mercoledì 27 marzo 2013

Associazione a delinquere

ISRAELE E LA NATO Israele, membro di fatto della NATO di Michael Chossudovsky (*); da: rebelion.org; 13.3.2013 Il Segretario generale della NATO, generale Anders Fogh Rasmussen, ha ricevuto il 7 marzo il presidente di Israele, Shimon Peres, nella sede della NATO a Bruxelles. Ordine del giorno: intensificare la operazione militare tra Israele e l’Alleanza Atlantica, concentrandosi sui temi dell’antiterrorismo. “Israele condividerà con piacere le conoscenze acquisite e le capacità tecnologiche con la NATO. Israele ha esperienza nell’affrontare situazioni complesse, e dobbiamo rafforzare la cooperazione per poter combattere uniti il terrorismo globale e aiutare la NATO nei compiti complessi che affronta, compreso l’Afganistan”. Israele è già coinvolta in operazioni “coperte” e nella guerra non convenzionale congiuntamente agli USA e alla NATO. Questo accordo è di particolare importanza perché approfondisce le relazioni Israele-NATO al di là del cosiddetto “Dialogo Mediterraneo”. La dichiarazione congiunta mira ad una cooperazione Israele-NATO “nella lotta contro il terrore e nella ricerca della pace …. in Medio Oriente e nel mondo”. Ciò che questo suggerisce è la partecipazione di Israele nella guerra attiva insieme alla NATO, cioè come membro di fatto dell’Alleanza Atlantica. In altre parole Israele verrebbe direttamente coinvolta se USA e NATO lanciassero un’operazione militare propriamente detta contro la Siria, il Libano o l’Iran. Israele si è offerta di aiutare la NATO in operazioni anti-terrorismo con Hezbollah e l’Iran. “Le due parti si sono accordate, durante la discussione, sul fatto che Israele e la NATO sono soci nella lotta al terrore ….” Dice la dichiarazione. IL presidente Peres ha sottolineato la necessità di mantenere ed aumentare la cooperazione tra Israele e la NATO, e la capacità di Israele di cooperare e portare aiuti tecnologici e conoscenze per la vasta esperienza acquisita nel campo dell’anti-terrorismo. “Israele è disposta a condividere con la NATO le conoscenze acquisite e le sue capacità tecnologiche. Israele ha esperienza nell’affrontare situazioni complesse e dobbiamo rafforzare la cooperazione per lottare insieme contro il terrore globale e aiutare la NATO di fronte alle complesse minacce che affronta, anche in Afganistan”, ha detto Peres a Rasmussen. Storia della cooperazione militare tra Israele e la NATO Vale la pena segnalare che nel novembre 2004, a Bruxelles, la NATO e Israele firmarono un importante protocollo bilaterale che spianò il cammino alla realizzazione di esercitazioni militari congiunte della NATO e di Israele. Un accordo aggiuntivo fu firmato nel marzo 2005 tra il Segretario generale della NATO e il Primo Ministro Ariel Sharon. L’accordo di cooperazione militare bilaterale del 2005 fu visto dai militari israeliani come un mezzo per “elevare la capacità di dissuasione di Israele rispetto a potenziali nemici che lo minacciassero, soprattutto l’Iran e la Siria”. La premessa fondante della cooperazione militare tra Israele e la NATO è che “Israele è sotto attacco”. Ci sono prove di coordinamento militare e di intelligence tra la NATO e Israele, che comprendono consultazioni relative ai territori occupati. “Prima del lancio dell’operazione Piombo Fuso a Gaza, la NATO scambiava già informazioni con Israele, condivideva esperienze sulla sicurezza e organizzava addestramenti militari…. L’ex capo della NATO Scheffer ha visitato Israele durante l’attacco a Gaza. E a quell’epoca i funzionari della NATO ritenevano che la cooperazione con Israele era essenziale per la loro organizzazione” (Al Ahram, 10 febbraio 2010). L’accordo bilaterale di Bruxelles del marzo 2013 tra Israele e la NATO è il punto di arrivo di più di 10 anni di cooperazione tra le parti. Questo accordo “obbliga la NATO ad andare in aiuto a Israele in base alla dottrina della sicurezza collettiva”? L’accordo rafforza l’attuale processo di pianificazione militare e logistica USA-NATO-Israele riguardo a qualsiasi azione futura in Medio Oriente, compreso un bombardamento aereo delle centrali nucleari dell’Iran. La delegazione presidenziale israeliana era formata da vari alti consiglieri militari e governativi, compreso il brigadiere Generale Hasson Hasson, Segretario militare del Presidente Peres, e Nadav Tamir, suo consigliere politico. Il testo dell’accordo Israele-NATO dopo i negoziati a porte chiuse non è stato pubblicato. Dopo la riunione la NATO ha pubblicato una dichiarazione congiunta. Il Segretario generale Rasmussen ha dichiarato in conferenza stampa: “Israele è un importante partner dell’Alleanza nel Dialogo Mediterraneo. La sicurezza della NATO è legata alla sicurezza e alla stabilità della regione mediterranea e del Medio Oriente. E la nostra Alleanza dà un enorme valore al nostro dialogo politico e alla nostra cooperazione pratica. Israele è uno dei nostri paesi associati più antichi. Affrontiamo le stesse sfide nel Mediterraneo Orientale. E come affrontiamo le minacce alla sicurezza del secolo XXI, abbiamo tutti i motivi per approfondire la nostra duratura associazione con i paesi del Dialogo Mediterraneo, compresa Israele. Sappiamo tutti che la situazione regionale è complessa. Ma il Dialogo Mediterraneo continua ad essere un singolare forum multilaterale, in cui Israele e sei paesi arabi possono discutere, insieme ai paesi europei e a nordamericani, sfide comuni alla sicurezza. Vedo altre opportunità per approfondire il nostro già serrato dialogo politico e la nostra cooperazione pratica a mutuo beneficio”. (*) Scrittore, professore emerito di Economia all’Università di Ottawa, fondatore e direttore del Centro di Ricerche sulla Globalizzazione.

