforzare la mia convinzione della solidità della visione del FPLP dal punto di vista ideologico, politico o in termini pratici, comprese le sue posizioni sulle questioni urgenti ed esistenziali attualmente al centro della polemica: i negoziati, la riconciliazione [intra-palestinese] e le prospettive di uscita dalla crisi e dall’impasse attuale.

Sei stato arrestato nel 2002 e detenuto in una prigione dell’AP di Gerico sotto la supervisione di guardie americane e britanniche. Nel marzo 2006, sei stato trasferito in una prigione israeliana e condannato a trent’anni. Puoi fare un confronto tra la tua esperienze sotto "custodia internazionale" e nelle prigioni israeliane?
In breve, la detenzione sotto controllo britannico e americano ha reso evidenti le aberrazioni causate dal processo di Oslo. Sotto il cosiddetto Accordo Gaza-Gerico, sono stato messo in prigione a Gerico dall’AP, per conto degli israeliani, sotto la supervisione americana.
Per ragioni politiche, in particolare per la campagna elettorale del partito Kadima di quell’anno, il governo israeliano dichiarò nel 2006 che ero di loro competenza, svelando il vero significato del termine "al-Himaya" [1] - l’appellativo usato per descrivere l'ondata di arresti politici eseguiti dall’AP in conformità con i dettami israeliani di sicurezza. Il termine fu propinato dall’AP al pubblico per giustificare l’ondata di arresti.
In sostanza, la mia opinione è che [a Gerico], gli americani e gli inglesi si siano accordati con gli israeliani, e le forze di sicurezza dell'Autorità Palestinese si siano arrese, mettendoci nell’impossibilità di difenderci o di combattere per la nostra libertà. Mi duole dire che da questo assurdo episodio non è stata imparata alcuna lezione né è stata tratta alcuna conclusione e che, sotto diversi nomi, continuano ad essere svolte altre operazioni ugualmente sbagliate.
In pratica, a gestire la prigione di Gerico erano sorveglianti stranieri, e il ruolo dei funzionari palestinesi, dal ministro degli Interni al più umile poliziotto, era semplicemente quello di far rispettare le direttive e le condizioni base degli israeliani. Questo ha condotto alla nostra detenzione ma anche all'arresto di decine di altri militanti, rastrellati sia a Gerico che in altri luoghi. Essere in una prigione israeliana è un'esperienza completamente diversa: lì ci troviamo di fronte alla deliberata politica israeliana di spezzare la nostra volontà, calpestare i nostri diritti umani e fiaccare le nostre energie da militanti. Per i detenuti in generale, e per i capi del movimento dei prigionieri in particolare, la prigione diventa a tutti gli effetti un altro campo di battaglia contro l'occupazione.

Puoi descrivere il rapporto con la tua famiglia durante il periodo di detenzione, e il rapporto con il tuo nuovo nipote?
Per me come essere umano, la mia famiglia, per quanto stretta o larga la si possa intendere, è stata e rimane la parte maggiormente lesa. Hanno pagato un prezzo pesante per i miei continui arresti, pur rimanendo una delle principali fonti di sostegno per me come militante.
Mio fratello, Muhammad, è caduto nel fiore della sua giovinezza; i miei genitori, i miei fratelli e i miei figli sono tutti stati privati ??del mio amore per loro. Fatta eccezione per mia moglie, Abla, e mio figlio maggiore, Ghassan, le cui carte di identità di Gerusalemme permettono loro di viaggiare fino al carcere senza bisogno di un permesso da parte degli israeliani, negli otto anni trascorsi dal mio ultimo arresto la mia famiglia non ha potuto farmi visita. Per quattro anni e mezzo, tre dei quali trascorsi in isolamento, perfino Abla e Ghassan non hanno potuto visitarmi, e la mia comunicazione con loro si limitava alle lettere.
In breve, ho gravemente trascurato i miei doveri nei confronti della mia famiglia. Spero che arrivi il giorno in cui potrò farmi perdonare, per quanto tardivamente. Per quanto riguarda la mia nipotina, lei ha ereditato i geni della "minaccia per la sicurezza", così, in assenza di una parentela di primo grado [2], le è stato impedito di visitarmi – per non parlare naturalmente delle onnipresenti "ragioni di sicurezza".

