lunedì 30 agosto 2010

Israele festeggia il Ramadan con demolizioni e altre nefandezze

11 agosto 2010

Ieri, alle 2:30 del mattino, il giorno prima che iniziasse il mese sacro del Ramadan,  lavoratori inviati dalle autorità israeliane, protetti da decine di poliziotti, hanno distrutto le lapidi nella ultima parte del cimitero Mamilla, uno storico luogo di sepoltura musulmano con tombe risalenti al 7° secolo, finora lasciato intatto. Il governo di Israele è sempre stato pienamente consapevole della santità e dell'importanza storica del sito. Già nel 1948, quando il controllo del cimitero è stato attribuito ad Israele, il ministero israeliano degli Affari religiosi ha riconsciuto Mamilla "essere uno dei più importanti cimiteri musulmani, dove sono sepolti settantamila guerrieri di armate musulmane [di Saladino], insieme a molti fedeli. Israele saprà sempre proteggere e rispettare questo luogo." Malgrado tutto questo, e nonostante la (giusta) indignazione israeliana quando cimiteri ebraici vengono profanati in qualsiasi parte del mondo, lo smantellamento del cimitero Mamilla è stato sistematico. Nel 1960 su una porzione di questo  è stato costruito lo "Independence Park"; successivamente è stato costruita una strada urbana che ci passava in mezzo, grandi cavi elettrici sono stati posti sulle tombe e un parcheggio è stato costruito sopra un altro pezzo ancora. Ora, circa 1.500 tombe musulmane sono state rimosse in diverse operazioni notturne per far posto ... al Museo, da 100 milioni dollari,  della Tolleranza e della Dignità umana, un progetto del Simon Wiesenthal Center di Los Angeles. (Ironia della sorte, il rabbino Marvin Hier, il direttore del Centro Wiesenthal è apparso su Fox News, per esprimere la sua opposizione alla costruzione di una moschea vicino a Ground Zero a Manhattan, perché il sito dell'attacco dell 11 settembre "è un cimitero.")

Il periodo di un mese tra la visita del 6 luglio di Netanyahu a Washington e l'inizio del Ramadan ha fornito ad Israele una finestra per "pulire il tavolo" dopo una pausa frustrante delle demolizioni di case imposta dalla "vecchia" moderatamente critica amministrazione Obama - anche se non vi è alcuna garanzia che Israele non demolirà durante il Ramadan, soprattutto se vuole sfruttare il periodo fino alle elezioni di novembre, ben sapendo che fino ad allora Obama non si opporrà apertamente a qualsiasi cosa faccia nei territori occupati. Infatti, il processo della demlizione delle case palestinesi non è mai cessato. Il 6 giugno, per esempio, un anno dopo la demolizione di oltre 65 strutture e l'esodo forzato di oltre 120 persone, tra cui 66 bambini; nove famiglie di Khirbet Ar Ras Ahmar nella valle del Giordano, per un totale di 70 persone, hanno ricevuto una nuova serie di "ordini di evacuazione." Una settimana dopo l'Alta Corte israeliana ha ordinato alla Amministrazione Civile di "intensificare l'esecuzione dei provvedimenti contro le strutture illegali palestinesi" nell'area C, sotto il pieno controllo israeliano, che costituisce il 60% della Cisgiordania.
 
E così, il 13 luglio, al ritorno di Netanyahu (le case palestinesi non sono demolite senza un OK dall'Ufficio del Primo Ministro), tre case sono state demolite nel quartiere palestinese di Gerusalemme Est di Issawiya, seguite da tre case a Beit Hanina. La municipalità di Gerusalemme ha anche annunciato la prevista demolizione di ulteriori 19 case ad Issawiya questo mese. In Cisgiordania, l'Amministrazione "civile" 'israeliana ha demolito 55 strutture appartenenti a 22 famiglie palestinesi nella zona di Al Hmayer Farisiye nel nord della Valle del Giordano, tra cui 22 tende residenziali e 30 altre strutture utilizzate per il ricovero di animali ed il deposito di attrezzature agricole. Secondo l'Ufficio delle Nazioni Unite degli Affari Umanitari (OCHA): "Questa settimana [14-20 luglio, la settimana del ritorno di Netanyahu a Washington] c'è stato un aumento significativo del numero di demolizioni nell'area C, con almeno 86 strutture demolite nella valle del Giordano e nel sud della Cisgiordania, compresi i distretti di Betlemme e Hebron. Nel 2010, almeno 230 strutture palestinesi sono state demolite nell'area C, espellendo 1100 persone dalle proprie case, tra cui 400 bambini. Circa altri 600 sono stati colpiti in altro modo. "Due terzi delle demolizioni nel 2010 sono avvenute dopo l'incontro di Netanyahu con Obama. Più di 3.000 ordini di demolizione sono in attesa di esecuzione in Cisgiordania, e fino a 15.000 nella Gerusalemme est palestinese.

La demolizione delle case è solo, naturalmente, una piccola, anche se dolorosa, parte della distruzione che Israele causa quotidianamente alla popolazione palestinese. Nel corso delle ultime settimane una violenta campagna è stata condotta contro i contadini palestinesi in una delle zone più fertili della Cisgiordania, la Valle di Baka, che è sempre di più invasa dalle grandi periferie dell'insediamento di Kiryat Arba, a Hebron. Israele prende già l'85% dell'acqua della Cisgiordania per il proprio uso, sia per gli insediamenti (i coloni consumano pro capite cinque volte più acqua dei palestinesi, e Ma'aleh Adumim sta costruendo un parco acquatico, oltre alle sue quattro piscine comunali e le fontane enormi costantemente attive nel centro della città) sia per essere pompata in Israele propriamente detto - il tutto in palese violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta alla potenza occupante di utilizzare le risorse di un territorio occupato.

Accusare gli agricoltori di "rubare acqua" - la loro acqua - la società israeliana dell'acqua Mekorot, sostenuta dalla amministrazione civile e dalle Forze di Difesa israeliane, ha distrutto nelle ultime settimane decine di pozzi, alcuni dei quali antichi, e serbatoi utilizzati per raccogliere l'acqua piovana, ed anche questo è "illegale". Centinaia di ettari di terreni agricoli sono prosciugati dopo che tubi di irrigazione sono stati tirati via e confiscati da parte dell'Amministrazione Civile. Campi di pomodori, fagioli, melanzane e cetrioli stanno morendo poco prima di poter essere raccolti, e l'industria dell'uva in questa valle ricca è minacciata di distruzione. "Sto guardando la mia vita seccarsi davanti ai miei occhi", Ata Jaber, un contadino palestinese che ha avuto la sua casa demolita due volte, la maggior parte dei suoi terreni giace sepolto sotto il quartiere Givat Harsina di Kiryat Arba, ed i suoi tubi di irrigazione goccia a goccia in plastica vengono distrutti annualmente dalla Amministrazione Civile appena prima del raccolto. "Avevo sperato di vendere la mia coltivazione per almeno 2000 dollari prima di Ramadan, ma tutto è perduto."

(È possibile vedere un servizio della BBC sulla distruzione dei serbatoi palestinesi su YouTube e una scena straziante girata solo una settimana fa, quando un cugino di Ata è stato arrestato davanti al suo figlio piccolo per aver resistito alla distruzione del suo sistema idrico .)

Gli insediamenti continuano ad essere costruiti, naturalmente. Il tanto strombazzato "congelamento degli insediamenti" è risultata pari ad una tregua temporanea delle costruzioni. (In effetti, mai Netanyahu ha usato la parola "blocco", in ebraico egli si riferisce solo ad una "pausa".) Secondo il rapporto di agosto di Peace Now Settlement Watch, hanno iniziato ad essere costruite almeno 600 unità abitative durante il congelamento, in oltre 60 insediamenti diversi - il che significa che il tasso di costruzione è circa la metà di quello di un anno medio, nello stesso periodo, senza congelamento. Dato che il processo di approvazione non è mai stato arrestato -  se vi ricordate, il governo israeliano ha annunciato la prevista costruzione di 1600 unità abitative negli insediamenti, quando il vice presidente Biden era in visita - quando il "blocco" finirà alla fine di settembre sarà un compito facile recuperare il tempo perduto. Secondo Ha'aretz, circa 2.700 unità abitative sono in attesa di essere costruite.

Il fatto che il cosiddetto congelamento degli insediamenti non ha per davvero posto fine alla costruzione degli insediamenti è evidente. Il governo americano sembra disposto ad accettare promesse insincere solo da Israele, e insieme essere apertamente e minacciare brutalmente i palestinesi se non acconsentono alla presa in giro. Negoziatori palestinesi hanno rivelato la scorsa settimana che l'amministrazione Obama ha minacciato di tagliare tutti i legami, politici e finanziari, con l'Autorità palestinese se avessero continuato ad insistere su un vero e proprio congelamento degli insediamenti o anche su parametri chiari su ciò che le parti dovranno negoziare. (Netanyahu rifiuta di accettare anche il principio elementare dei confini del 1967 come base di colloqui.)

Ugualmente distruttivo di ogni vero processo di pace, comunque, è il fatto che l'attenzione sul congelamento degli insediamenti devia l'attenzione dal tentativo da parte di Israele di creare "fatti irreversibili sul terreno", che sconfiggeranno lo stesso processo dei negoziati. Anche se Israele avesse rispettato il blocco degli insediamenti, non c'è nessuna domanda, aspettativa, assolutamente nulla per impedirgli di continuare a costruire il Muro (la chiusura del campo profughi di Shuafat all'interno di Gerusalemme e della città di Anata si sta completando in questi giorni , e il villaggio di Wallajeh, una parte del quale cade in Gerusalemme, sta perdendo le sue terre, ulivi secolari e case anche mentre stiamo parlando). Nulla impedisce a Israele di continuare a impoverire e imprigionare la popolazione palestinese attraverso i suoi venti anni di "chiusura economica", compreso l'assedio di Gaza, che hanno ridotto l'economia palestinese in cenere. Niente si frappone dal completare un sistema parallelo (anche se non uguale in dimensioni e qualità) di autostrade da apartheid, quelle più grandi, passando attraverso le terre palestinesi, per gli israeliani, quelle strette per i palestinesi. Niente trattiene Israele dall'espellere  palestinesi dalle loro case in modo che i coloni ebrei possano entrarci- il 29 luglio nove famiglie che vivono nel quartiere musulmano della Città Vecchia, tornando a casa la sera da un matrimonio, si sono trovate bloccate fuori dalle loro case da parte dei coloni e impedite di entrare da parte della polizia. (I palestinesi, naturalmente, non hanno alcun ricorso legale per poter reclamare le loro proprietà, interi villaggi, città e quartieri urbani, fattorie, fabbriche e edifici commerciali, a loro confiscati nel 1948 e dopo.)

Nulla impedisce ad Israele dal terrorizzare la popolazione palestinese, vuoi tramite un proprio esercito od un surrogato di milizie fondato da Stati Uniti e gestito dall'Autorità palestinese per pacificare la propria popolazione, vuoi da parte dei coloni che sparano e picchiano i palestinesi e bruciano i loro raccolti, senza timore di essere arrestati, o da agenti sotto copertura, aiutati da migliaia di palestinesi costretti a diventare collaboratori, molti semplicemente in modo che i figli possano ricevere le cure mediche o in modo da poter avere un tetto sopra la testa; se con l' espulsione o la miriade di vincoli amministrativi di un sistema invisibile ma kafkiano di controllo totale e di intimidazione. Nulla si oppone al boicottaggio di Israele del popolo palestinese, isolato dal mondo dai confini controllati da Israele, o politiche, che in effetti boicottano le scuole e le università palestinesi, impedendone il corretto funzionamento. E nulla, assolutamente nulla, ferma Israele dalla demolizione di case palestinesi - 24.000 nei Territori occupati dal 1967, e continuando.

Forse questo modo di accogliere il Ramadan non giunge di sorpresa per gli standard dei territori occupati. Ha assunto un aspetto completamente diverso quando, il 26 luglio, più di 1.300 della polizia di frontiera israeliani, dell'unità "operazioni speciali" delle truppe d'assalto della polizia Yassam,  e della polizia regolare, accompagnati da elicotteri, sono discesi sul villaggio beduino di al-Arakib , appena a nord di Beer-Sheva, una comunità all'interno di Israele abitata da cittadini israeliani. Quarantacinque case sono state demolite, 300 persone sono state sfollate con la forza. Una delle parti più grottesche e sconcertanti di questa operazione è stato l'uso di studenti ebrei israeliani delle scuole superiori, i volontari con la guardia civile, per rimuovere gli effetti personali dei loro concittadini dalle loro case, prima della demolizione. Oltre ai resoconti di vandalismo e di disprezzo per le loro vittime gli studenti sono stati fotografati accomodati fra i mobili dei residenti sotto gli occhi dei loro proprietari. Infine, quando le ruspe hanno iniziato a demolire le case, i volontari hanno applaudito e festeggiato. Durante la settimana successiva, quando attivisti israeliani hanno aiutato i residenti raccogliere i pezzi e ricostruire le loro case, il Fondo Nazionale Ebraico, l'israeliano Land Authority, il Ministero dell'Interno e il "Green Patrol" del Ministero dell'Agricoltura (istituito da Ariel Sharon per impedire ai beduini di impossessarsi del Negev), hanno inviato polizia e bulldozer e hanno ottenut la distruzione del villaggio due volte di più.