Lì dove Obama non metterà piede

Con un ordine di demolizione, a Imnezel, l'esercito ha deciso che gli studenti durante le lezioni non devono bere né andare al bagno. La vita nell'area C. Guarda il VIDEO di Michele Giorgio Imneizel (Hebron), 21 marzo 2013, Nena News - Fanno il girotondo i bambini della scuola del minuscolo villaggio palestinese di Imneizel. Altri, con un pallone un po' sgonfio, provano a sfidarsi in un improbabile match di volleyball. È un giorno di festa. Niente lezioni. La scuola è invasa da una quarantina di giornalisti giunti in autobus, quasi tutti palestinesi. C'è anche l'inviata della popolarissima, da queste parti, tv araba al Jazeera a rendere l'evento ancora più eccezionale per una comunità di 500 persone a cui forse capita di vedere più israeliani che palestinesi. Imneizel infatti è a ridosso dalle alte recinzioni di sicurezza della colonia ebraica di Mesadot Yehuda e da un ampio posto di blocco militare dal quale si entra in Israele. Sull'altro versante c'è uno spettacolo mozzafiato della natura, le stupende colline della Cisgiordania meridionale, a sud di Hebron. Le piogge abbondanti dell'inverno, che quest'anno stenta a terminare, le hanno colorate di verde e giallo, come di rado accade da queste parti. «Abbiamo organizzato questo tour per farvi rendere conto delle situzione di questa scuola e dell'intera comunità di Imneizel», spiega una funzionaria di Echo, l'agenzia europea incaricata per i programmi di emergenza. «In questa zona - aggiunge - tutto è soggetto alle restrizioni imposte dalle autorità militari. Siamo in area C della Cisgiordania e qui fa e dispone soltanto Israele». Costruire in questa porzione di terra palestinese è una impresa per i palestinesi. Le richieste sono sistematicamente respinte dalle autorità di occupazione e chi costruisce senza attendere il permesso presto o tardi vede arrivare le ruspe dell'esercito. E ciò che è vietato ai palestinesi si rivela facile e senza alcun problema per i coloni israeliani che pure vivono in Cisgiordania violando la legalità internazionale. Appena il governo israeliano approva la costruzione o l'espansione di una colonia, subito scattano i lavori di allacciamento alla rete elettrica e all'acquedotto. Per una comunità palestinese tutto ciò è fantascienza. Prende la parola Fadi, il responsabile dello staff locale della ong italiana Gvc di Bologna, organizzatrice con Echo e Ocha (Onu) del tour e presente con progetti di sviluppo nei Territori occupati dal 1992. Il Gvc ha costruito accanto alla scuola una delle 14 cisterne di raccolta dell'acqua che sta realizzando per la comunità di Imnezel. «A quanto pare - riferisce con ironia Fadi - i comandi militari israeliani pensano che i nostri studenti debbano rimanere durante le lezioni senza bere e senza andare al gabinetto. Così hanno emesso un ordine di demolizione per la cisterna e i bagni della scuola». Presidente, venga a vedere Barack Obama oggi arriva a Tel Aviv con l'Air Force One. È la prima volta che da presidente visita Israele e domani incontrerà anche il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. La scorsa settimana ha fatto sapere con una intervista televisiva che non presenterà un nuovo "piano di pace" e che si limiterà ad ascoltare idee e proposte di Abu Mazen e del premier israeliano Netanyahu volte a rilanciare le trattative ferme, di fatto, dal 2009. Meglio farebbe Obama ad ascoltare gli abitanti di questa parte poverissima della Cisgiordania. Capirebbe cosa vuol dire vivere sotto occupazione militare. Il presidente Usa parlerà e risponderà alle domande dei giovani israeliani nel Convention Center di Gerusalemme e dovrebbe avere il coraggio di incontrare anche i giovani palestinesi. Non quelli che vivono in città ma quelli che abitano in questa zona depressa della Cisgiordania, dove l'occupazione, oltre