Come passi le tue giornate in prigione? E come tieni il passo con gli affari del FPLP? La prigionia ti limita in questo proposito? Fai affidamento sulla leadership esterna per guidare il partito?
Cerco di conciliare i miei impegni di partito con i miei impegni globali di nazionalista sia in carcere che all'esterno. Naturalmente, il fatto che io sia in prigione limita la mia capacità di adempiere ai miei doveri di segretario generale del FPLP: perciò faccio affidamento sullo spirito collegiale dei miei compagni nella direzione del partito e sui processi democratici che regolano l'esercizio della loro leadership. Questi due fattori hanno contribuito all’iniezione di sangue fresco nelle nostre file. I giovani rappresentavano oltre la metà dei partecipanti al nostro recente congresso.

Il FPLP ha recentemente tenuto il suo congresso nazionale [3]. Anche se i risultati e le risoluzioni non sono stati resi pubblici, è trapelata la notizia di un grande dissenso che ha offuscato l’incontro e ha portato alle dimissioni di 'Abd al-Rahim Malluh, il vice Segretario generale, nonché di alcuni funzionari di alto rango. Abbiamo anche sentito che il congresso ha insistito sulla tua candidatura come leader del partito. Non credi che la detenzione prolungata ostacoli la tua leadership del partito e perché il FPLP non ha proposto ad altri di unirsi alla leadership?
Dato che siamo un partito democratico di sinistra, le differenze di opinione e di giudizio all'interno della leadership sono solo naturali. Non siamo l’uno la fotocopia dell’altro, il che sarebbe contro natura. Tuttavia, non è a causa delle nostre differenze che un certo numero di compagni ha lasciato la leadership del partito - e non uso la parola "dimissioni" perché sono ancora membri del PFLP. Il partito beneficerà ancora della loro presenza e partecipazione, dal momento che continueranno a dare il loro contributo grazie alla loro preziosa e variegata esperienza di militanti. Come hanno affermato in diversi media, il motivo che li ha spinti a lasciare i posti che occupavano è stato quello di aprire la strada dei vertici della dirigenza ad una serie di giovani quadri.
Qui devo ribadire la mia stima e il mio apprezzamento per questa iniziativa, che ha ulteriormente consolidato il percorso già intrapreso dai nostri leader fondatori, tra i quali George Habash, Abu Maher al-Yamani e Salah Salah. Per quanto riguarda la mia rielezione come segretario generale nonostante la mia reclusione: questa non è stata una mia scelta personale, ma la scelta dei miei compagni - i delegati al congresso ed i quadri del partito. Considero mio dovere rispettare la loro fiducia in me, e raddoppiare i miei sforzi nell’adempiere alle sfide derivanti dalle mie responsabilità.

Pensi che il Documento dei prigionieri (Documento di riconciliazione nazionale) [4] sia ancora valido? E se sì, che cosa ostacola la sua attuazione? Se il documento ha bisogno di modifiche, quali cambiamenti proponete?
Il documento dei prigionieri resta una base politicamente valida per arrivare alla riconciliazione e rinnovare l'unità nazionale. Inoltre, esso stabilisce il quadro generale della struttura organizzativa, con l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) come avanguardia, fondata sul nazionalismo democratico, vale a dire, ove possibile, elezioni democratiche e partecipazione popolare.
In realtà, il documento è già stato modificato dagli accordi scaturiti da anni di colloqui bilaterali tra Fatah e Hamas. Questo comporta necessariamente la revisione e la ricostruzione delle istituzioni dell'OLP, in particolare il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP). Inoltre, favorirà il consolidamento del documento e ci permetterà di passare dalla co-esistenza politica nell’arena di palestinese alla vera unità nazionale, sia in termini di azioni che di programmi.
A causa delle circostanze che hanno portato alla sua creazione, il testo del documento dei prigionieri presenta alcune ambiguità in alcuni punti, in particolare per quanto riguarda l'approccio ai negoziati e la strategia più efficace da adottare nel contrastare l'occupazione.