Anche se al-Arakib è uno dei 44 villaggi beduini "non riconosciuti" nel Negev - di cui solo undici hanno una parvenza di servizi di istruzione e di assistenza medica, senza elettricità,  l'accesso all'acqua sia estremamente limitato e nessuno abbia asfaltato le strade (vedi http://rcuv. wordpress.com) - è comunque popolata da cittadini israeliani, alcuni dei quali prestano servizio nell'esercito. Mentre la demolizione di case arabe all'interno di Israele non è un fenomeno nuovo - l'anno scorso il governo israeliano ha demolito tre volte di più le case di cittadini  (arabi) israeliani all'interno di Israele, di quanto ha fatto nei Territori Occupati (a parte la distruzione di oltre 8.000 case durante l'invasione di Gaza ) - significa che il termine "occupazione" non può essere limitato solo alla Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza (e le alture del Golan). La situazione dei cittadini arabi di Israele è quasi altrettanto insicura, a quella dei palestinesi dei territori occupati, e la loro esclusione dalla società israeliana è quasi completa. Mentre circa 1.000 città, paesi e villaggi agricoli sono stati stabiliti in Israele dal 1948 esclusivamente per gli ebrei, non un solo nuovo insediamento arabo è stato istituito, con l'eccezione di sette progetti di edilizia abitativa per i beduini nel Negev, dove a nessuno dei residenti è consentito allevare od avere animali propri. Infatti, i regolamenti e la suddivisione in zone vietano ai cittadini palestinesi di Israele di vivere in 96% dei terreni del paese, che è riservato ai soli ebrei.

Il messaggio del bulldozer è chiaro: Israele ha creato un'entità bi-nazionale tra il Mediterraneo ed il fiume Giordano in cui una popolazione (gli ebrei) ha separato sé stessa dagli altri (gli arabi) ed ha istituito un regime di dominazione permanente. E' proprio la definizione di apartheid. Ed il messaggio viene recapitato con chiarezza nelle settimane e nei giorni precedenti il Ramadan. E' mascherato da belle parole. Netanyahu ha rilasciato una dichiarazione che diceva: "Noi consideriamo questo mese importante mentre tentiamo di raggiungere colloqui di pace diretti con i palestinesi e di promuovere trattati di pace con i nostri vicini arabi. So che siamo partner in questo obiettivo e chiedo il vostro sostegno, sia nelle preghiere ed in ogni altro sforzo comune per creare davvero una convivenza pacifica e armoniosa." Anche Obama e la Clinton hanno inviato i loro saluti al mondo musulmano, Obama osservando che il Ramadan "ci ricorda i principi che abbiamo in comune, e il ruolo dell'Islam nel promuovere la giustizia, il progresso, la tolleranza e la dignità di tutti gli esseri umani." Sia la Casa Bianca che il Dipartimento di Stato terranno pasti Iftar. Ma le ruspe ed altre espressioni di apartheid e di confinamento raccontano una storia molto diversa.

(Jeff Halper è il direttore del Comitato israeliano contro la demolizione delle case (ICAHD). Può essere raggiunto a .)


Il Comitato israeliano contro la demolizione House è basata a Gerusalemme e ha associazioni collegate nel Regno Unito e Stati Uniti.

ISRAELE: 40 ATTORI DICONO NO AI COLONI

ISRAELE: 40 ATTORI DICONO NO AI COLONI
Ma governo e stampa si scatenano contro gli artisti che rifiutano di esibirsi nell’insediamento ebraico di Ariel, nella Cisgiordania palestinese.

Gerusalemme, 29 agosto 2010 (nella foto dal sito rinatveilan.co.il, l’attrice israeliana Einat Weizman), Nena News – La ricomparsa dei quotidiani israeliani oggi in edicola, dopo la pausa dello shabat ebraico, ha prodotto una valanga di accuse contro gli attori, attrici, autori e registi (una quarantina), che rifiutano di esibirsi nel «Palazzo della Cultura» di Ariel, la seconda per grandezza delle colonie ebraiche costruite da Israele nella Cisgiordania palestinese sotto occupazione militare. Tutti, ad eccezione del liberal Haaretz, lanciano accuse durissime contro gli artisti, da quella più soft di «insensibilità» a quella pesantissima di «tradimento». Secondo la maggioranza degli editorialisti «gli ebrei non possono boicottare altri ebrei» anche se sono coloni che occupano le terre palestinesi, proprio come afferma la campagna avviata nei mesi scorsi dalla destra contro gli ebrei che sostengono il boicottaggio locale e internazionale degli insediamenti colonici e dello Stato di Israele, sino a quando non avrà fine l’occupazione militare dei territori palestinesi.

Alla condanna degli artisti refusenik giunta dalla maggior parte dei mezzi d’informazione, si è unita quella del premier Netanyahu che ha usato parole di fuoco contro chi all’interno del paese vorrebbe boicottare non solo le colonie ma, a suo avviso, l’intero Stato di Israele. La ministra per l’istruzione Limor Livnat ha rivolto un appello alle compagnie teatrali affinchè non si lascino coinvolgere nella protesta. «I firmatari della lettera di boicottaggio (del Palazzo della Cultura di Ariel,ndr) hanno deciso di lacerare la società israeliana …Si tratta di una iniziativa molto pericolosa che discrimina fra pubblici diversi sulla base delle convinzioni politiche dei firmatari», ha scritto Livnat sorvolando sul «particolare» che Ariel è stata costruita nella terra appartenente ad un altro popolo, in violazione delle leggi e convenzioni internazionali. La ministra ha quindi recuperato l’abusato slogan che «la cultura deve rappresentare un ponte» e non creare divisioni. Diversi deputati di destra invocano il licenziamento degli attori non allineati al pensiero dominante.

Il Palazzo della Cultura di Ariel è costato dieci milioni di dollari e ha già ottenuto la collaborazione delle più importanti compagnie teatrali di Israele. I coloni potranno assistere nella stagione 2010-2011 a rappresentazioni di opere di autori celebri, da Bertold Brecht a Moliere. La rivolta è partita da Shmuel Hasfari, un attore ed autore schierato contro l’occupazione, e ieri si è materializzata in una lettera aperta firmata da quarantina di attori, registi ed autori di teatro che escludono di poter mettere la loro arte al servizio di israeliani che occupano terre palestinesi. Fra i firmatari della lettera aperta vi sono alcuni nomi importanti del teatro israeliano: come quello dell’attrice Einat Weizman, dei registi Rina Yerushalmi e Moti Lerner e degli autori Yehoshua Sobol e Savion Lebrecht.(red) Nena News

Normale boicottaggio israeliano della cultura palestinese

Forse a qualcuno dei firmatari della Campagna per il Diritto allo Studio ed alla Libertà Accademica in Palestina interesserà leggere queste righe. E' un'esperienza personale su cosa significa lottare per la sopravvivenza culturale nella Palestina sotto regime di apartheid.



Ieri notte, poco dopo le tre del mattino, le Forze di Occupazione Israeliane fanno irruzione nel mio appartamento di Birzeit, grazioso villaggio palestinese a due passi dall'Università di Birzeit, nei Territori Palestinesi Occupati. Battono violentemente contro la porta col calcio dei mitra, urlando "geish", "qui è l'esercito!". Il mio coinquilino statunitense apre la porta e viene travolto da almeno dieci soldati in assetto di guerra, tute mimetiche e mitra spianati. Si rivolgono a noi in arabo, o meglio nell’idioma palestinese locale. Chiedono chi altro vive in casa, mentre ci spingono in camera puntandoci i mitra in petto. Tre fanno la guardia mentre altri soldati rovinstano in ogni angolo. Provo a rispondere, in dialetto palestinese, prendo tempo, voglio capire se sono le forze di sicurezza palestinesi o l'esercito israeliano. Siamo in Zona A, che secondo (la farsa de) gli accordi di Oslo è zona (ghetto) sotto totale (sicurezza e amministrazione) controllo dell'Autorità Palestinese. Gli israeliani non potrebbero entrarci. Parlano tra loro in ebraico, hanno scritte in ebraico nelle uniformi: non sono palestinesi. Chiedono i documenti. Capiscono che hanno sbagliato preda, siamo solo "internazionali". Passano all'inglese: "che ci fate qui?". Non bisogna perdere la calma, mostrarsi intimiditi. Devono sapere che stanno agendo in barba a tutte le convenzioni internazionali. Mi viene naturale rispondere: "che ci fate VOI qui?". La situazione diventa quasi comica.



Intanto altri soldati salgono al piano di sopra, dove vivono i nostri locatari. Sentiamo porte sbattere, movimenti brischi, ordini urlati. Stanno terrorizzando un'intera famiglia. Setacciano la casa. Noi siamo confinati in camera, dove tre quattro ragazzotti di vent’anni ci puntano addosso mitra a non so che altro aggeggio di guerra. Cerchiamo di capire cosa succede, cosa cercano. Tutto quello che ci viene detto è “non muovetevi. Credeteci, abbiamo le nostre ragioni. Motivi di sicurezza. Non possiamo dire altro”. Certo, ovvio, motivi di sicurezza.



Il tutto dura mezz’ora. Se ne vanno. Saranno stati una quarantina di soldati, contando quelli che hanno preso parti alla “missione” e quelli in attesa o in sorveglianza. Dopo un pò scende da noi Hanna Qassis a dirci che i soldati hanno arretsato suo fratello minore Omar. Non è la prima volta.





Io “conoscevo” questo Omar Qassis, prima ancora che diventasse il mio locatario. Nel libro Pianificare l’oppressione. Le complicità dell’accademia israeliana”, che ho recentemente curato insieme a Carlo Tagliacozzo e Nicola Perugini, raccontiamo proprio la storia di Omar come caso esemplare di negazione del diritto allo studio (vien da ridere a parlare di “diritto allo studio” quando si tratta di negazione della dignità umana in ogni suo aspetto). Studente di sociologia, è già stato posto qualche anno fa sotto detenzione amministrativa (sistema di detenzione senza imputazione in cui prove segrete dell’intelligence israeliana vengono esibite al giudice militare e utilizzate per giustificaer l’incarcerazione per un periodo fino a 6 mesi, su base rinnovabile. Le ragioni addotte non sono comunicate al detenuto e al suo avvocato. La sofferenza mentale derivata dal non sapere le ragioni della detenzione può equivalere alla tortura così come è definita dalla Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite - ratificata da Israele nel 1991. Uno studente della Birzeit è stato tenuto in detenzione amministrativa per tre anni). Proprio qualche giorno fa mi raccontava della sua detenzione, e di come un suo collega (Arafat Daoud, anch’esso nel libro Pianificare l’oppressione) sia passato sotto l’inferno delle detenzioni arbitrarie per anni senza accuse certe, senza sapere il motivo della detenzione, ed abbia ora gravi ed irreparabili disturbi psicologici.

Ora, Omar – un ragazzo di un acume e di un’intelligenza rari - sarà posto in totale isolamento per giorni, senza poter vedere né medico, né famiglia, né avvocato. In queste ore è a serio rischio di tortura. Magari sarà rilasciato a giorni, magari gli daranno altri 6 mesi di detenzione amministrativa. In questo caso, chiederò a tuti quelli che hanno deciso di aderire, di aiutarci a tirar fuori Omar da quell’inferno.

Qui non si tratta di salvarguardare il diritto allo studio. Danilo Dolci scriveva, in uno edi suo libri: "fate bene e presto, perché qui si muore".



Enrico Bartolomei

Birzeit, Palestina sotto apartheid, giovedì 16 agosto.

venerdì 27 agosto 2010

bandiera del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina

Da chi prende esempio Abu Mazen?