a tutto il resto, non ritiene necessario portare l'acqua e l'elettricità alle comunità più isolate ma fa il possibile per allontanarle, per costringerle ad abbandonare la zona C, spesso proclamando chilometri e chilometri quadrati di terra «aree militari chiuse» e poligoni di tiro. L'area C - circa il 61% della Cisgiordania che a venti anni dalla firma degli accordi di Oslo rimane sotto il completo controllo di Israele - conta circa 300.000 coloni israeliani, contro una popolazione palestinese che va dai 92.000 secondo le statistiche israeliane ai 150.000 censiti dalle Nazioni Unite. In questi giorni tremano le quindici famiglie palestinesi della tribù Shalalda che hanno appena ricevuto l'ordine di abbandonare immediatamente le loro abitazioni che si trovano a al Janoub, a est del villaggio di Sair. Altrimenti saranno evacuate con la forza. Sono famiglie che da generazioni vivono in grotte situate in un'area che l'esercito utilizza per le esercitazioni militari. È l'ennesima minaccia di espulsione a sud di Hebron dove Israele tiene sotto pressione i residenti di otto dei 12 villaggi palestinesi nella cosiddetta «Firing Zone 918» (3 kmq popolati da circa 1.800 palestinesi) che l'esercito definisce frazioni «disabitate»: Tuba, Mufaqarah, Sfai, Majaz, Tabban, Fakheit, Megheir al Abeid, Halaweh, Mirkez, Jinba, Kharuba e Sarura. Otto di queste, quelle più meridionali, sono minacciate dall'ordine di espulsione: gli abitanti dovrebbero essere trasferiti a Yatta. Le quattro più settentrionali, popolate da circa 300 persone, sarebbero «salve». Tra una frazione e l'altra ci sono diversi insediamenti colonici israeliani. A scuola con la scorta Barack Obama venerdì, dopo aver visitato la Chiesa della Natività di Betlemme, potrebbe approfittarne per spingersi nella Cisgiordania meridionale e cogliere l'occasione per accompagnare gli scolari del villaggio di Tuwane, lontano qualche chilometro da Imneizel, che da anni per andare a scuola devono essere scortati da volontari internazionali e da una jeep dell'esercito perchè i coloni israeliani di Havat Maon mal sopportano quel passaggio accanto al loro insediamento. Dopo anni le autorità israeliane hanno «riconosciuto» che quei bambini hanno diritto all'istruzione ma non hanno preso provvedimenti verso i coloni. Come accade in altri villaggi inclusi nella «Firing Zone 918», anche i 145 abitanti di Tuba usano costruire minuscole abitazioni all'interno di ampi tendoni da accampamento. È uno stratagemma per nascondere i piccoli edifici (un paio di stanze) alla vista dei militari ed evitare l'arrivo immediato delle ruspe. Qui il Gvc ha costruito cisterne per la raccolta di acque piovane e attraverso la copertura del costo per l'apertura di una strada sterrata, ha reso più agevole il trasporto dell'acqua con autobotti. Più di tutto ha contribuito con il suo intervento a far scendere il prezzo dell'acqua: per la gente di Tuba quattro volte più alto rispetto a quello che paga un palestinese che vive in città e molte volte di più di un colono israeliano che risiede illegalmente in Cisgiordania. A Tuba l'esercito vuole demolire i pannelli solari e le pale eoliche, l'unica fonte di energia per questa comunità. Michele Pierpaoli, program manager del Gvc, lavora da tempo in questa zona (GUARDA IL VIDEO). «C'è un piano dell'amministrazione civile israeliana di evacuare queste aree con tutti gli abitanti, con la motivazione di renderle zone militari - ci spiega - È già successo in passato in altre parti della Palestina: le aree prima sono dichiarate zone militari e poi sono colonizzate dai settler israeliani». Adesso, prosegue Pierpaoli, «sono minacciati di distruzione i pannelli solari e le pale eoliche. E non si capisce perchè, forse rubano il vento?». Una domanda che potrebbe porsi anche Barack Obama, se solo venisse qui. Nena News 15