Venti anni dopo Oslo, non c'è né la pace né uno stato – solamente trattative e divisione politica. Come si supera questo stallo?
Trascorsi due decenni, gli esiti dei negoziati hanno definitivamente dimostrato che è inutile continuare il processo secondo il quadro di Oslo.
Per quanto mi riguarda, la continuazione degli inutili negoziati e l'attuale divisione nella classe politica palestinese sono indistinguibili. Il presupposto per la creazione e il consolidamento dell’unità nazionale è nell’impegno unanime verso una piattaforma politica chiara e unitaria fondata su un compromesso tra le varie forze e correnti all'interno del movimento nazionale palestinese.
Pertanto, se vogliamo superare l’attuale fase di stallo, dobbiamo smettere di puntare tutto sui negoziati e non prendervi più parte. Se queste dovessero continuare, allora come minimo il gruppo interessato deve riportare i negoziati sulla pista giusta tenendo fede ai principi e alle condizioni già definite, e cioè: la fine degli insediamenti, il ricorso alle risoluzioni delle Nazioni Unite e il rilascio dei prigionieri e dei detenuti. Questo presuppone ripartire dal successo ottenuto con la nostra adesione alle Nazioni Unite come Stato non membro al fine di elaborare un approccio globale per cui la questione palestinese viene essere risolta sulla base del diritto internazionale, come espresso nelle dichiarazioni e nelle risoluzioni delle Nazioni Unite alle quali Israele deve conformarsi; e infine, insistere nella nostra richiesta di adesione a tutte le istituzioni delle Nazioni Unite, in particolare alla Corte Internazionale di Giustizia.
Infine, dobbiamo lavorare per attuare i termini dell'accordo di riconciliazione formando subito un governo di riconciliazione nazionale e mettendo in piedi una struttura direzionale di transizione. Il compito di questa istituzione transitoria sarebbe quello di impegnarsi nella ricostruzione e nel rafforzamento dell'OLP e nell’organizzazione delle elezioni legislative e presidenziali dell’AP, nonché delle elezioni del Consiglio nazionale palestinese [CNP] entro sei mesi (anche se questo lasso di tempo può essere esteso, se necessario). L’aspetto di gran lunga più importante, però, è che la popolazione deve essere mobilitata intorno ad una piattaforma politica unitaria di resistenza nazionale in tutte le sue forme.

Dove ci porteranno i negoziati in corso secondo lei?
Chi ha seguito le posizioni del governo israeliano e statunitense capisce che le probabilità di raggiungere un accordo politico sancito dal diritto internazionale e dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, vale a dire, in conformità con i diritti del popolo palestinese al ritorno, all'autodeterminazione e all'indipendenza nazionale, sono pari a zero.
Credo che nessun leader palestinese, non importa quanto flessibile, sia in grado di soddisfare le richieste israeliane o americane e abbandonare questi principi fondamentali. Tutt'al più, i negoziati non faranno altro che prolungare la gestione delle crisi fornendo una copertura per i progetti israeliani di insediamento coloniale sul terreno, per scongiurare il biasimo internazionale e per imporre la propria visione di un soggetto politico palestinese pari a poco più che un protettorato. Inoltre, i negoziati consentono agli Stati Uniti di disinnescare le tensioni e contenere il conflitto in Palestina, e di concentrarsi sulle questioni regionali che ritiene fondamentali, vale a dire la Siria e l'Iran.

Il movimento nazionale palestinese deve essere ricostruito. In che modo e con quali prospettive politiche?
Sono d'accordo con te che il movimento nazionale palestinese ha bisogno di essere ricostruito. Credo che il punto di partenza debba essere la riconfigurazione di tutte le fazioni, sia nazionaliste che islamiste, al fine di razionalizzare programmi e punti di discussione e rafforzare il nostro riesame del modo migliore di procedere nella lotta contro l'occupazione. Ciò include una rivalutazione dell'OLP sia come organo sia come organizzazione quadro che rappresenta tutti i palestinesi, ovunque si trovino, e qualsiasi prospettiva sociale o politica abbiano. Organizzato come un vasto fronte nazionale e democratico, questa struttura sarebbe investita della massima autorità politica per guidare la nostra lotta.
Considero le nostre prospettive politiche le seguenti: a livello strategico, dobbiamo ripristinare quegli elementi del nostro programma nazionale che sono stati smantellati dalla leadership dominante dell'OLP a favore dell’opportunismo pragmatico, e ricollegare gli obiettivi storici dell'organizzazione per quanto riguarda il conflitto con quelli attuali: in sintesi, la creazione di un unico stato democratico in tutta la Palestina storica. A livello tattico, dovremmo unirci intorno ad una piattaforma comune con la componente islamista del movimento nazionale palestinese su un terreno comune, vale a dire il diritto al ritorno, all'autodeterminazione e alla creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme come sua capitale.