Ramallah, 26 agosto 2010, Nena News - E’ vietato in Cisgiordania mettere in discussione le decisioni del presidente dell’Anp Abu Mazen. L’altra sera a Ramallah i servizi di intelligence dell’Anp, hanno impedito ad alcune centinaia di persone di partecipare ad una conferenza, promossa dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) e da altre formazioni della sinistra palestinese, che prevedeva la presenza di una serie di esponenti politici contrari alla ripresa dei negoziati diretti tra Abu Mazen e il premier israeliano Netanyahu, prevista il 2 settembre a Washington. Gli agenti hanno circondato la sala dove doveva tenersi la confe! renza e costretto ad allontanarsi i presenti, alcuni dei quali sono stati malmenati e minacciati. «Volevamo soltanto discutere dei negoziati diretti ed esprimere il nostro dissenso nei confronti di una decisione (di Abu Mazen) che non condividiamo e che riteniamo dannosa per le aspirazioni del popolo palestinese», ha raccontato la parlamentare del Fplp, Khalida Jarrar. Le forze di sicurezza hanno anche impedito ad alcuni ricercatori del centro per i diritti umani al Haq di filmare quanto stava accadendo. «Tutto ciò conferma l’aggravarsi del clima di intimidazione che si è creato in Cisgiordania e la trasformazione dell’Anp in uno stato di polizia», ha denunciato al Haq. L'accaduto è stato condannato dai dirigenti di Hamas a Gaza, che avevano organizzato un'analoga iniziativa nella Striscia con un collegamento in videoconferenza tra i due eventi. (red) Nena News
------------------------------------------------

Abu Rhame

E la chiamano democrazia....

Roma, 26 agosto 2010, Nena News – L’Unione europea «considera Abdallah Abu Rahme un difensore dei diritti umani, impegnato in una protesta non violenta contro il tracciato della barriera di separazione nel suo villaggio di Bilin, in Cisgiordania». Lo ha scritto l’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Catherine Ashton, in un comunicato ufficiale di protesta per il verdetto di condanna pronunciato martedì dalla corte militare israeliana di Ofer contro l’attivista palestinese e leader della lotta popolare contro il muro israeliano, arrestato lo scorso 10 dicembre. L’Ue, ha aggiunto Ashton, &! laquo;considera illegale il tracciato del muro costruito sulle terre palestinesi» e nota «che la possibile detenzione di Abu Rahme abbia lo scopo di impedire a lui e ad altri palestinesi di esercitare il proprio legittimo diritto di protesta non violenta contro l'esistenza di muri di divisione».

La condanna è una evidente «punizione esemplare» nei confronti del leader di una battaglia non violenta che tanti sostegni riceve all’estero e tra i pacifisti israeliani, e, allo stesso tempo, un avvertimento nei confronti di tutti i palestinesi che si battono contro il muro tra Ramallah e Betlemme. Abu Rahme è stato trovato «colpevole» di «incitamento» e «organizzazione e partecipazione a manifestazioni illegali». Durante il processo, durato ben otto mesi, erano decadute nei suoi confronti le accuse di «lancio di sassi» e «sequestro di militari (israeliani)». Ma la mano della magistratura militare si è rivelata ugualmente pesante. L’esponente palestinese è stato condannato anche per «raccolta illegale» di bossoli di proiettili e contenitori di gas lacrimogeni sparati dai soldati israeliani durante le manifestazioni, allo scopo di ! metterli in mostra nel museo della resistenza popolare di Bilin.

A settembre, quando si conoscerà la sentenza definitiva, l'attivista palestinese potrebbe essere condannato fino a dieci anni di carcere, solo per aver organizzato manifestazioni popolari non violente. Abu Rahme, un anno prima del suo arresto aveva ricevuto a Berlino una onorificenza per aver operato in difesa dei diritti umani dall'International League for Human Rights. Nei mesi scorsi l’esercito israeliano aveva lanciato una pesante campagna repressiva nei confronti dei leader della protesta non violenta contro il muro. Dietro le sbarre erano finiti, oltre ad Abu Rahme, diversi attivisti palestinesi, tra i quali il giornalista Jamal Jumaa, fondatore di «Stop the Wall». (red) Nena News

domenica 22 agosto 2010

muro di Gilo

DUE VERITA'- Come la realtà palestinese viene vergognosamente stravolta dai media

(ANSA) - GERUSALEMME, 15 AGO - L'Esercito israeliano ha iniziato a smantellare

il muro di protezione contro il lancio dei razzi nel rione di Gilo, a

Gerusalemme. I militari hanno annunciato in un comunicato 'il ritorno della

calma' nel settore, e iniziato la rimozione dei blocchi di cemento collocati

nel 2001, dopo lo scoppio della seconda Intifada nell'autunno del 2000. Il muro

e' composto da circa 800 blocchi di cemento piazzati lungo 600 metri di

perimetro.



La notizia è non è del tutto vera e si devono fare delle aggiunte per amore della verità : nella notizia non si dice che questa barriera di protezione alta 2 metri e costruita accanto alle prime case di Gilo, verrà sostituita con una barriera di 8 metri che verrà costruita direttamente dentro la terra della Parrocchia di BetJala e quindi circa 200 mt più avanti rubando una intera valle e tanti campi di ulivi. In questi giorni i lavori per la costruzione della barriera stanno proseguendo senza sosta e soprattutto senza rispetto di nulla, né degli alberi di ulivi, né dei parchi giochi per i bambini, né degli orti di alcune nostre famiglie. E tutto questo non è giusto e per questo siamo rattristati e proviamo amarezza nel sentire come in Italia siano date queste notizie dalla Terrasanta. Purtroppo la notizia che finalmente anche a Gerusalemme i muri cadono è falsa perché la verità che noi vediamo con i nostri occhi e subiamo sulla nostra pelle è un’altra e questa non vien mai detta. Ci domandiamo il perché ?

Chiediamo a tutte le persone che ancora hanno a cuore il bene di tutti, di protestare ed indignarsi con chi continuamente stravolge la realtà...e se riuscite, provate anche a scrivere ai vari giornali chiedendo di venire a vedere la realtà e raccontare la verità !!!

Chi di voi conosce BetJala sa che questa piccola comunità a vissuto in questi anni con molta dignità il furto continuo di terre, lo strangolamento da parte delle colonie ( la stessa Gilo, va detto per amore della verità, è una colonia costruita sulla terra di BetJala)...in questi giorni stanno costruendo migliaia di case in un nuovo insediamento chiamato Har Gilo sulla cima della collina di BetJala, hanno devastato la bellissima collina di Cremisan ( luogo famoso per i salesiani e per il vino...)...e tante altre cose che nessuno racconta mai...ma ora è proprio troppo, ora non è accettabile che facciano i belli raccontando a tutti che hanno tolto il muro quando non è assolutamente vero...anzi è tutto il contrario !!! VERGOGNA !!!!!!!!!!



Un abbraccio anche a nome del mio parroco che non ce la fà più nemmeno a protestare e mi ha incaricato di dargli voce !!!
Abuna Mario

--

venerdì 20 agosto 2010

A proposito della Mavi Marmara e dei furti ai danni degli attivisti

Ora sono sette i militari israeliani coinvolti nei furti di computer, carte di credito e telefonini degli attivisti che erano a bordo delle sei navi della Freedom Flotilla arrembata lo scorso 31 maggio in acque internazionali dalla Marina militare israeliana - con un bilancio di nove civili turchi uccisi - mentre cercava di rompere il blocco marittimo della Striscia di Gaza. Secondo l'edizione online del quotidiano Haaretz, gli ultimi a finire in manette sono stati un tenente, sospettato di aver rubato e ricettato diversi laptop, e due soldati (poi rilasciati, ma comunque rinviati alla Corte marziale! ) accusati di averglieli comprati. In precedenza era stato arrestato un altro tenente, per il furto di almeno 4 computer, mentre tre soldati erano stati fermati ed interrogati per averlo aiutato nella ricettazione di parte del bottino. Gli attivisti avevano denunciato subito la sparizione di computer e telefonini, ma anche di portafogli ed effetti personali, sottratti dai militari durante l'arrembaggio. In particolare a protestare era stato il documentarista e giornalista Manolo Luppichini, uno dei sei italiani sequestrati in mare dai commando israeliani il 31 maggio e rimasto incarcerato per alcuni giorni. «Spesa di 52,61 euro, R. M. Village Market, Gedera (4 giugno, ore 11.14)», aveva trovato scritto sull'estratto conto della sua carta di credito Luppichini. Come era possibile? Si domandò visto che quel giorno il suo passaporto, le carte di credito, le videocamere e il materiale girato erano sotto sequestro delle autorità israliane. «Sono rientrato in Italia il 3 giugno – raccontò Luppichini –e sono andato subito in banca per bloccare la carta, ma dai tabulati risulta che è stata utilizzata in Israele il 4 giugno, quando io ero già rientrato». Chi era andato a spendere quei soldi in un autogrill poco lontano da Ashdod, il porto dove erano state portate con la forza le navi pacifiste? «Non abbiamo idea di che cosa sia successo», replicò sdegnato il portavoce del ministero degli esteri israeliano Yigal Palmor che invitò Luppichini a rivolgersi alla sua banca. E invece, come si era capito sin dall’inizio, la risposta all’interrogativo era proprio in Israele. Gli arresti di militari, ai quali potrebbero seguirne altri, gettano nuove gravi ombre sulle Forze Armate israeliane di solito descritte come "le piu' morali del mondo" dai comandi israeliani e che, peraltro, negli ultimi anni, specialmente durante la guerra in Libano del 2006 e l'offensiva Piombo Fuso contro Gaza del dice mbre 2008, sono state accusate da piu' parti di crimini di guerra. A contribuire ulteriormente al "buon nome" all’esercito israeliano c’è anche Eden Abergail. L’ex soldatessa, dopo essere stata criticata ad inizio settimana per aver messo in rete foto che la ritraggono sorridente accanto a prigionieri palestinesi bendati e ammanettati, ha dato sfogo al suo ultranazionalismo scrivendo sul suo profilo in Facebook «Sarei felice di uccidere gli arabi - anche di massacrarli...nella guerra non esistono regole».

Intanto l’ambasciatore cipriota a Beirut ha avvertito che il suo paese rispedirà indietro la nave libanese «Mariam» con a bordo decine di donne, che domenica sera salperà dal porto di Tripoli per Cipro e subito dopo farà rotta per Gaza. L'organizzatrice della spedizione marittima, Samar al-Hajj, ha ribadito la volontà delle attiviste di rompere l'assedio navale israeliano. «Siamo determinate ad andare avanti nonostante la posizione cipriota – ha detto al Hajj - A bordo ci sono infermiere, dottoresse, giornaliste, donne cristiane e musulmane», ha spiegato. Tra loro anche la famosa cantante libanese May Hariri e un gruppo di infermiere dagli Stati Uniti.(red) Nena News

mercoledì 18 agosto 2010

Lettera aperta

Una lettera aperta a tutti coloro che sostengono la famiglia di Shalit
Sabato 24 Luglio 2010 16:54 Yossi Schwartz
| Stampa |

Associazione di Amicizia Italo-Palestinese, 22 luglio 2010

Dissident voice
19.07.2010


Se il prezzo per il rilascio di mille prigionieri politici Palestinesi è un soldato Israeliano che ha partecipato all’assedio criminale di Gaza, che vada pure cosi.

Noam e Aviva Shalit

Voi capite che il governo Israeliano è responsabile del fatto che Shalit è ancora prigioniero perché il governo di Netanyahu rifiuta di liberare i prigionieri Palestinesi che chiede Hamas. Voi volete scambiare Shalit perché ai vostri occhi la vita di un Israeliano vale molto di più di quella di mille Palestinesi. Finché continuerete ad avere questa ottica razzista, rimarrete prigionieri dello stato d’Israele. Tutti gli 11.000 prigionieri politici Palestinesi dovrebbero essere liberati, perché appartengono a una nazione che lotta contro l’oppressione di cui fate parte.

Quello che non capite è che lo stato d’Israele è responsabile dell’assedio criminale di Gaza, in cui 1 milione e mezzo di persone vivono in una enorme prigione all’aria aperta, la maggior parte di loro rifugiati espulsi dallo stato d’ Israele nel 1947-48 e loro discendenti. Non avete chiesto che l’assedio finisse, o il ritorno degli sfollati Palestinesi, o la liberazione di tutti i prigionieri politici Palestinesi – perché credete ancora che il nemico sia la nazione Palestinese e in particolare coloro che hanno sfidato lottando contro la loro oppressione.

Voi credete che Hagana, Etzel e Palmach, organizzazioni che hanno usato il terrore contro i Palestinesi, siano stati combattenti per la libertà, ma che i Palestinesi che stanno lottando per la loro libertà siano terroristi.

Voi non capite che non è il popolo Palestinese che è il vostro nemico ma lo stato razzista imperialista, Israele. Uno stato che non solo sta opprimendo i Palestinesi ma è una trappola mortale per voi fino a che sosterrete e vi identificherete in questo stato.