Obama in Israele

Non c'è amico che tenga Barack Obama non riesce a strappare a Netanyahu la promessa che Israele non attaccherà le centrali nucleari iraniane senza il via libera di Washington di Michele Giorgio Gerusalemme, 21 marzo 2013, Nena News -Il linguaggio morbido della diplomazia non può nascondere la realtà. Il presidente americano Barack Obama non è riuscito a strappare al premier israeliano Benyamin Netanyahu la promessa che Israele non attaccherà le centrali nucleari iraniane senza il via libera di Washington. La conferenza stampa congiunta che Obama e Netanyahu hanno tenuto ieri sera, dopo un faccia a faccia durato oltre due ore, ha confermato che il premier israeliano non si accontenta delle assicurazioni ricevute dal presidente americano durante e prima del loro incontro a Gerusalemme. Per impedire all'Iran di dotarsi di un arsenale nucleare «tutte le opzioni rimarranno sul tavolo», ha detto Obama, e «gli Usa continueranno a consultarsi a stretto contatto con Israele sulle azioni da intraprendere». Netanyahu si è detto «assolutamente convinto» della determinazione del presidente Usa nell'impedire che l'Iran si doti di un arsenale nucleare. Allo stesso tempo ha lasciato intendere che sono diverse le valutazioni tra Israele e Stati Uniti su quando l'Iran arriverà alla capacità di assembleare un ordigno atomico (Tehran, è bene sottolineare, nega di volersi dotare di bombe nucleari). Poi, rispondendo ad una domanda, entrambi hanno affermato che Israele mantiene la sua indipendenza decisionale: in sostanza se sceglierà di lanciare i suoi cacciabombardieri contro l'Iran, lo farà anche senza l'ok della Casa Bianca. Più indecifrabile è l'esito dei colloqui a proposito della guerra civile siriana. Obama ha fatto capire fin troppo chiaramente che gli Usa non intendono intervenire direttamente ma un possibile uso di armi chimiche da parte delle autorità di Damasco, che Israele solleva da tempo anche in modo strumentale, potrebbe cambiare le carte in tavola. La visita in Israele cominciata ieri da Obama, è ammantata di un potente simbolismo per convincere gli israeliani e gli arabi che anche l'attuale presidente, come i suoi predecessori, è uno strenuo difensore e protettore dello Stato di Israele da ogni tipo di minaccia, vera e presunta. All'interno di questa missione con un focus, di fatto, solo su Israele, le cinque ore o poco più che Obama trascorrerà oggi con il presidente palestinese Abu Mazen sono solo un intermezzo inutile per qualsiasi prospettiva di avvio di un negoziato sull'indipendenza palestinese, fondato sulla legalità internazionale e le risoluzioni dell'Onu. «I palestinesi devono poter sentire di essere anch'essi padroni del loro destino», ha affermatoieri Obama. Netanyahu ha risposto che Israele «continua a impegnarsi» per risolvere il decennale conflitto con i palestinesi con la soluzione dei «due Stati». L'«impegno» del premier israeliano però rimane concentrato solo sulla colonizzazione dei territori occupati nel 1967. Consapevole di non poter ottenere risultati in diplomazia, Obama prova a mettere fine alla "diffidenza" che un buon numero di israeliani hanno nei suoi confronti. Questo intento del presidente Usa è stato ben spiegato dalle prime frasi che ha pronunciato appena sceso ieri dall'Air Force One. Dopo quella scontata sull'«alleanza eterna» tra i due paesi e la solita invocazione di pace, Obama ha detto che Israele, «è la patria storica del popolo ebraico» dove viveva «già 3mila anni fa». La nascita dello Stato d'Israele, ha poi aggiunto, rappresenta «una rinascita e una redenzione senza precedenti nella storia». Per affermare questo "link", tra gli ebrei dell'antichità e lo Stato di Israele contemporaneo, Obama ha chiesto di vedere i Rotoli del Mar Morto e poi di visitare la tomba di Teodoro Herzl, padre del sionismo. Insomma, dall'antichità ai giorni nostri. È inequivocabile il riconoscimento da parte del presidente americano della versione che i leader sionisti fondatori dello Stato di Israele hanno dato della storia di questa terra. Allo stesso tempo è anche un superamento del "malinteso" del giugno 2009. Allora, dopo il suo discorso al Cairo rivolto ai popoli musulmani, Obama non si recò in Israele ma andò in Polonia a visitare il lager di Buchenwald. Quella visita in terra polacca, ricordava recentemente il Washington Post, sembrò agli israeliani un indiretto appoggio alla tesi che Israele sia nato come risposta al senso di colpa europeo per l'Olocausto e non abbia legittimità storica. Obama ha anche spazzato via gli ultimi dubbi sul suo pensiero "vero", esibendosi con una frase in ebraico: «Shalom, tov lihiot shuv ba-Aretz», ossia: «Saluti, è bello essere di nuovo nella Terra» (d'Israele). Non è solo una frase di cortesia. Tutto è calcolato in questa visita. Il presidente Usa non ha detto "nello Stato di Israele" ma nella "Terra" biblica d'Israele, espressione di solito usata dagli israeliani con una solida ideologia sionista. Musica per le orecchie di Netanyahu. Nena News 2