La resistenza popolare viene propagandata come alternativa alla resistenza armata. C'è un conflitto tra le due? E, se sono metodi complementari, come possono essere combinati?
La lotta quotidiana del movimento dei prigionieri è parte della più ampia lotta palestinese. Chiunque abbia seguito l’attivismo popolare palestinese nel corso degli ultimi tre anni o giù di lì scoprirà che esso ha ruotato in larga parte attorno al sostegno alle battaglie del movimento nazionale dei prigionieri. E questa non è una novità - in ogni fase della nostra lotta nazionale i prigionieri hanno svolto un ruolo di primo piano e di incitamento all’azione. Quanto meno, agli uomini e alle donne del FPLP, sia nella base sia nella direzione, prometto di impegnarmi, insieme con i miei compagni del PFLP in carcere, per soddisfare le loro speranze ed aspettative, in particolare per quanto riguarda la mobilitazione del Fronte [FPLP], rafforzando la sua presenza, e il sostegno al movimento nazionale palestinese in generale.
Come dimostrato altrove dalle rivoluzioni popolari, abbracciare la resistenza popolare non significa favorire una forma di lotta ad un’altra. Confinare la resistenza popolare alla sola lotta nonviolenta svuota la resistenza del suo contenuto rivoluzionario. L'intifada palestinese è stata un modello per la resistenza popolare, oltre ad essere la nostra bussola mentre percorrevamo diverse ed efficaci forme di resistenza: pacifica, violenta, popolare, di fazione, economica, politica e culturale. Non solo la letteratura accademica rifiuta la logica di spezzare la resistenza in varie forme e metodi, ma la realtà delle sfide che il popolo palestinese si trova ad affrontare nella sua lotta contro l'occupazione israeliana esclude un approccio del genere: noi ci troviamo ad affrontare una forma globale di colonialismo di insediamento che si basa sulle forme più estreme di violenza convenzionalmente associate con l'occupazione, combinate con politiche di apartheid. E l'ostilità in cui si imbattono [i palestinesi] si estende a tutti i segmenti della nostra popolazione, ovunque si trovino.
È quindi necessaria la combinazione creativa e l'integrazione di tutti i metodi di lotta legittimi che ci permettono di impiegare qualsiasi tipo o metodo di resistenza in relazione alle condizioni specifiche delle diverse congiunture politiche. Al livello nazionale più ampio, abbiamo bisogno di un programma politico unitario che, in primo luogo, fornisca i mezzi per mettere in pratica la resistenza. Occorrono posizioni politiche e discorsi che siano allo stesso modo uniti intorno alla resistenza. Infine, abbiamo bisogno di un quadro nazionale generale reciprocamente concordato, che definisca le principali forme di resistenza che determineranno poi tutte le azioni di resistenza. Dobbiamo essere capaci di proporre questa o quella forma con particolare attenzione alle circostanze specifiche, e in base alle esigenze di una situazione o di un momento politico specifico, senza escludere alcuna forma di resistenza.
Gli inviti alla resistenza popolare nonviolenta e gli slogan sullo stato di diritto e sul monopolio dell'uso delle armi all’AP sono meri pretesti per giustificare l’attacco alla resistenza e rispondere ai dettami di sicurezza israeliani. Lo stato di diritto è privo di significato se posto in contrasto con il nostro diritto di resistere all'occupazione e se nega la logica di tale resistenza. E per quanto riguarda il monopolio dell'uso della forza, non ha senso se questa forza non è diretta contro il nemico.