Shalit vi pare un soldato innocente che ha fatto il suo dovere. Non vedete che questo cosiddetto dovere è stato un delitto. Comprendete il dolore che prova la famiglia Shalit. Non possono averlo con sè, parlargli, o essere sicuri che sta bene. Ma dobbiamo comprendere anche il dolore delle famiglie di 11.000 prigionieri politici Palestinesi trattenuti nelle galere Israeliane. Non possono vedere i loro figli, parlare con loro, o essere sicuri di non essere torturati.

Non sentiamo che anche voi incominciate ad immaginare il dolore delle famiglie Palestinesi. Da quattro anni siete preoccupati per Shalit, ma non lo siete mai stati per la sofferenza della popolazione di Gaza.
Il messaggio che sentiamo e vediamo da parte vostra è differente. Volete essere sicuri che se vostro figlio o fratello è mandato a commettere un crimine per serivire lo stato d’Israele, allora lo stato farà tutto il possibile per liberarlo – in modo che sia in grado di commettere un altro delitto. `Chiedo al Primo Ministro Netanyahu di ascoltare la nazione e fare di più di quello che ha fatto per liberare mio fratello,` ha detto Yoel Shalit ai suoi sostenitori al college di Herzliya.

Il presidente del Centro Interdisciplinare, Uriel Reichman, ha detto: ` Ci sono persone che hanno detto che questa ondata di protesta è un segno di debolezza. E’ vero il contrario. Ciò che sta succedendo qui è un’espressione della forza Israeliana e del principio che tutti gli Israeliani sono responsabili uno per l’altro.`

Volete un Israele imperialista forte, e pensate che il modo di garantire che Israele sia forte è che ogni soldato che opprime i Palestinesi e che viene catturato abbia una politica rassicurante garantita dallo stato.
Fino a quando continuerete a pensare e sentire questo, non solo gli operai e i contadini Palestinesi e Arabi del Libano e di Gaza, della Cisgiordania e negli altri stati della regione soffriranno grazie allo stato d’ Israele – ma non sarete mai sicuri e liberi, perché coloro che opprimete non potranno esserlo.

Israele non è diverso dal regime di apartheid che esisteva in Sud Africa. I Palestinesi sono i neri della Palestina e gli Israeliani gli Afrikaners della Palestina. Gli Ebrei hanno sofferto in Europa, ma i Palestinesi stanno soffrendo in questo paese che è stato loro rubato. Vivete sulle loro terre e nelle loro case o sulle macerie delle loro dimore. Fino a quando non vedrete questo sarete i prigionieri dello stato d’Israele e delle nazioni imperialiste che lo sostengono. Vi useranno come mercenari per combattere per i profitti e il controllo politico della regione da parte delle grandi multinazionali.

Non dovete farlo. Potete vivere in questo paese come persone libere e sicure. Ma questo succederà soltanto quando starete dalla parte dei Palestinesi oppressi e lotterete con loro per uno stato diverso – una nazione in cui non vi sia razzismo, senza un’oppressione nazionale e sfruttamento dei lavoratori. Che significa uno stato di lavoratori che faccia parte di una Federazione Socialista del Medioriente. I Palestinesi, sfollati compresi, sono ben più numerosi di voi, e uno stato di lavoratori sarà Palestinese. Sì, dovrete vivere come una minoranza in Palestina. Ma ci guadagnerete in sicurezza ed eguaglianza. Non avrete più paura per la vita dei vostri cari. Potrete vivere in solidarietà con i Palestinesi.

Sappiamo che la gran parte di voi dirà che questo non accadrà mai. Sbagliate – i giorni in cui Israele era uno stato molto potente sono passati. Israele e chi lo sostiene, gli USA, sono potenze in declino. Il futuro – se l’umanità sopravvviverà – appartiene ai lavoratori e agli oppressi. Il vostro futuro è soltanto con loro, non come padroni ma come fratelli e sorelle

Yossi Schwartz fa parte dei Lawyers for Palestinian Human Rights (Avvocati per i Diritti Umani dei Palestinesi, ndt, Canada) e del Bar of Ontario and Israel (Ordine dell’Ontario e di Israele) e abita attualmente in Israele.



Testo inglese in http://dissidentvoice.org/2010/07/an-open-letter-to-all-who-supports-shalit%E2%80%99s-family/ - tradotto da Leonhard Schaefer

toponomastica

Pulizia etnica anche per i cartelli stradali

Neanche il diritto a un nome

di Christian Elia

Il governo d'Israele annuncia che la toponomastica sarà solo in ebraico, anche per Gerusalemme

Né Jerusalem né al-Quds. Da oggi in poi Gerusalemme, la città santa per le tre grandi religioni monoteiste, avrà solo il nome ebraico: Yerushalaim. Lo ha riferito ieri il quotidiano israeliano Yediot Ahronot, citando il ministro dei Trasporti e della Sicurezza Stradale israeliano Israel Katz, esponente del partito Likud.

La guerra dei cartelli. ''Per me è inaccettabile che Gerusalemme venga indicata nella cartellonistica con il nome nelle tre lingue: inglese, arabo ed ebraico. Ci sarà solo quello ebraico''. Così Katz ha commentato la sua iniziativa, che lo stesso giornale definisce ideologica. L'esponente del Likud non è nuovo a questo genere di esternazioni. La stessa iniziativa della 'pulizia etnica' dei cartelli stradali e della toponomastica è iniziata un anno fa, ma da quando Katz è stato nominato al dicastero dei Trasporti l'iniziativa ha conosciuto nuova vita, nonostante le polemiche. Nella stessa intervista, Katz ha dichiarato che la decisione non riguarderà solo Gerusalemme, ma anche Nasera che diventerà Nazareth ed Akka che diventerà Akko. In realtà è più corretto dire che rimarranno solo con il nome ebraico, perché gli israeliani le chiamavano già così.

Campagna anti-araba. L'iniziativa è solo l'ultimo passaggio di una campagna che la comunità arabo-israeliana vive come un vero e proprio affondo. L'iniziativa dei cartelli segue quella del 'giuramento di lealtà' al quale, secondo l'attuale ministro degli Esteri Lieberman, gli arabo-israeliani dovrebbero sottoporsi e il divieto di qualsiasi commemorazione della Nakhba, la catastrofe, come i palestinesi chiamano la nascita dello Stato d'Israele.
''Quando di Katz non si ricorderà più nessuno, al-Quds esisterà ancora'', commentava ieri uno dei deputati arabo-israeliani della Knesset, il parlamento israeliano.

Conflitto anche per gli spot. La tensione tra la comunità arabo-israeliana e il governo, però, è molto alta. Ogni situazione viene vissuta come un attacco dagli arabi che all'interno d'Israele si sono sempre sentiti cittadini di seconda serie. Ultima polemica quella attorno all'ultimo spot pubblicitario della compagnia di telefonia mobile Cellcom. Il video mostra alcuni soldati israeliani che, vicino alla loro camionetta, pattugliano una zona nei pressi del muro che Israele ha costruito in Cisgiordania. A un certo punto arriva dall'altra parte del muro un pallone e i militari lo rimandano dall'altra parte. Comincia una sorta di partita tra persone che non si vedono.
''Dopo tutto cosa cerchiamo noi? Solo un po' di divertimento'', dice la voce fuori campo che chiude lo spot. Ahmed Tibi, deputato arabo-israeliano, ha chiesto il ritiro dello spot, perché a suo dire è l'ennesima dimostrazione di come Israele non si renda conto del dramma dei palestinesi.

mare di Gaza

IL blocco israeliano a Gaza uccide in mille modi

C’è qualcosa nell’acqua: l’avvelenamento della vita nella Striscia di Gaza.

The Palestinian Centre for Human Rights (PCHR)

Migliaia di palestinesi affollano le spiagge di Gaza nonostante sappiano che il mare è fortemente inquinato. Privati della possibilità di muoversi al di là della stretta zona costiera, il mare – con il quale gli abitanti di Gaza hanno un profondo legame culturale – spesso rappresenta l’unica occasione per evadere dall’oppressione psicologica dell’occupazione
Gaza City, Palestina – I cartelli che punteggiano la spiaggia del litorale di Gaza City sono chiari, su di essi c’è scritto: “QUESTA SPIAGGIA E’ INQUINATA”, eppure sembra che vengano interpretati solo come ostacoli con i quali si vuole impedire le corse dei bambini verso il mare, piuttosto che un avvertimento da tener di conto di gravi rischi per la salute connessi con la balneazione in questa zona. Per coloro che accampano dubbi sulla veridicità dei cartelli, dovrebbero solo fare una passeggiata per un paio di centinaia di metri lungo la spiaggia verso nord per vedere liquame non depurato che viene riversato direttamente nel mar Mediterraneo da una delle sedici discariche lungo la costa. [1]

Malgrado tutto ciò a migliaia riempiono le spiagge e il mare di Gaza in barba agli evidenti pericoli.

Per 1,5 milioni di palestinesi intrappolati nella Striscia di Gaza, privati della loro libertà di movimento, sfiniti dagli effetti del blocco imposto da Israele che pervadono ogni aspetto della quotidianità, il mare rappresenta una delle poche fonti di respiro disponibili per la loro vita, e per un popolo al quale sono stati negati tutti i mezzi per il proprio sostentamento economico, questa è una di quelle attività che risultano accessibili a loro disposizione. Il mare gioca un ruolo integrante nella vita di queste comunità sparse lungo la costa: è il luogo dove pescare, dove giocare e dove radunarsi con la famiglia. L’importanza del mare per il popolo di Gaza non può essere compreso: “Senza il mare, Gaza non esiste,” spiega Abdel Haleem Abu Samra, funzionario delle Pubbliche Relazioni del Centro Palestinese per i Diritti Umani della sezione di Khan Younis.

La stretta relazione che i palestinesi di Gaza condividono con il mare, a maggior ragione, rende così sconfortante e sconcertante lo stato attuale delle spiagge di Gaza. A causa degli effetti dovuti alla chiusura totale imposta da Israele nel 2007 – e tra questi, in primo luogo, una totale carenza di materiali da costruzione per realizzare nuovi impianti per il trattamento dei liquami o la mancanza di pezzi per riparare quelli esistenti, come pure una penuria estrema di carburante e di elettricità necessari per gestire i necessari cicli di trattamento delle scorie – Monther Shoblak, Direttore generale del servizio idrico del litorale della municipalità ritiene che vengano riversati ogni giorno direttamente nel Mar Mediterraneo una media di 20.000 metri cubi di liquame non trattato, sebbene in alcune aree queste cifre raggiungano i 70.000-80.000 metri cubi al giorno. [2]

Oltre a sporcare le rive di Gaza una volta pulite, le conseguenze dannose del deterioramento delle operazioni di trattamento dei liquami causate dalla chiusura comportano ben più gravi implicazioni: la Striscia di Gaza sta venendo letteralmente avvelenata. Il 90% dell’acqua disponibile a Gaza proveniente esclusivamente dalla propria sorgente - la falda acquifera costiera – è imbevibile, e il livello dei nitrati e dei cloruri raggiunge un livello sei/sette volte gli standard internazionali di sicurezza fissati dall’Organizzazione Mondiale per la Salute (WHO). In quanto direttore dell’operazione che ha lo scopo di rendere pulita l’acqua a Gaza, Monther avrebbe il compito di porre rimedio a questo avvelenamento, ma, come un medico senza medicine, c’è poco che esso possa fare finché gli strumenti necessari gli vengono negati e si vanifica ogni suo intervento a seguito delle condizioni di blocco che sono state messe in atto, sotto varie forme, a Gaza da Israele fin dal 1991.

Come tutti i palestinesi di Gaza, Monther e il suo gruppo di lavoro presso i Servizi Idrici delle Municipalità della Costa, sono costretti a improvvisare, per riuscire a fare con molto poco; pochi altri, forse, devono fare così tanto con così tanto poco. Non ha solo il compito di disfarsi dei liquami prodotti in tutta questa stretta striscia di terra da 1,5 milioni di persone, ma anche a accertarsi che abbiano accesso ad acqua pulita sicura. Quella è la più piccola tra le preoccupazioni di Monther, circa l’80% della popolazione di Gaza vive in campi profughi che sono aree che hanno una densità tra le più elevate sulla terra, laddove un impianto adeguato è raro e sono diffuse le condizioni per malattie trasportate dall’acqua: per più di tre anni fino ad ora, Monther è stato costretto a dirigere i suoi lavori, mentre veniva privato delle risorse necessarie per poterlo fare, con l’ostinazione al posto del cemento e l’ingegnosità invece dell’approvvigionamento di acqua pura. Monther fa analogie tra la difficile condizione a Gaza degli impianti per il trattamento dei liquami, con quella di un vecchio carro che è costretto ad un uso continuo nonostante vengano negate le parti di ricambio che sono necessarie per la manutenzione: alla fine il mezzo va in rovina e comincia a sputare spruzzi di fumo nero, altamente inquinato – un’immagine particolarmente pertinente a Gaza, dove benzina adulterata rappresenta la normale alimentazione delle auto a causa del marcato blocco del carburante imposto dalla chiusura israeliana.