martedì 26 marzo 2013

DICHIARAZIONE DI ECO IN RISPOSTA A PACIFICI

Il nostro gruppo, Ebrei contro l'occupazione, si è formato anni fa perchè non potevamo più sopportare le voci ufficiali ebraiche che erano sempre e incondizionatamente, diremmo organicamente, filo israeliane, nonostante decenni di occupazione israeliana in Cisgiordania e Striscia di Gaza, il costante aumento delle colonie, una politica di occupazione crudele e manifestamente atta a cercare di scoraggiare e sgombrare il campo da chi da sempre lì abitava: i palestinesi. Sono passati anni da quel giorno in cui, durante una manifestazione pro-Palestina, siamo sfilati per Roma col nostro striscione, accolti in piazza da un emozionante e affettuoso scroscio di applausi il cui senso era evidente: grazie per esserci, grazie per impedirci di pensare che gli ebrei con la loro storia, sono tutti indifferenti alla tragedia palestinese. Ed eccoci oggi, ancora qui, a riaffermare la giustezza della causa palestinese, nonostante Riccardo Pacifici, un ebreo ufficiale che rilascia interviste sui giornali internazionali, continui ad avere come unica bussola la difesa dello Stato di Israele spingendosi ad affermare (senza purtroppo dare l'esempio e in questo è molto italiano) che gli ebrei italiani dovrebbero prepararsi ad emigrare in Israele. Perchè? Perchè in Italia c'è chi critica la politica israeliana. Indipendentemente da ogni giudizio su questa o quella personalità politica italiana, vogliamo riaffermare la nostra assoluta, severa condanna dell'occupazione israeliana nei territori palestinesi. Pacifici è un analfabeta della politica, che non sa scindere gli interessi di uno Stato, che in quanto tale si muove con le sue logiche, e una minoranza, gli ebrei italiani, che ha in questo paese una storia millenaria; non si rende nemmeno conto che a furia di dare dell'antisemita a chiunque critichi il più che criticabile Stato di Israele, contribuisce indirettamente a sentimenti anti ebraici perché come tutti sanno e come il diritto internazionale afferma attraverso le risoluzioni dell'Onu, Israele è dalla parte del torto, un torto che è un insulto alla Memoria, la tanto sbandierata e strumentalizzata Memoria.