Qual è la tua lettura delle rivolte arabe, e quali sono state le ripercussioni sulla causa palestinese?
Le rivolte arabe nascono in risposta alla necessità popolare di cambiamento democratico e rivoluzionario dei sistemi politici di ogni paese arabo. Sebbene questo sia il quadro generale di riferimento per comprendere queste rivoluzioni, le particolarità di ciascun paese variano, così come le conclusioni che si raggiungono. Penso che le rivoluzioni tunisina ed egiziana rientrino nel quadro sopra descritto. In ogni caso, questi cambiamenti rapidi e dinamici contraddistinti dall'azione collettiva di massa hanno spostato l'equilibrio interno del potere, inaugurando un periodo di transizione.
Altrove, condizioni analoghe hanno portato la gente a sollevarsi e a chiedere il cambiamento, ma in quei casi, gli Stati Uniti e i suoi agenti nella regione hanno compiuto notevoli sforzi per condizionare e intervenire a sostegno del "Progetto per il Nuovo Medio Oriente" degli Stati Uniti [5].Pertanto, occorre una certa precisione nel valutare le rivolte e nel trarre conclusioni. Bisogna distinguere attentamente tra i propositi e le richieste di cambiamento democratico e di giustizia sociale che rappresentano la legittima volontà delle popolazioni arabe di riappropriarsi della loro dignità, dei diritti e delle libertà, da un lato; e, dall'altro, le forze internazionali e regionali che sfruttano la potenza scatenata da questi movimenti popolari per i propri fini, fomentando efficacemente la contro-rivoluzione, come è avvenuto in Libia e in Siria.
In generale, tuttavia, le rivolte arabe hanno ampliato le prospettive di una transizione con potenziale a lungo termine. Hanno agitato ciò che una volta era stagnante, aprendo la strada a diversi possibili scenari, nessuno dei quali prevede un ritorno al passato, cosa che credo sia ormai impossibile. A mio avviso, qualsiasi movimento popolare che conduca i popoli arabi più vicini al raggiungimento delle loro libertà e dei loro diritti democratici pone le basi per una lotta fondata su principi veramente democratici e costituzionali, che sono i presupposti per una società democratica e civile. Tutti questi obiettivi sono d’importanza strategica sia per la causa nazionale palestinese sia per il progetto di un rinnovamento arabo.

Note:
[1] Letteralmente, “protezione”, in arabo.
[2] Solo i parenti di primo grado (genitori, fratelli, coniugi e figli) sono autorizzati a visitare i loro parenti in carcere.
[3] Eletto per un mandato di quattro anni, il congresso nazionale è il supremo organo di governo del FPLP. Formula e modifica la strategia, il programma del partito e il regolamento interno, discute e decide in merito ai rapporti del comitato ed elegge il comitato centrale (esecutivo).
[4] Il Documento di riconciliazione nazionale, largamente conosciuto come Documento dei prigionieri, è stato pubblicato l’ 11 maggio 2006. Redatto da detenuti palestinesi nelle carceri israeliane in rappresentanza di Hamas, Fatah, Jihad islamica, FPLP e FDLP, al fine di risolvere la faida tra Fatah e Hamas e unificare le fila palestinesi. È il documento alla che è stato alla base di ogni successivo tentativo di riconciliazione palestinese. http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/page/documento-dei-prigionieri
[5] Una neologismo usato dall’allora Segretario di Stato americano Condoleezza Rice in una conferenza stampa a Washington DC il 21 luglio 2006: "Quello che stiamo vedendo qui, in un certo senso, è la crescita - le doglie di un nuovo Medio Oriente e qualunque cosa facciamo, dobbiamo essere certi che stiamo portando avanti il nuovo Medio Oriente e non stiamo tornando al vecchio." Vedi: Condoleezza Rice," Briefing speciale sul viaggio in Medio Oriente e in Europa", 21 Luglio 2006, trascrizione a cura di US Department of of State Archive, http://2001-2009.state.gov.
- See more at: http://www.palestinarossa.it/?q=it/content/story/intervista-ad-ahmad-saadat-cessare-i-negoziati-rinnovare-l%E2%80%99unit%C3%A0-nazionale-e-ricostrui#sthash.Qc1iYkrv.dpuf


( Fonte : Palestinarossa.it)






martedì 30 settembre 2014

TRIBUNALE RUSSEL SULLA PALESTINA

TRIBUNALE RUSSELL SULLA PALESTINA, SESSIONE STRAORDINARIA SU GAZA, BRUXELLES 24 E 25 SETTEMBRE 2014

Il Tribunale Russell sulla Palestina, coraggiosa iniziativa di denuncia e cultura politica, è stato creato in risposta ad un appello di Ken Coates (Presidente della Bertrand Russell Peace Foundation), Nurit Peled (Israeli, Premio Sakharov per la libertà di parola 2001) e Leila Shahid (Delegata generale della Palestina presso la Unione Europea). La responsabilità dell'organizzazione del Tribunale Russell sulla Palestina è del Comitato organizzativo internazionale, i cui componenti sono: Ken Coates, Pierre Galand, Stéphane Hessel (morto nel 2013), Marcel-Francis Kahn, Robert Kissous, François Maspero, Paulette Pierson-Mathy, Bernard Ravenel and Brahim Senouci. Ha svolto le sue sessioni tra il 2010 e il 2014 a Barcellona, Londra, Città del Capo, New York, Bruxelles (sessione conclusiva e sessione straordinaria su Gaza). Per saperne di più www.russelltribunalonpalestine.com. (Conclusioni generali anche in italiano).