Ad aggravare la sfida che Monther e il suo gruppo di lavoro devono affrontare sta il fatto ch’essi devono adeguare anche gli impianti per il trattamento dei liquami a Gaza, che si stanno deteriorando, a una popolazione in rapida crescita che, conseguentemente, produce un rapido incremento del volume delle acque di scolo. Gli impianti attuali per il trattamento dei liquami a Gaza erano stati costruiti per una capacità operativa di 32.000 metri cubi di acque reflue al giorno. Con un tasso di crescita che è uno dei più alti al mondo – stimato essere annualmente del 3,6% - la popolazione di Gaza in aumento ha sopraffatto la capienza degli impianti per il trattamento delle acque reflue, e Monther valuta che al momento essi stiano ricevendo giornalmente almeno 65.000 metri cubi di acque di scarico. Impossibilitati ad accogliere più della metà dell’immissione di queste, una gran quantità di liquame viene riversato direttamente in mare, dove viene scaricato del tutto non trattato. Gran parte di queste acque di scolo rifluisce indietro verso le rive di Gaza, inquinando le spiagge e creando condizioni di tossicità per il nuoto per gli innumerevoli bambini ed adulti in cerca di una via di fuga dall’intensa calura estiva.

Da nessuna parte lo stato di deterioramento del funzionamento degli impianti per le acque reflue di Gaza è più evidente che a Beit Lahia, nella regione settentrionale della Striscia. Uno dei tre impianti per il trattamento dei liquami della Striscia di Gaza, la stazione di Beit Lahia riceve più di 25.000 metri cubi al giorno, quasi il doppio della sua capacità operativa. Esacerbando il problema, l’impianto è tagliato fuori dall’accesso al mare, per cui le acque reflue non trattate si riversano direttamente nell’area circostante, creando un pozzo nero – letteralmente un lago di liquami – che attualmente si estende su circa 450 dunum [1 dunum è pari a 0,5 acri]. La stazione di Bei Lahia si pone come uno degli esempi tra i più estremi di disastro ambientale e sanitario che la politica di chiusura israeliana ha prodotto nella Striscia di Gaza. Le conseguenze del lago di liquami sono state fatali non solo perché, nel 2007, si ruppe l’argine del lago e il successivo allagamento uccise cinque persone: la contaminazione delle acque sotterranee nel nord della Striscia di Gaza, causata dall’inquinamento, ha comportato un conseguente innalzamento del livello dei nitrati, in alcune zone, a sette volte oltre gli standard internazionali per la salute del WHO.

“I nitrati sono un assassino silenzioso,” dice Monther: sono incolori, inodori e insapori, ma quando vengono consumati a livelli persino molto più bassi di quelli presenti a Gaza, con la continua ingestione di nitrati si determina una riduzione nella provvista di ossigeno in tessuti vitali quali quelli del cervello. L’ingestione di nitrati è particolarmente pericolosa nei bambini per i quali si possono verificare danni al cervello ed eventualmente la morte. Informazioni relative alle conseguenze a lungo termine al riguardo per la gente di Gaza non se ne hanno ancora, tuttavia, poiché, come ha affermato un donatore: “In nessun’altra parte del mondo c’è una quantità di persone talmente grande che è esposta a livelli di nitrati così elevati per un periodo di tempo così lungo. Non ci sono precedenti e nessun tipo di studio che ci possa aiutare a capire che cosa succederà alla gente nel corso degli anni a causa dell’avvelenamento da nitrati.” [3]

Le implicazioni della popolazione di Gaza in ascesa rappresentano perciò anche serie preoccupazioni per l’altro aspetto del compito di Monther, il quale consiste nel fornire acqua da bere pura e pulita alla popolazione della Striscia di Gaza. La falda acquifera costiera, che scorre sottoterra lungo gran parte della Striscia, è l’unica fonte di acqua potabile di Gaza e la sua risorsa naturale più importante. Storicamente, questa falda acquifera ha funzionato da linfa vitale per la popolazione di Gaza e ha dato adito alla crescita dell’agricoltura, in particolar modo a coltivazioni di agrumi per i quali è famosa la Striscia di Gaza. Nel passato, prima dell’imposizione della politica di chiusura da parte di Israele nei primi anni 1990, si sarebbe potuto scavare un buco entro 100 metri dalla spiaggia e trovare acqua potabile, dice Monther; ora, precisa, il CMWU [Coastal Municipalities Water Utility] è stato costretto a emettere un avviso contro la perforazione di pozzi entro due chilometri dalla riva, il quale, formulato in concomitanza con l’imposizione unilaterale della “zona cuscinetto” da parte delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) sul confine di Gaza con Israele – dichiarato tacitamente a 300 metri, ma applicato talvolta fino a distanze molto maggiori – ha fatto sì che resti poco spazio per l’estrazione dell’acqua.

Per quanto possa sembrare un intralcio, la ragione che sta dietro la disposizione è perfino più preoccupante: la falda acquifera è inquinata, avvelenata dai liquami ed esaurita dall’incremento della popolazione, e non può più rifornirsi ulteriormente. Solo il 10% dell’acqua della falda al momento corrisponde agli standard internazionali per il consumo e, se non ci saranno dei cambiamenti, Monther teme che tale valore possa scendere presto allo 0%. Un rapporto dell’UNEP [United Nations Environment Programme] pubblicato nel settembre del 2009 ha precisato che l’estrazione dell’acqua è approssimativamente il doppio della capacità della falda . [4] Di conseguenza, spiega Monther, la gente di Gaza sta scavando pozzi in maggior numero e a maggiore profondità, inquinando ulteriormente la falda con acqua proveniente dalla falda idrica salina a est di Rafah, nella zona meridionale della Striscia di Gaza, e con quella proveniente dal mare.

Di fronte a questo rapido deterioramento della situazione, e negate da Israele le risorse con le quali affrontarlo, Monther e il suo gruppo sono stati costretti ad adottare mezzi non convenzionali per affrontare il problema delle acque reflue di Gaza. Nelle città meridionali di Gaza, Rafah e Khan Younis, spiega Monther, la situazione delle acque reflue aveva raggiunto un livello critico: come a Beit Hanoun, gli escrementi stavano venendo gettati direttamente nel terreno che circonda le città, in quanto la zona è priva sia di un impianto adeguato per il trattamento degli escrementi, che dei materiali che necessiterebbero per costruirli. In risposta alla crisi, che ha minacciato di impedire la possibilità di accedere all’acqua da bere sicura per una popolazione complessiva di 350.000 persone, Monther e il suo gruppo si sono rivolti a una pratica impiegata da molti palestinesi in una Gaza attorniata da macerie lasciate dall’ultima offensiva di Israele: hanno cominciato a raccogliere aggregati dai vicini resti della Philadelphia Route, il confine tra Gaza e l’Egitto che era stato parzialmente distrutto nel 2008 quando migliaia di palestinesi erano fluiti in Egitto alla ricerca di cibo e di provviste. Con queste risorse di seconda mano, il CMWU era stato in grado di costruire ciò che Monther riporta come un “impianto quasi all’avanguardia.” Sebbene i cloruri – l’altro aspetto del problema dell’inquinamento che avvelena l’acqua di Gaza – nella zona meridionale siano ad un livello sei volte lo standard internazionale, Monther ritiene che “stanno salvando la città di Khan Younis con l’affrontare i livelli in crescita dei nitrati e rimuovere i liquami non trattati dalle aree urbane densamente popolate.”

In tal modo, Monther e il suo gruppo di lavoro al CMWU danno continuità ai loro sforzi per purificare l’acqua di Gaza, ma, egli ammette, “sappiamo che non sono sufficienti: l’acqua a Gaza si deteriora rapidamente. Fintantoché non troviamo un’altra fonte di acqua, la popolazione di Gaza resta a un alto livello di rischio.” Per ora, l’avvelenamento della Striscia di Gaza continua, e, fintantoché continua il blocco, c’è poco da fare per fermarlo nonostante tutti gli sforzi e l’uso dell’ingegno. Il trattamento delle acque reflue di Gaza non può progredire finché Israele pone restrizioni ai materiali di base per le costruzioni e a congrui livelli di carburante e di elettricità, e, con una popolazione in crescita che sovraccarica la capacità degli impianti attuali, le operazioni di trattamento delle acque reflue di Gaza possono solo deteriorarsi. Come ha concluso nella relazione alla missione Desmond Travers, un membro della missione d’inchiesta delle Nazioni Unite sul conflitto di Gaza: “Se questi problemi non dovessero essere presi in considerazione, Gaza potrebbe divenire perfino non abitabile secondo gli standard del WHO,” [5] e il rapporto di settembre dell’UNEP ha avvertito che il danno che si sta provocando ora “ potrebbe richiedere secoli per essere annullato” [6]. Finché continua il blocco, tuttavia, la popolazione di Gaza resta incapace di combattere questi problemi; non ha altra scelta che aspettare, trascorrendo il tempo sulla spiaggia, cercando di ignorare l’inquinamento che si accumula attorno.

Israele già nella UE?

ISRAELE S’ INTRUFOLA NELL’UNIONE EUROPEA, MA NESSUNO SE NE ACCORGE
di Robert Fisk
independent.co.uk

La morte di cinque soldati israeliani 2 settimane fa a causa di un incidente d’elicottero in Romania ha fatto notizia.
Si trattava di un esercitazione NATO- Israele.

Bene, immaginate ora se a morire in un incidente d’elicottero in Romania fossero stati cinque soldati di Hamas. A questo punto staremmo ancora ad indagare sull’accaduto.

Nella foto di Abbas Momani: alcuni soldati israeliani sparano su dei palestinesi durante una manifestazione contro l’attacco a Gaza dell’anno scorso.

Come potrete notare, non è nelle mie intenzioni paragonare Israele ad Hamas. Basti pensare che il primo è il Paese che nel giro di 19 mesi ha massacrato in tutta legittimità più di 1300 palestinesi, di cui 300 bambini, nella striscia di Gaza; mentre i succhiatori di sangue e terroristi membri di Hamas, si sono limitati ad uccidere 13 israeliani ( 3 di questi si sono uccisi accidentalmente tra di loro).

Ma c’è un parallelo. Richard Goldstone, l’eminente giudice ebreo sudafricano che ha stilato per l’ONU un rapporto di 575 pagine sul bagno di sangue a Gaza, ha dichiarato che entrambe le parti hanno commesso crimini di guerra. Il che non è piaciuto ai sostenitori d’Israele negli USA, indignati dalle parole del “Cattivo”. Il suo eccellente rapporto è stato rifiutato da ben 7 governi dell’UE, pertanto una domanda nasce spontanea: come deve comportarsi la NATO quando gioca a combattere contro un esercito già accusato di crimini di guerra?

O più precisamente, cosa fa l’Unione Europea quando cerca di immischiarsi nelle faccende d’Israele?

In un libro straordinariamente dettagliato- forse leggermente esasperante- che uscirà a novembre, l’instancabile David Cronin presenta un’analisi minuziosa sui “nostri” rapporti con Israele. Ho da poco terminato la lettura del manoscritto, e mi ha lasciato senza parole.

Scrive nella premessa: “ Israele ha sviluppato dei legami politici ed economici con l’UE negli ultimi 10 anni talmente forti da divenirne quasi uno stato membro, senza farlo percepire.” A dir la verità è stato lo stesso Javier Solana, capo della politica estera dell’Unione Europea (già segretario generale della NATO) a dichiarare lo scorso anno che “Israele, è di fatto un membro dell’UE, ma senza essere membro dell’istituzione”

Scusate, per caso ne eravamo a conoscenza? Abbiamo votato per la sua ufficiosa introduzione? Chi ha autorizzato tutto questo?

È possibile che David Cameron, adesso convinto sostenitore dell’ingresso della Turchia nell’UE, sia d’accordo con quanto accaduto? Probabilmente sì, visto che ha continuato a dichiararsi amico d’Israele, anche dopo che questi consegnò passaporti britannici falsi a compatrioti finiti a Dubai e colpevoli di assassinio.