lunedì 25 marzo 2013

Tre donne forti e coraggiose

Tre donne forti e coraggiose di Gianfranca Fois Fares Odeh, 13 anni, Mohammed Al Dura, 12 anni, Iman Hejjo, 4 mesi Sono i nomi di bambini palestinesi uccisi "per caso" dal 2000 al 2002, solo alcuni delle centinaia, la maggior parte senza nome né età. Non sono morti in guerra né in conflitti a fuoco, ma appunto "per caso", nel cortile di una scuola, ad un posto di blocco, nella culla, alcuni mentre lanciavano un sasso contro un carro armato israeliano, vittime di un progetto espansionista disumano e crudele. E' questo che ci dice nel prologo del suo libro di racconti "Festa di rovine" Miriam Marino, ebrea italiana, da tantissima anni schierata apertamente dalla parte delle vittime, degli oppressi nel conflitto israelo- palestinese (che forse sarebbe meglio chiamare sionista-palestinese) e smonta subito l'idea ipocrita che questo sia un conflitto tra uguali. Miriam infatti fa parte dell'associazione"Ebrei contro l'occupazione", oltre che delle associazioni "Amici della Luna Rossa palestinese" e "Stelle Cadenti-Artisti per la pace". "Festa di rovine", da un verso del poeta arabo contemporaneo Mahmud Darvish il cui villaggio natale è stato distrutto e non appare più nemmeno sulle carte geografiche, contiene diciotto racconti, gli ultimi dei quali ambientati a Baghdad, prima e durante la seconda guerra irakena, contemporanea alla seconda Intifada. I racconti prendono spunto da fatti reali ma spesso approdano nel fantastico, e il fantastico, come avviene nella migliore letteratura, spesso ci restituisce la realtà in modo più comprensibile e vicino. In tutti è presente la morte, ma con la morte la vita e talvolta si aprono spiragli di speranza che improvvisamente fanno saltare tutti gli schemi codificati. La scrittrice non si sottrae ai problemi che nascono dal suo essere ebrea, affronta con coraggio la lotta contro l'occupazione israeliana della Palestina, e questo le è costata la rottura di relazioni anche importanti con amici ebrei. Miriam Marino ha voluto sottolineare nel suo intervento il ruolo che l'informazione ha svolto e svolge nella narrazione del conflitto israelo-palestinese. Mentre per la prima Intifada nel 1987 grazie proprio all'informazione il mondo viene a scoprire la realtà dell'oppressione a cui sono sottoposti i Palestinesi da parte dello stato israeliano, per la seconda Intifada, invece, Israele riesce a controllare l'informazione, e infatti emergono solo le notizie di attentati terroristici da parte dei Palestinesi e non la distruzione di uomini (circa tremila), di infrastrutture, di memorie, effettuate dall'esercito israeliano. Miriam Marino è la terza donna che abbiamo conosciuto all'interno degli incontri organizzati all'Università in occasione della IX settimana contro l'apartheid israeliano ,le altre due sono Leila Khaled e Rafeef Ziadah, palestinesi. Leila Khaled, la prima donna dirottatrice d' aerei (ora donna politica che porta avanti la lotta in altro modo), attraverso il collegamento Skype, saluta i giovani universitari cagliaritani e ripercorre alcuni degli episodi della recente storia palestinese, ricorda momenti della vita quotidiana dei Palestinesi tra angherie e umiliazioni. Prime fra tutte la confisca dei terreni e il taglio degli alberi d'ulivo, pianta di grande valore economico e simbolico per il popolo palestinese, da parte degli Israeliani che in questo modo tolgono la stessa possibilità di vita e colpiscono la dignità delle persone. E infine Rafeef Ziadah riuscita, unica della sua famiglia, perché si è nascosta per due giorni sotto un letto, a sfuggire al massacro di Sabra el Chatila in Libano quando i falangisti cristiani libanesi, appoggiati e istigati da alti ufficiali dell'esercito israeliano, compirono una terribile strage (circa ottomila persone uccise, soprattutto vecchi, donne e bambini). Rafeef è una poetessa che usa la lingua inglese per denunciare, attraverso la poesia, l'oppressione del suo popolo, oppressione sostenuta anche dall'aiuto militare ed economico degli Stati Uniti e dei paesi occidentali. Tre sono le richieste che avanza nelle sue opere: il ritorno dei profughi, la parità di diritti tra israeliani e Palestinesi, la fine dell'occupazione militare. Le sue poesie sono espresse con un linguaggio chiaro e semplice ma espressivo e appassionato. Una delle più sofferte e sentite è certamente "We teach life, Sir", (Noi insegniamo la vita, signore), risposta in versi alla domanda di un signore inglese che le aveva detto che forse il conflitto in Medio Oriente si sarebbe potuto risolvere se i Palestinesi avessero smesso di insegnare l'odio per gli Israeliani. We teach life, Sir. We Palestinians teach life after they have occupied the last sky We Palestinians teach life after they have built their settlements and apartheid walls, after the last skies. We teach life, Sir. Intifada: sollevazione contro l'occupazione israeliana della Palestina