Sommario delle testimonianze
La giornata del 24 è stata dedicata all'ascolto dei testimoni da parte della giuria. Quella del 25 ad una conferenza stampa pubblica sui risultati e ad un incontro al parlamento europeo. Sono state due giornate utili ed emozionanti: utili per la quantità di informazioni e conoscenze; emozionanti per la partecipazione appassionata delle testimonianze

Dopo l'apertura di Pierre Galand, coordinatore dell'iniziativa del Tribunale Russell sulla Palestina, ha introdotto il giurato John Dugard ,già relatore speciale delle NU per i diritti umani nei territori palestinesi: “questa sessione sarà centrata sui fatti relativi alla operazione Protective Edge. Ascolteremeo le prove della uccisione di oltre 2000 palestinesi, il 70% civili, del ferimento di molte migliaia, dei grandi danni alla proprietà. Ascolteremo anche prove sulle armi usate; testimonianze sulla sofferenza della popolazione e sulle intenzioni degli attaccanti. Ma tutto questo sarà nel contesto del diritto internazionale. Le nostre procedure prevedono che fatto e diritto interagiscano.”
Ha poi dettagliato i caratteri della occupazione israeliana di Gaza, dal 1967, quando ne vennero cacciati gli egiziani, e anche dopo il ritiro del 2005. Ha inoltre parlato dell'assedio come punizione collettiva a partire dal 2006, anno della elezione di Hamas, come rafforzamento della occupazione, misure di autodifesa. Ha parlato dei missili di Hamas come strumenti di resistenza, non di terrorismo. Ha sottolineato il dovere di israeliani e palestinesi di rispettare il diritto umanitario internazionale per la protezione della popolazione civile. Evidenziando la sproporzione tra le vittime dei due lati, ha sottolineato che Israele si è reso responsabili di crimini di guerra secondo il diritto internazionale consuetudinario, con l'attacco a civili e a infrastrutture. E si è anche reso responsabile di crimini contro l'umanità, con assassinii e sterminio su larga scala. Ha richiamato la questione, controversa, di una possibile definizione di genocidio – in termini giuridici e secondo la convenzione internazionale delle NU sul genocidio del 1948 – in quanto si sia verificata la intenzione di distruggere in tutto o in parte una popolazione, non una parte politica. Ha richiamato la necessità che l'Autorità Nazionale palestinese ratifichi lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale per l'esercizio della giurisdizione internazionale.
Ha infine richiamato la responsabilità di paesi terzi e in particolare degli Stati Uniti, in quanto finanziatori di Israele (8,5 milioni di dollari al giorno) e fornitori di armi e assistenza militare.

Paul Behrens, professore di diritto penale all'Università di Edimburgo ed esperto in materia di genocidio, ha insistito sulla necessità di analizzare la questione da un punto di vista giuridico , differenziandolo da quello sociale. Ha anche sottolineato l'importanza di considerare la gravità dell'incitamento al genocidio e l'importanza di tutte le prove relative ad azioni e espressioni verbali atte a indurre e incoraggiare la distruzione di civili e loro abitazioni.

Sul tema delle armi utilizzate si è soffermato il colonnello in pensione Desmond Travers, dall'esercito irlandese, partecipante a forze di peace keeping, tra gli autori del rapporto Goldstone, in seguito alla operazione “Piombo fuso” 2008/9. Tornato da una settimana da Gaza, ha fatto una ampia disamina di tutte le armi utilizzate (prodotte negli Stati Uniti e in Israele) e si è soffermato anche sulla analisi delle “dottrine” alla base dell'azione dell'esercito israeliano. In particolare la dottrina Dahiya, nata nella guerra contro il Libano del 2006, dal nome di un villaggio che venne raso al suolo con lo sterminio della sua popolazione, significativa della teorizzazione dell'uso sproporzionato della forza contro i civili; citata la direttiva Hannibal, nata nel 1986, sempre rimasta segreta, ad indicare l'autorizzazione ad usare qualsiasi mezzo, per impedire che uno o più soldati vengano fatti prigionieri, anche se questo provoca il loro ferimento o mette in pericolo la loro vita: questo per l'assoluto rifiuto di negoziare con “i terroristi”.