Cronin afferma: “ è percepibile una certa forma di viltà da parte dell’UE nei confronti d’Israele, visto e considerato che in altri conflitti a seguito di atroci avvenimenti ha sempre preso posizioni ferme e inequivocabili”. Per esempio, dopo la guerra russo-georgiana nel 2008, l’Unione Europea ha richiesto una missione indipendente per sapere se il diritto internazionale fosse stato rispettato. O ancora ha preteso un’inchiesta internazionale sulle violazione dei diritti dell’uomo al termine della guerra in Sri Lanka contro le Tigri Tamil.

Cronin non nega la responsabilità dell’Europa nell’Olocausto (ebreo) e accetta che ci sarà sempre una sorta di “dovere morale” per i nostri governi affinché non si riproducano massacri simili- peccato che abbia dimenticato di menzionare l’Olocausto armeno nel 1915 quando ha leccato i piedi ai Turchi durante questa settimana.

Tornando a noi, nel 1999 le vendite d’armi britanniche ad Israele, Paese che occupa la Cisgiordania (e Gaza) e che costruisce delle colonie illegali solo ed esclusivamente per ebrei in terra araba, hanno sfiorato gli 11, 5 milioni di sterline, per raddoppiare in due anni fino a raggiungere un totale di 22, 5 milioni di sterline. Si tratta di armi leggere, di kit di granata pronte per il montaggio e di equipaggiamenti per aerei di combattimento e per carri armati.

Qualcuno ha criticato l’uso indiscriminato da parte di Israele di carri Centurion, impiegati contro i palestinesi nel 2002, ma nel 2006, l’anno in cui Israele ha massacrato altri 1300 libanesi, quasi tutti civili, durante l’ennesima crociata contro il “terrorismo mondiale” di Hezbollah, la Gran Bretagna non ha esitato a concedergli più di 200 licenze per l’esportazione di armi.

Certamente alcune attrezzature britanniche sono dirette ad Israele passando per gli USA. Nel 2002, sempre la Gran Bretagna ha donato un “head-up display” (o semplicemente HUD, un tipo di display che permette di controllare i dati di volo, senza visualizzare i diversi strumenti di cabina), creato dalla BAE Systems per Lockheed Martin, subito istallato nei caccia-bombardieri F-16 destinati ad Israele. L’UE non ha detto una parola. È da aggiungere che nello stesso anno i britannici hanno accettato di occuparsi della formazione di 13 membri dell’esercito israeliano.

All’epoca della guerra libica nel 2006, degli aerei americani che trasportavano armi per Israele, sostavano negli aeroporti britannici (e irlandesi) per rifornirsi di carburante.

Durante i primi tre mesi del 2008, gli accordi circa le licenze di esportazione d’armi a Israele hanno raggiunto un totale di 20 milioni di sterline, in tempo per l’attacco a Gaza. Gli elicotteri Apache utilizzati contro i palestinesi, a detta di Cronin, dispongono di pezzi fabbricati da SPS Aerostructures a Nottinghamshire, Smiths Industries a Cheltenham, Page Aerospace nel Middlesex e Meggit Avionics nel Hampshire.

Devo continuare? Per citare tutto, Israele è stato persino elogiato dalla NATO per il suo aiuto “logistico” in Afghanistan, in cui il numero annuo dei morti supera il numero totale dei palestinesi uccisi dagli israeliani. Il che non sorprende affatto visto che il capo dell’esercito israeliano Gabi Ashkenazu si è presentato nella sede NATO a Bruxelles per discutere di un ravvicinamento con la stessa.

Cronin spiega in maniera convincente l’accordo finanziario in “Palestina”, un accordo stupefacente tanto da rasentare il disgustoso. I milioni di sterline di fondi europei stanziati per i progetti nella striscia di Gaza sono regolarmente distrutti dalle armi israeliane, prodotte dagli Stati Uniti. Funziona così: i contribuenti europei sborsano per i progetti, i contribuenti americani per le armi, di cui gli Israeliani si servono per la loro distruzione. In seguito i contribuenti dell’UE sborsano per la ricostruzione e gli americani…Insomma avete capito.

A proposito, Israele ha già un “programma di cooperazione particolare” con la NATO, che gli consentirebbe di accedere alle risorse informatiche dell’organizzazione.

A conti fatti, è un bene avere tra i nostri alleati un Paese solido come Israele, anche se il suo esercito massacra e commette crimini di guerra. A questo punto, perché non domandare anche a Hezbollah di unirsi alla NATO: immaginate quanto potrebbero essere benefiche le sue tattiche di guerriglia ai nostri in Afghanistan.

E poiché gli elicotteri Apache israeliani uccidono spesso dei civili libanesi- come nel 1996, quando un’ambulanza che trasportava donne e bambini è stata colpita e distrutta da un missile Hellfire A GM 114C di Boeing- speriamo che i libanesi possano sempre vedere di buon occhio i cittadini delle contee di Nottingham, del Middlesex, del New Hampshire, e sicuramente di Cheltenham.

sabato 14 agosto 2010

Proseguono le demolizioni

PROSEGUONO SENZA SOSTA LE DEMOLIZIONI DI CASE PALESTINESI
Lo dicono i dati di Ocha (Onu). A luglio le ruspe si sono accanite maggiormente: durante questo mese le autorità israeliane hanno demolito ben 140 strutture, tra case, tende, baracche, stalle, cisterne d’acqua, presidi medici e costruzioni commerciali.

Gerusalemme, 14 agosto 2010, Nena News – Circa 550 palestinesi sono finiti in strada nelle ultime settimane: questo il risultato della politica delle demolizioni di case a Gerusalemme est e nelle aree C della Cisgiordania (60 % del territorio, che gli Accordi di Oslo mette sotto pieno controllo e amministrazione di Israele), secondo i dati diffusi dall’Ocha, l’ufficio dell’Onu che si occupa di coordinare gli affari umanitari nei territori occupati palestinesi. Il mese di luglio è stato quello in cui le ruspe si sono accanite maggiormente: durante questo mese le autorità israeliane hanno demolito ben 140 strutture, tra case, tende, baracche, stalle, cisterne d’acqua, presidi medici e costruzioni commerciali. Il 13 luglio 7 case son state abbattute a Gerusalemme est, lasciando senza un tetto 25 persone, di cui 14 bambini. Allo stesso modo il 19 luglio, il villaggio Al Farisiye, nella Valle del Giordano, è stato interamente distrutto.

Le situazioni più a rischio sono quelle dei residenti in area che le autorità israeliane designano come zone militari, che sono il 18% della Cisgiordania, in particolare localizzate nei pressi delle colonie. Il trend negativo di luglio è destinato a continuare nei prossimi mesi, poiché l’Amministrazione Civile, che è il settore preposto alle demolizioni, ha confermato di aver ricevuto istruzioni dal Ministero della Difesa di portare avanti le demolizioni. A questo si aggiunge il via libera dato alle costruzioni di case dei coloni, come è avvenuto una decina di giorni fa, quando il Comitato Urbanistico del Comune di Gerusalemme ha approvato la costruzione di 40 nuove case nella colonia di Pisgat Ze’ev, a Gerusalemme est. Questo semaforo verde è arrivato nemmeno un mese dopo l’approvazione di altre 32 unità abitative nella stessa colonia. Il tutto rientra nel progetto di costruzione di 220 case da costruire a est del campo profughi di Shuafat e ad ovest dei villaggi palestinesi di Hizma e Anata.

Ai coloni quindi vengono rilasciati permessi, ai palestinesi, di contro, sono demolite le abitazioni, con la motivazione che si tratta di strutture costruite senza il permesso israeliano, e quindi sono considerate illegali dalle autorità israeliane. Ma ottenere permessi edilizi per palestinesi che abitano in area C è pressochè impossibile e a loro non resta che “l’abusivismo”, per riparare, mantenere o allargare le proprie case. Secondo il dati dell’Ocha solo l’1% della terra in Area C è destinata ai palestinesi. A Gerusalemme est solo il 13%, mentre il 35% è per le colonie israeliane. Come potenza occupante Israele è obbligato a amministrare i territori che occupa in modo da garantire benefici alla popolazione civile, assicurando la soddisfazione dei suoi bisogni primari e il rispetto dei diritti alla salute, alla casa, all’acqua e alla formazione. Invece Israele si impegna attivamente nelle demolizioni, privando intere famiglie del proprio sostegno economico e psicologico. Ocha sottolinea in particolare l’impatto devastante sulla psiche dei bambini, che sono spesso affetti da stress post-traumatico, depressione, ansia. Le organizzazioni umanitarie e gli attivisti possono agire sull’emergenza, intervenendo per impedire le demolizioni o nelle situazioni di ricostruzione. Ma ciò che serve, ripete Ocha, è un immediato stop della politica demolizioni e della deportazione della popolazione civile, e il ritorno delle famiglie alle loro case. (red) Nena News

3 volte no

Controllo dei confini/Tre volte no.
Mentre il tempo della decisione sui colloqui diretti si avvicina, il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas si trova tra l’incudine e il martello
di Akiva Eldar



All’inizio del suo ultimo incontro con George Mitchell alla Muqata’a, a Ramallah, all’incirca tre settimane fa, il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha presentato l’inviato americano ad una persona sconosciuta: “Gradirei che tu incontrassi Yasser al-Masri, capo del gruppo Takamul (Totalità), che sta chiedendo la creazione di uno stato unico sul territorio della Palestina storica.”





Abbas ha domandato ad al-Masri, un ex detenuto nelle carceri israeliane, di parlare a Mitchell di un nuovo movimento, che è costituito da studiosi universitari e da persone che provengono dai livelli intermedi di Fatah – moderati che hanno abbandonato la speranza su di una soluzione a due-stati. Questo è stato un modo non convenzionale di Abu Mazen di spedire alla Casa Bianca un’allusione sulla gravità della sua situazione politica e sul suo recente stato d’animo desolato.

Per un tempo abbastanza lungo, al-Masri ha tenuto una lezione ai suoi ospiti sorpresi sulla delusione in crescita tra la popolazione palestinese riguardo al processo di pace. Sul loro cammino verso Gerusalemme, i membri della delegazione americana hanno visto dei cartelloni pubblicitari di Takamul che caldeggiavano la creazione di un unico stato tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano. In una intervista al giornale pan-arabo Al-Hayat (27 luglio), al-Masri ha dichiarato che sebbene il 99% degli elementi di una soluzione a due-stati siano noti e siano stati trattati in modo dettagliato, iniziative quali l’Iniziativa di Ginevra stanno ingiallendo nei cassetti.

Secondo lui, sull’arena politica palestinese non c’è un leader più pragmatico e un sostenitore più entusiasta del principio a due-stati di Abbas. “Se Israele non è in grado di raggiungere un accordo con lui,” ha chiesto al-Masri, “allora con chi vuole fare la pace?”

Giudicando sulla base della pressione crescente esercitata dall’America su Abbas perché intraprenda negoziati diretti, il messaggio di al-Masri non è stato fatto proprio da Washington. E’ cosa molto dubbia che il presidente Barak Obama abbia analizzato attentamente il rapporto di Mitchell sull’ospite speciale che il presidente palestinese aveva convocato nel suo ufficio. Il Medio Oriente è stato relegato in fondo all’agenda del Presidente americano.

Sei consulenti politici (fra loro due ebrei), ai quali il The New York Times aveva chiesto di fornire a Obama una piattaforma per salvare la sua posizione pubblica, hanno scritto di economia, di sanità, di alloggi e di clima. Ma, non una parola sulle questioni di politica estera.

Il leader del mondo libero, perciò, si è accontentato del ruolo di postino tra Ramallah e Gerusalemme. Obama ha presentato al Primo Ministro Benjamin Netanyahu tre proposte alternative che Abbas ha suggerito per precisare un percorso verso i colloqui diretti. Una è l’invio di una nota diplomatica da parte di Obama a Israele e ai palestinesi nella quale egli avrebbe promesso che i negoziati si sarebbero occupati della creazione di uno stato indipendente all’interno delle frontiere del 4 giugno 1967, insieme alla moratoria sulle colonie. La seconda consiste nell’invio di una nota analoga al quartetto. Una terza opzione riguarda la convocazione di un incontro israelo-palestinese-americano allo scopo di stabilire accordi preliminari sull’autorità responsabile dei colloqui.

Obama ha informato Abbas che Netanyahu ha risposto tre volte “no”. Quindi no.

Nei giorni a venire Abbas dovrà scegliere tra l’incudine e il martello. Il martello: la sottomissione alla richiesta americana di prender parte ai negoziati senza un precedente impegno di allungare la moratoria alle costruzioni nelle colonie (così come s’ignora la sua violazione) e senza che Israele fornisca ai palestinesi la carta che descrive in modo dettagliato le loro posizioni su problemi centrali. Il prezzo: ulteriore erosione della sua posizione, tanto più che i leader di Fatah, guidati da Mahmoud Dahlan, Marwan Barghouti e Ahmed Qurei (Abu Ala), hanno chiesto a gran voce e come fossero un sol uomo di respingere la richiesta americana. L’incudine: Il rifiuto, fatto da un leader senza uno stato, di una richiesta personale avanzata dal presidente della più grande potenza del mondo. Il prezzo: un’altra vittoria per Netanyahu nella più grande arena internazionale

Che cosa merita questo governo.