venerdì 15 marzo 2013

Un autobus chiamato apartheid

TAGLIO BASSO - Michele Giorgio Ma gli israeliani si disinteressano di questa nuova discriminazione verso i palestinesi Dopo le strade adesso arrivano in Cisgiordania anche le linee di autobus separate per coloni israeliani e palestinesi. La compagnia «Afikim», che trasporta i palestinesi dai Territori occupati in Israele, ha organizzato linee di autobus diverse per ebrei e arabi. Motivazione ufficiale? Le lamentele dei coloni che prendono gli stessi mezzi dei palestinesi per andare in Israele e che dicono di temere attentati e aggressioni «da parte degli arabi». È un altro passo verso quel sistema di segregazione in Cisgiordania che i palestinesi denunciano da tempo e che avviene mentre nel mondo si ricorda la figura di Rosa Parks (nata il 4 febbraio 1913), attivista dei diritti degli americani neri, divenuta celebre per aver rifiutato nel 1955 di cedere il posto su un autobus ad un bianco. Dalla parte dei coloni si è schierato subito il ministero dei trasporti israeliano che però nega che si tratti di autobus speciali per i palestinesi. «Non abbiamo organizzato automezzi separati, ma due diverse linee per migliorare i servizi offerti ai lavoratori arabi che entrano in Israele dal posto di blocco di Eyal - ha spiegato un portavoce - il Ministero non è autorizzato a impedire a nessun passeggero di salire a bordo di un mezzo di trasporto pubblico: la creazione delle nuove linee è stata fatta con il completo accordo dei palestinesi». Il portavoce militare da parte sua mette le mani avanti e dice che le forze armate non sono coinvolte in alcun modo. «L'esercito - ci ha detto ieri sera una portavoce dei comandi militari - non è competente per queste cose, non sono decisioni nostre». Protestano gli attivisti palestinesi che parlano di «autobus dell'apartheid» nel quadro di un progetto di segregazione più ampio. E trovano la piena solidarietà di Betselem, il centro israeliano per i diritti umani nei Territori occupati. «Il tentativo di segregazione - afferma la direttrice, Jessica Montel - è palese e le giustificazioni fornite non bastano a camuffare una politica razzista che intende unicamente impedire ai palestinesi di salire sugli autobus che prendono i coloni». La richiesta dei coloni parte anche da un'altra motivazione. I settler israeliani viaggiando con i palestinesi sono costretti ad attendere i lunghi controlli, ai posti di blocco di polizia ed esercito, ai quali sono soggetti i palestinesi. Mentre si spogliano, mostrano documenti, si sottopongono alla trafila quotidiana di vessazioni che le autorità chiamano «controlli di sicurezza», i coloni sbuffano, guardano l'orologio e forse pensano che questa perdita di tempo sarebbe evitabile se a bordo non salissero anche i palestinesi. In ogni caso, i coloni preferiscono non viaggiare con gli arabi. Da qui la decisione del ministero di organizzare linee separate, da una parte gli israeliani, dall'altra i palestinesi. Ieri sera la televisione pubblica israeliana ha mandato in onda un servizio sull'«autobus dell'apartheid» e confermato che il passo fatto dalle autorità ha origine dalle proteste dei coloni. Ciò di cui la tv non ha riferito è l'indifferenza della popolazione israeliana verso la notizia. E questo preoccupa anche più delle linee di autobus separate. Qualche mese fa il quotidiano Haaretz pubblicò un sondaggio che mostrava come una percentuale di israeliani, ben più alta rispetto al passato, non è contraria a forme di segregazione per i palestinesi della Cisgiordania e anche a limitare i diritti politici degli arabi con cittadinanza israeliana.

Per Rachel Corrie, uccisa dieci fa.

______________________________________________________________________________ Comunicato. Per Rachel Corrie, uccisa dieci fa. Oggi, come ogni anno da quando il bulldozer israeliano la uccise, rendiamo omaggio a Rachel Corrie e invitiamo tutti i sostenitori reali dei diritti umani e della causa palestinese, che della loro violazione subisce quotidianamente le conseguenze, a partecipare ovunque possibile alle manifestazioni che si svolgeranno in ricordo di Rachel, del suo coraggio e del suo sacrificio. Che ogni fiore, ogni parola, ogni pensiero per Rachel sia anche una condanna verso la vergognosa sentenza del tribunale israeliano e una denuncia contro le complicità istituzionali internazionali che rendono impuniti i crimini commessi dallo stato di Israele. Associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese, onlus