Tra le testimonianze più emozionanti sono state sicuramente quelle di giornalisti: David Sheen. originario di Toronto, vive a Dimona, in Israele, giornalista e regista, ha parlato soprattutto dell'incitamento all'uccisione e distruzione dei palestinesi nel discorso pubblico israeliano, del razzismo e odio che attraversano l'opinione pubblica, e che rappresentano un incitamento chiaro al genocidio. Ha mostrato e raccontato una lunga serie di espressioni usate da capi religiosi ed esponenti politici, richiamandosi talvolta alla fraseologia biblica, dall'incitamento all'uccisione di massa alle giustificazioni per l'uccisione di bambini alle dichiarazioni di orgoglio di essere razzisti.

Eran Efrat, già sergente dell'esercito israeliano, poi capo ricerca dell'organizzazione “Breaking the silence” (soldati israeliani veterani impegnati nella denuncia delle condizioni dei territori palestinesi occupati), tra i primi ad aver denunciato l'uso del fosforo bianco nella operazione “Piombo fuso”, ha a lungo parlato del massacro operato nel villaggio di Shuja'iyya e della sua totale distruzione con massicci bombardamenti. “Un vero e proprio attacco di vendetta, dato che la resistenza aveva ucciso 7 soldati israeliani...il punto non sono le regole di ingaggio o simili...il punto è che come palestinese non devi alzare la testa....Ogni volta è peggio, e succederà ancora...il diritto alla resistenza non è riconosciuto, sei un terrorista e basta....”

Mohammed Omer, giornalista palestinese del campo profughi di Rafah. Sempre vissuto a Gaza, ha esordito mostrando una foto di un ragazzino in ospedale ed ha proseguito con tre casi sconvolgenti. L'esecuzione sommaria di Mohammed Tawfik Qudeh, 65 anni, ucciso di fronte alla sua famiglia, mentre chiedeva “per favore non mi sparare”; il caso di un religioso della moschea di Khuza costretto a spogliarsi nudo di fronte a tutti; picchiato e interrogato su dove si trovino i missili; quella del dott. Kamal Qudeh, di una clinica privata, a cui hanno detto di evacuare in pochi minuti e – dice – “siamo stati costretti a portare i corpi sulle nostre spalle”. E, racconta, tutti hanno denunciato l'assenza della Croce rossa internazionale. E l'argentino Estrella, della giuria, commenta che sarebbe necessario un Tribunale Russell sulla stampa per il suo comportamento!

Mads Gilbert è un chirurgo norvegese, dal 1981 lavora con palestinesi, ed era a Gaza durante la guerra. Abbiamo potuto leggere una sua disperata lettera aperta sui massacri di cui è stato testimone, sul collasso delle strutture ospedaliere. E di questo parla, come, dopo di lui, Mohammed Abou Arab, un chirurgo palestinese, che risiede e lavora in Norvegia. Hanno lavorato prevalentemente nell'ospedale Al Shifa.
Il sistema sanitario era già in ginocchio a causa dell'assedio, e i lavoratori senza stipendio a causa del blocco posto dagli Stati Uniti sui conti di Hamas. Era invece un sistema eccellente, il cui personale continua a lavorare indefessamente, senza paga e senza orario. Loro sono gli “eroi”. Questa volta è peggiore delle altre – dice Mads Gilbert – la politica coloniale israeliana volta a cacciare la popolazione palestinese dalla sua terra, è stata più aggressiva di sempre, ha deliberatamente preso di mira ospedali, cliniche, ambulanze, distruggendo il 60% del sistema sanitario. L'impunità di Israele è la grande sfida di fronte a tutti noi. Impressionante come i civili palestinesi siano stati usati come scudi umani. Ne siamo stati accusati noi, ma qui in ospedale mai visti soldati palestinesi, che del resto sarebbero stati allontanati. Mohammed Abou Arab aggiunge che nel personale ospedaliero ci sono stati 144 morti.
Paul Mason è un reporter britannico che racconta“i fatti separati dalle opinioni” come – dice - è nello stile britannico, chiarendo che i bombardamenti sulle case con famiglie, sui civili, sui centri dei rifugiati, non corrispondono ad alcuna esigenza militare. Uno tra gli esempi più evidente e terribile è stato il bombardamento di una scuola dell'UNRWA, con 21 morti.
Si sente circolare un discorso “genocida”, anche tra i palestinesi: “cercano di ucciderci tutti come se non ci fosse più spazio per entrambi sul pianeta”. Un ruolo importante in questo viene svolto dai social media che creano nelle menti la realtà.