Il Ministro della Difesa, Ehud Barak, non c’è necessità che resti sconvolto dalla lotta sporca per la posizione di capo di stato maggiore generale. Il Tenente Generale (in pensione) Barak può insegnare ai generali una cosa o due sui politici che sono stati reclutati – e pure sui giornalisti – contro colleghi/rivali. Conoscenza personale di prima mano. Non è stato il primo e non sarà l’ultimo a tirare tutte le corde possibili per avanzare le sue possibilità nella corsa per diventare capo di stato maggiore.

Questa settimana, un alto ufficiale della riserva ha riferito che un uomo che si è presentato come attivista della campagna di uno dei contendenti, lo ha pregato di aiutarlo a confondere la reputazione del Magg. Gen.Yoav Galant. (Lui ha rifiutato) L’uomo ha raccontato all’ufficiale che la campagna sta facendo uso, in maniera organizzata, di collegamenti con i mezzi di informazione e con la Knesset. Ovviamente se dovesse emergere che Galant ha avuto a che fare con il famigerato documento, dovrà consegnare le sue insegne di maggior generale. Tuttavia anche se riemergesse dall’affare puro come la neve, è dubbio che Galant possa risultare la persona più adatta, in questi giorni, di occupare la più importante posizione militare del paese.

In anni relativamente lontani, durante i quali ha prestato servizio come comandante del GOC (Ground Operations Command) del sud, Galant ha mostrato l’aspetto aggressivo delle forze israeliane di difesa (IDF) nei confronti dei palestinesi. Non ha mai perso l’occasione di predicare alla gerarchia militare di lasciare l’IDF senza guinzaglio e di approvare un attacco a tutto campo nella Striscia di Gaza.

Rispetto a lui, persino il diplomatico – coordinatore alla sicurezza Amos Gilad, che al momento non è ritenuto un buono a nulla per ciò che riguarda i palestinesi, viene considerato uno che fa concessioni in serie. Nell’agosto 2006, in una discussione ad una riunione dello stato maggiore generale, con la partecipazione dell’allora Ministro della Difesa Amir Peretz (attualmente un membro della Knesset per il partito laburista), Gilad aveva riferito che l’Amministrazione americana stava facendo pressione per l’apertura di un dotto per il trasporto del cemento nella Striscia di Gaza, per facilitare la riparazione delle abitazioni e delle strutture essenziali danneggiate dai bombardamenti delle forze aeree.

Il coordinatore delle attività nei territori, Mag. Gen. Yosef Mishlav, fece notare che migliaia di lavoratori palestinesi disoccupati erano in attesa dell’apertura del dotto. Il forum decise che si sarebbe dovuta aprire la conduttura. Galant si appellò per la decisione al capo dello stato maggiore generale, Dan Halutz, che respinse l’appello. Tuttavia, per ordine di Galant, la conduttura rimase chiusa per la maggior parte del tempo, “a causa degli stati d’allerta per attentati terroristici.” Un altro suo ordine – contrariamente alle istruzioni del ministero – proibì l’ingresso nella Striscia di Gaza dei giornali e della posta.

E forse, nei fatti, questo è il capo di stato maggiore che questo governo si merita.

(tradotto da mariano mingarelli)

di cui sono stati testimoni

I bambini si sono raccolti insieme per dipindere dei murales che rappresentano lo scatenarsi della violenza israeliana nella Striscia sotto assedio

Mentre il mondo musulmano festeggia l'inizio del Ramadan gli orfani di Gaza ricordano i loro genitori e le persone amate uccise da "Piombo fuso"

venerdì 13 agosto 2010

L'ARTE DI NASCONDERE LA VERITA'

ESERCITO ISRAELIANO: L’ARTE DI NASCONDERE LA VERITA’
Sconto sulla pena per il soldato che, nel 2003 a Gaza, uccise l'attivista Tom Hurndall. Si apre invece l’indagine sull’uccisione a Bilin di Basem Abu Rahme. Dopo che per mesi l’IDF ha rifiutato di esaminare le testimonianze di chi quel giorno c'era.

DI BARBARA ANTONELLI – Roma, 20 luglio 2010 – Nena-news (foto www.palestinechronicle.com) -Torna libero il prossimo mese Taysir Heib, ex- soldato israeliano accusato della morte di Thomas Hurndall, il giovane attivista inglese ucciso a Gaza nell’aprile del 2003. Tom, uno studente di 22 anni era andato nella Striscia per compiere attivita’ di interposizione con la ISM, l’International Solidarity Movement: fu colpito alla testa mentre stava fotografando le demolizioni dei bullzoder isrealiani contro le case palestinesi a Gaza.

Nonostante nel 2005 abbia ricevuto una sentenza pari a 8 anni di carcere, con l’accusa di omicidio colposo (ma non volontario), ma anche per aver fornito una falsa testimonianza e aver ostacolato le indagini, un comitato interno all’esercito ha deciso di accorciare la sua pena, contravvevendo al parere del JAG (il giudice avvocato generale) Avichai Mendelblit.

Durante il processo, Heib dichiaro’ inizialmente di aver sparato mirando a un militante armato palestinese, portando a suo sostegno la testimonianza di un altro soldato, suo compagno nella stessa unita’, che invece ritratto’ tutta la versione dei fatti, dichiarando di non aver visto nulla.

Heib forni’ alla giuria una serie di testimonianze false e contraddittorie, cambiando piu’ volte la versione dei fatti. I giudici appurarono che Heib sparo’ a Tom con un’arma da tiratore scelto, dotata di sistema telescopico e Heib, in una seconda fase del processo, ammise candidamente di aver sparato a 10 cm dalla testa di Tom, per dare un avvertimento all’attivista, per spaventarlo e punirlo per essere entrato in una zona dichiarata militarmente off limits.

Nessuna delle autorita’ isrealiana si e’ presa pero’ la briga di informare la famiglia Hurndall che chi ha ucciso loro figlio torna in liberta’ il mese prossimo e – indignati e scioccati – i familiari di Tom hanno appreso la notizia dai numerosi giornalisti inglesi che li hanno chiamati per avere un commento.

Nello stesso periodo in cui un bolldozer israeliano uccideva Rachel Corrie, tre cittadini inglesi, — Iain Hook, Tom Hurndall e James Millar — sono stati vittime dei proiettili dell’esercito israeliano a Gaza e solo nel caso di Tom, e’ stata aperta e condotta un’indagine ed e’ stato trovato e punito il responsabile. Se poi ad essere uccisi sono civili palestinesi, il sistema interno all’esercito tenta ancora di piu’ di confondere e nascondere le prove, evitando qualsiasi indagine. Il 90% dei crimini commessi contro civili palestinesi per mano dell’esercito o della polizia israeliana, finisce con un file archiviato. Un sistema che da’ un chiaro messaggio ai soldati stessi: l’esercito e’ al di sopra della legge e l’entita’ che sta dietro ai soldati fara’ di tutto per proteggerli, nel caso non rispettino le regole di ingaggio.

Cosi e’ avvenuto anche per la morte di Bassem Abu Rahme, il giovane palestinese trentenne, impegnato nelle manifestazioni non violente con il comitato popolare di Bi’lin, villaggio della Cisgiordania che dal 2005 si batte contro la costruzione del muro e la confisca delle terre agricole. Una granata di gas lacrimogeno ha spezzato la vita di Pheel, l’elefante cosi lo chiamavano tutti, sia palestinesi sia israeliani. Trapassandogli il torace e colpendolo a distanza ravvicinata. L’esercito ha sempre evitato di aprire indagini, dichiarando il caso chiuso, dopo aver semplicemente ascoltato – nel corso di un debriefing organizzativo – le testimonianze dei soldati di turno a Bi’lin quel giorno: regole di ingaggio rispettate, il gas fu sparato – secondo l’esercito – da una distanza regolare e non fu volontariamente diretto a Bassem.

Ma quel 17 aprile a Bi’lin, di manifestanti ce n’erano centinaia, palestinesi, internazionali e israeliani. E tanti ripetono da 15 mesi che il candelotto che ha ucciso Bassem e’ stato lanciato da una distanza ravvicinata e seguendo una traiettoria orizzontale.

La famiglia di Pheel, si e’ rivolta alla studio di Michael Sfard, l’avvocato isrealiano che pochi mesi fa con un appello alla Procura israeliana e’ riuscito a far riaprire le indagini sul ferimento di Tristan Anderson, giovane attivista americano che ha subito – dopo essere stato ferito dall’esercito nel villaggio di Nilin- danni cerebrali permanenti. Anche nel caso di Anderson, il caso era stato chiuso senza avviare alcuna indagine approfondita.

In una lettera all’avvocato Sfard, il giudice (JAG) Mandelblit spiega di aver ordinato all’unita’ investigativa della polizia militare di aprire un’indagine – mentre fino a oggi si era sempre rifiutato. Un cambiamento dettato dal rischio che lo studio Sfard faccia appello all’Alta Corte di Giustizia.

Per seguire il caso di Basem, le due associazioni israeliane B’Tselem e Yesh Din hanno raccolto una lunga serie di testimonianze, video e fotografie e le hanno fatte analizzare da un gruppo di esperti indipendenti, redigendo un dettagliato report. Il report ricostruisce gli avvenimenti del 17 aprile, combinando approfondite analisi balistiche, in riferimento alle specifiche connotazioni del tipo di granata utilizzata (il modello 4431, da 40 mm, fabbricato da un’azienda della Pennsylvania), con le caratteristiche topografiche del terreno e le testimonianze video, secondo cui e’ possible risalire all’esatta posizione sia della vittima che del soldato che ha sparato. I diagrammi presentati nel report, elaborano le possibili traiettorie seguite dal candelotto lacrimogeno, dimostrando che se il soldato avesse sparato con una traiettoria a 60 gradi (come sostenuto dall’esercito), il gas sarebbe caduto molti metri dietro alla posizione in cui si trovava Basem.

Si aprono pertanto due possibili scenari, che portano a una simile evidente conclusione, cioe’ che le regole di ingaggio non sono state ripettate e il candelotto e’ stato sparato per colpire l’attivista, che si trovava a est del reticolato(che separa Bilin dalle terre agricole) e che non rappresentava alcuna minaccia per l’esercito.

Anche se si ipotizza infatti che la granata abbia colpito prima la rete metallica e poi il torace di Pheel, anche in questo caso, il soldato avrebbe dovuto trovarsi ad una distanza inferiore ai due metri dalla rete, cosa che non risulta tale dai video filmati da chi quel giorno era a Bilin.

Il ritardo nell’apertura delle indagini non trova nessuna giustificazione. E nemmeno i meccanismi che tutelano e coprono l’operato dei singoli soldati.