Un altro giornalista, tedesco, studente di scienze politiche, Martin LeJeune, a Gaza durante l'attacco, già a bordo della nave “Stefano Chiarini” della seconda flottiglia per la libertà di Gaza nel 2011, comincia col mostrare alcune foto di fabbriche distrutte: carpenteria, fabbriche di dolci; e parla poi dei danni all'agricoltura, alla distruzione di aranceti. Difficile ricostruire, dice, dato che nessun indennizzo è previsto essendo Gaza considerata da Israele “entità ostile”

Ivan Karakashian, è coordinatore della unità per l'advocacy di Defense for Children International-Palestina, parla del grande trauma subito dai bambini, a cui è stato negato cibo e sonno, e sono stati usati come scudi umani dagli israeliani. Oltre 300000 bambini , secondo dati ONU, hanno bisogno di sostegno. E' vero che abbiamo tolto missili da una scuola, ma non c'erano rifugiati. I giovani sono oggetto di attacco, Israele percepisce lo spostamento delle giovani generazioni. La società civile deve reagire, dappertutto, anche negli Stati uniti che pongono sempre veto sulle condanne a Israele nelle Nazioni Unite e, lo apprendiamo adesso, hanno aumentato di 14 miliardi di dollari per i prossimi due anni, il bilancio per la difesa.

Proprio dagli Stati Uniti, prende la parola per la sua testimonianza, Max Blumenthal, giornalista , scrittore e blogger, produttore di cortometraggi (su You Tube), presente a Gaza durante l'attacco, per Mondoweiss. Mostra una mappa militare della zona, fatta da Israele, in collaborazione con Stati Uniti, dove si vede la buffer zone (zona cuscinetto) completamente distrutta. Parla del cecchinaggio contro ragazzi e delle 89 famiglie completamente distrutte; denuncia la deliberata scelta di ammassare civili e poi bombardare, come accaduto a Beit Hanoun.
Denuncia la campagna ad opera dei religiosi anche contro i militari palestinesi, che non sono nemici combattenti, ma blasfemi; c'è una completa disumanizzazione dei palestinesi, e anche questo è un aspetto “genocida”, e la società israeliana è pronta per questo...

Agnès Bertrand-Sanz è la direttrice dell'Ufficio medio oriente all'Aprodev, associazione di organizzazioni europee per lo sviluppo, protestanti, anglicane e ortodosse
Denuncia la ipocrisia della politica della Unione Europea, sempre dipendente da quella USA, e la necessità assoluta di trovare il modo di richiamare le istituzioni europee alle loro responsabilità. La UE ha seppellito il rapporto Goldstone, recentemente si è espressa contro la commissione di inchiesta a Gaza votata dal Consiglio diritti umani dell'ONU; ha fatto pressioni sulla ANP perché non adisse alla Corte Penale internazionale, “negativo per i negoziati di pace”! Le vittime vogliono giustizia: invito a ANP ad adire alla Corte Penale internazionale.

Michael Deas, coordinatore del Comitato Nazionale Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni in Europa. Illustra con precisione il senso e le ragioni della campagna, lanciata dai palestinesi, ben presto diventata internazionale, BDS, uno strumento fondamentale per colpire l'impunità israeliana e coinvolgere le società civili. Denuncia il doppio standard usato dalla UE nei confronti di Israele, a cui vengono mantenuti e accresciuti i privilegi, in campo economico e militare. Invita a sostenere con forza la richiesta di embargo militare su Israele e la sospensione dell'accordo di associazione UE-Israele.

A cura di Alessandra Mecozzi 30 settembre 2014