Ahmed, fratello di Basem ha dichiarato “siamo contenti che un’indagine sia stata aperta ma avrebbe dovuto avvenire lo stesso giorno che Basem e’ stato ucciso. Se l’esercito apre ora l’indagine, lo fa solo perche’ si sente costretto a farlo.” (nena-News)

ISRAELE MIGLIAIA DI FIGLI DI IMMIGRATI RISCHIANO L'ESPULSIONE

Il governo Netanyahu ha cominciato ieri una discussione sui provvedimenti da adottare. Il ministro dell’interno Yishai vuole la politica del pugno di ferro.
Gerusalemme, 26 luglio 2010, Nena News – Con decine di bambini di tanti paesi, specie africani, con cartelli e striscioni che manifestavano fuori dalla sede del governo, il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha avviato ieri  la discussione nel consiglio dei ministri sullo status legale dei figli degli stranieri. Si tratta di migliaia di bambini e ragazzi che in molti casi sono cresciuti in Israele ma che ugualmente rischiano l’espulsione dal paese sulla base delle leggi anti-immigrazione fatte approvare dal ministro dell’interno Eli Yishai, un religioso ortodosso leader del partito Shas.
Il primo ministro ha illustrato la proposta di una commissione che prevede la concessione del permesso di residenza ai bambini che sono giunti in Israele quando avevano meno di tredici anni e risultano iscritti a una delle scuole statali. Tutti gli altri dovranno andare via. Netanyahu da un lato ha espresso comprensione per la situazione di tanti ragazzi ed manifestato il desiderio di «assorbirne» una parte. Dall’altro, ha spiegato subito dopo,  «vogliamo preservare una maggioranza ebraica, tale da assicurare allo Stato di Israele il suo carattere ebraico». Su questo ultimo punto batte da lungo tempo il ministro Yishai, che negli ultimi anni ha scatenato una campagna massiccia contro lavoratori stranieri e migranti. Già la scorsa estate 3 mila minorenni avevano rischiato d’essere allontanati dal paese ma il provvedimento caldeggiato da Yishai venne fermato all’ultimo istante per le pressioni di alcune associazioni per i diritti civili e per l’intervento di diversi parlamentari.
Yishai non demorde anche perché Netanyahu, sia pure in una forma apparentemente meno brutale, sostiene la politica del ministro dell’interno volta a preservare il «carattere ebraico» dello Stato, «minacciato dall’immigrazione». Il premier e i suoi ministri contano entro il 2013 di far completare i lavori di costruzione di una barriera elettronica lungo la frontiera con l’Egitto. Il nuovo muro sorgerà su 110 dei 240 chilometri di confine e nella parte rimanente verranno installati sensori e strumenti ottici e rafforzati i pattugliamenti di polizia ed esercito. L’obiettivo è quello di impedire l’ingresso di profughi di guerra e di emigranti africani provenienti dal Sinai.
Secondo fonti governative ogni mese entrerebbero illegalmente in Israele circa 1.200 migranti africani, quasi sempre con l’aiuto prima di beduini egiziani e poi di quelli israeliani. Gli africani che riescono a penetrare peraltro sono quelli che sopravvivono al fuoco della guardia di frontiera egiziana. Solo nel 2007-08 sul lato egiziano del confine sono stati uccisi una quarantina di africani. Lo scorso anno una trentina. «Il numero delle vittime è molto più alto – dice Sigal Rosen, portavoce della Ong israeliana “Hotline for Migrant Workers” – sono convinta che tanti altri migranti siano stati colpiti a morte ma non riusciamo a saperlo perchè le autorità egiziane non lo dicono. E non dimentichiamo quelli che vengono feriti o arrestati».
I migranti catturati poi in Israele  – tranne un numero limitato di quelli provenienti dal Darfur – vengono rispediti in Egitto dove, dopo un processo sommario e una detenzione durissima sono obbligati a tornare nei loro paesi d’origine, nella migliore delle ipotesi. «La carneficina si è aggravata nel 2007 – spiega Sigal Rosen – quando Israele ha fatto la voce grossa con il Cairo affinché venissero fermati gli ingressi clandestini di sudanesi e altri africani. L’Egitto da allora applica misure durissime con il plauso dei governanti israeliani». Secondo l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati, da 2 a 3 milioni di cittadini sudanesi, in buona parte migranti, si trovano in Egitto e una parte di essi provano ad entrare in Israele.
L’aumento dei morti alla frontiera tra Israele e l’Egitto  indica peraltro un mutamento delle rotte della migrazione africana, dopo che la strada verso l’Europa si è fatta più difficile, anche a causa degli accordi tra Italia e Libia. Gli eritrei lo scorso anno rappresentavano il gruppo nazionale più numeroso tra i migranti che cercano di arrivare in Israele.(red) Nena News

giovedì 12 agosto 2010

iL VILLAGGIO DISTRUTTO

CREPUSCOLO

Crepuscolo/Gli invasori

La scorsa settimana un intero villaggio beduino “non-riconosciuto”è stato demolito, lontano dalla vista del pubblico. Ma gli abitanti non si arrenderanno: Hanno già cominciato a ricostruirlo.

di Gideon Levy



Tra le rovine, in mezzo a utensili domestici di una casa distrutta, a biciclette da bambini schiacciate e a medicinali dispersi, tra le pareti che sono crollate su quanto contenuto nelle case, tra alberi sradicati e giocattoli rotti, ho trovato una scatola di cartone marrone sulla quale c’era scritto in ebraico:”libri sacri.”

Ho aperto la scatola: un volume dell’Enciclopedia Ebraica, e sotto di esso “Tutto ciò che rimane”, la monumentale opera dello storico Walid Khalidi sui villaggi palestinesi perduti nel 1948 e un libro sugli Accordi di Oslo. Coloro che hanno distrutto il villaggio sembra che abbiano avuto pietà di questi libri, impacchettandoli e risparmiandoli dai bulldozer.


sheikh sayyah abu drimab




All’alba del martedì della settimana scorsa, questi bulldozer, accompagnati da circa 1.500 poliziotti, hanno fatto irruzione e demolito un villaggio in Israele. Non-riconosciuto, ma pur sempre un villaggio. Una non-storia in Israele, ma che il quotidiano britannico The Guardian ha definito come “pulizia etnica nel Negev”. Il video riportato sul sito web del giornale mostra immagini che qui non si sono viste: I bulldozer che si facevano strada dentro a dozzine di case e a costruzioni di altro tipo, la crudezza delle centinaia di poliziotti armati e le espressioni addolorate sui volti degli abitanti che guardavano in silenzio e con sorprendente sottomissione mentre il loro stato demoliva le loro case.

Le pecore che cercano di sfuggire al sole cocente tra le tombe del villaggio. Anche i loro recinti sono stati demoliti. Pure i bulldozer hanno avuto pietà del cimitero, dove la prima tomba è stata scavata decine di anni fa e l’ultima questa settimana. Israele ha avuto sempre pietà degli edifici sacri. Moschee e cimiteri sono stati gli unici resti che sono sopravissuti nel 1948.

“Invasori” è il termine che lo stato usa per definire gli abitanti del villaggio. E che cosa ci sta a fare qui un cimitero? Anche quello è “illegale”? “Non-riconosciuto”? Un “invasore”? E pure le tombe? Naturalmente, si può restare impressionati dalla gran quantità delle sentenze giuridiche riguardanti il destino del villaggio, Araqib, a nord di Be’er Sheva. Presso il tribunale di Kiryat Gat gli atti legali sono andati avanti fino a tarda notte, mentre le forze stavano già preparandosi a fare l’irruzione. Israele li chiama invasori e ladri di terre; gli abitanti sostengono di possedere documenti e atti di proprietà e che l’esistenza del cimitero e delle tombe sono una prova dei loro diritti di proprietà su questa terra.

Un abitante mostra un atto di proprietà che risale al tempo dei turchi. Un altro fa vedere la sentenza del tribunale che rimanda ogni decisione sul destino della sua casa fino all’inizio del prossimo anno, ma i rappresentanti dello stato fanno pressione sul tribunale perché la faccia finita – l’operazione di demolizione sta aspettando.

La terra era terra loro. Negli anni 1950 ne erano stati sfrattati e loro vi erano ritornati negli anni 1990. Invasori, occupanti abusivi. Ma la battaglia legale era persa prima ancora che avesse inizio. Israele cerca di “purificare” il Negev dai beduini, concentrandoli in misere città – e in questo ha la legge dalla sua parte. Le fattorie individuali sono solo per ebrei. L’evacuazione delle colonie illegali riguarda solo gli arabi. Demolizioni di case senza che ci sia un risarcimento e senza che ci sia un’assistenza terapeutica per i bambini scioccati e senza casa – sono solo per i beduini.

Lo Stato d’Israele contro Arakib: Per conto dello stato di Israele, attorno al villaggio è già stata piantata da parte del Ministero degli Affari Esteri e del Fondo Nazionale Ebraico, la “Foresta degli Ambasciatori.” E’ in dubbio che le dozzine di ambasciatori che hanno dato una mano in questo abuso – l’espulsione dei beduini dalle loro terre, l’occultamento delle rovine con la vegetazione, il mascheramento dell’onta con gli alberi, proprio la stessa cosa che successe nel 1948 – abbiano saputo che Israele li stava trasformando in ambasciatori di mala fede.

Ecco, dunque, come informazione per il corpo diplomatico: Ricordate l’imponente cerimonia tenutasi nel 2005 in vostra presenza? Sappiate che questa vostra foresta era destinata ad essere soltanto il punto di partenza per l’appropriazione della terra da parte dello stato, a discapito dei beduini del posto.

I progetti di distruzione nei territori, come quello attualmente in corso nella Valle del Giordano, di solito lasciano alle spalle le rovine di povere catapecchie e di miserabili recinti per pecore. Qui è diverso. Ad Arakib fumano Malboro e Kent, bevono acqua minerale in bicchieri usa e getta e parlano l’ebraico in modo eccellente. Tra le macerie si possono vedere librerie ed eleganti divani in pelle. Due veicoli Mercedes di proprietà di una persona ricca del paese, Muhammad Jum’a Abu Madian, sono parcheggiati a lato delle macerie. I suoi figli al momento sono sparsi tra i suoi amici: Shaul Shai di Ashdod, Danny Hananel di Mabu’im e Yaakov Ron del kibbutz Shoval. Jum’a è un uomo d’affari che impiega centinaia di lavoratori – ai mattatoi di polli dei quali è uno dei soci, a Kedma Street nell’area industriale settentrionale di Ashdod, nelle sue ditte di generi alimentari sparse in tutto il Negev e negli altri suoi affari. Un israeliano di tutto rispetto. Inoltre è nato qui e vuole continuare a vivere qui.

Ora sta facendo la doccia all’ombra di un suo camion. Il suo vestito e il suo profumo sono nel bagagliaio della Mercedes 550, una personale importazione.

“Avevo una casa di 300 metri quadrati. Ora ne ho una di un metro quadrato,” dice. Degli operai stanno già ricostruendo la sua casa. Sabato scorso, giunsero qua centinaia di attivisti israeliani per la pace per fare una dimostrazione e per dare un aiuto nella ricostruzione.

Colombe e oche vagano a giro in quello che era il loro villaggio di prima, che ora ha l’aspetto di una zona disastrata. “Persino le oche non se ne vogliono andare,” afferma Sheikh Sayyah Abu Drim. Con grandi mustacchi e indosso una galabiya e una kefiyah bianca, lo sheikh racconta la storia del villaggio con una passione quasi biblica. Come era nato lì, come i suoi antenati avevano pagato le tasse ai turchi per questo terreno, come nella sua fanciullezza l’area era rigogliosa di alberi di ulivo, di fichi d’India, di uva e di fichi, come erano stati cacciati via da lì negli anni 1950, come lo stato aveva cominciato a piantare foreste nell’area tutt’attorno alla fine degli anni 1990 e come, all’inizio del 2000 Israele aveva cosparso il loro campi di sostanze misteriose spruzzate dall’aria.

“Non abbiamo alcuna fiducia nel tribunale e non abbiamo alcuna fiducia nelle unità di criminali note come polizia e non abbiamo alcuna fiducia nei nostri avvocati,” dichiara lo sheikh. “la polizia ha applaudito quando hanno terminato la demolizione e hanno detto: Lunga vita allo stato d’Israele. Ma che razza di stato è mai questo? E’ uno stato puzzolente.”

E subito si corregge: “Non è lo stato. Lo sono invece l’Amministrazione della Terra d’Israele (ILA) e la polizia.”

Jum’a ci racconta che una volta nell’ILA qualcuno gli disse: “Va da Nasrallah.”

“All’ILA di Be’er Sheva un certo numero di persone sono in conflitto con noi, ma noi non odieremo tutte le persone di Be’er Sheva. Siamo compagni nel bene e nel male. Se qualcuno di noi dovesse parlare in nome di Nasrallah, dovrebbe essere cacciato in galera. Ma è la persona che è incaricata di risolvere i problemi che ci sta spingendo verso Nasrallah. Guardate quella tenda laggiù. Chi l’ha costruita? Il Movimento Islamico. Il movimento che si contrappone allo stato sta costruendo per noi, e lo stato sta demolendo per noi. Ma noi dimostreremo a quelli che odiano lo stato e a quelli che ci stanno espellendo che noi continueremo a lavorare insieme.”

Il danno per la demolizione di 35 edifici e di centinaia di alberi di ulivo ammonta a 5 milioni di NIS.

Lo sheikh: “Non so quando il popolo ebraico si renderà conto delle azioni di questo governo. Perché la gente tace? I governi precedenti non presero la decisione di distruggere un villaggio. Demolirono una casa qui e una casa là, ma un intero villaggio a cielo aperto? Venire nel mezzo della notte con una dichiarazione di guerra, con dichiarazioni di distruzione? E dopo tutto questo, devo raccontare ai miei figli che gli ebrei sono persone per bene, che sono nostri cugini? Non faremo del male allo stato o a noi stessi. Non verseremo sangue, ma costruiremo 100 volte di più. Siamo preparati ad altre 100 demolizioni sino a che non riconosceranno i nostri diritti. Noi non siamo degli invasori e neppure degli occupanti abusivi. E’ lo stato che ci ha invaso.”

(tradotto da mariano mingarelli)