mercoledì 13 marzo 2013

Ribelli siriani addestrati dall'Occidente

Der Spiegel: trainer americani addestrano l'Esercito Libero Siriano in Giordania. L'intelligence di Amman aggiunge: francesi e britannici impegnati con 10mila ribelli. di Emma Mancini Roma, 11 marzo 2013, Nena News - Un gruppo di americani sta addestrando i gruppi armati siriani di opposizione in Siria. A rivelarlo è stato ieri il settimanale tedesco Der Spiegel, che cita le voci degli anonimi partecipanti ai training. Ormai l'intervento militare e strategico occidentale nella guerra civile siriana è sempre più pervasivo. La scorsa settimana a Roma il segretario di Stato Usa, John Kerry, aveva annunciato l'invio di 60 milioni di dollari ai ribelli anti-Assad. Kerry aveva tenuto a sottolineare che il denaro sarebbe servito per fornire aiuti umanitari - cibo e medicinali - ma soltanto il giorno precedente da Parigi aveva annunciato che la Casa Bianca era pronta ad inviare veicoli blindati e a fornire addestramento militare. Ieri è giunta la conferma: la Giordania è diventata il teatro dell'addestramento militare dei ribelli. Secondo il Der Spiegel, non è chiaro se si tratti di membri dell'esercito statunitense o di contractor privati, seppure molti di loro siano in uniforme. Come riportato dalle fonti del magazine tedesco riportano, sarebbero già stati addestrati 200 uomini, ma l'obiettivo del programma è di formare circa 1.200 combattenti dell'Esercito Libero Siriano, divisi in due campi addestramento, uno a Sud della Giordania e uno ad Est. Intervengono anche funzionari giordani: secondo il The Guardian, agli istruttori americani si aggiungono inglesi e francesi, anch'essi impegnati secondo fonti dell'intelligence della monarchia hashemita nel training ai ribelli anti-Assad. Si tratterebbe di un programma sostenuto dallo stesso governo di Amman e che prevede la formazione di circa 10mila ribelli - esclusi i gruppi islamisti radicali: "I servizi segreti giordani vogliono evitare che i salafiti attraversino la Giordania per poi entrare in Siria". Silenzio in casa dei presunti addestratori: il Dipartimento della Difesa Usa e i Ministeri degli Esteri britannico e francese non hanno voluto commentare la notizia pubblicata dal Der Spiegel. Certo è che ormai l'intervento occidentale è palese. Nessuna operazione ufficiale, ma un sostegno finanziario e militare ai ribelli siriani sulla falsa riga di quanto avvenuto in Libia, seppur senza la copertura della NATO. L'Occidente, nel tentativo di rovesciare il presidente siriano Assad restando parzialmente nell'ombra e dipingendo i ribelli esclusivamente come combattenti per la libertà, è sostenuto nello sforzo dagli storici alleati arabi, i Paesi del Golfo. Arabia Saudita e Qatar, leader all'interno della Lega Araba, stanno facendo pressioni sugli altri Paesi membri perché inviino armi ai ribelli. La scorsa settimana la Lega Araba ha deciso di autorizzare - o meglio, ha invitato - i Paesi membri a fornire armi e equipaggiamento militare alle opposizioni armate siriane, una decisione giunta proprio mentre il segretario di Stato Kerry visitava la regione. Altalenante la posizione dell'Unione Europea, che come spesso è accaduto veste i panni dell'incendiario e poi del pompiere. Oggi i ministri degli Esteri dei Paesi membri si incontrano a Bruxelles per stabilire nuovi passi nei confronti della crisi siriana: secondo le prime voci, la UE potrebbe alleggerire l'embargo di armi verso Paesi che riforniscono di equipaggiamento militare i ribelli siriani, nonostante l'Alto Rappresentante agli Esteri, Catherine Ashton, propenda per una soluzione politica necessaria "a fermare il massacro". Il tutto mentre le violenze compiute da entrambe le parti si intensificano, da parte dell'esercito governativo e da parte dei ribelli che ora si danno anche ai rapimenti: nono sono stati ancora liberati i 21 osservatori ONU filippini, rapiti il 5 marzo da un gruppo armato anti-Assad, le "Brigate dei Martiri di Yarmouk", milizie che in passato hanno compiuto esecuzioni sommarie sulle quali sta indagando Human Rights Watch.Nena News

martedì 12 marzo 2013

Sovranità nazionale? Che roba è?

Mentre rischiano l’incidente diplomatico con l’India per trattenere i due marò, riconoscono ai militari USA/NATO operanti in Italia la più completa impunità: L’Italia? Una colonia della Nato. E’ certificato di: Matteo Mascia E così, zitto zitto, quatto quatto, il nostro caro governo “tecnico” dimissionario ha voluto certificare ulteriormente, con una ‘lieve’ modifica al regolamento 1666 del 1956, la subalternità italiana di fronte agli eserciti atlantici. Il nuovo testo è così intitolato: “Approvazione del regolamento relativo all’applicazione dell’articolo VII della Convenzione fra gli Stati aderenti al Trattato del Nord Atlantico sullo “status” delle loro Forze armate, firmata a Londra il 19 giugno 1951”. Le norme in questione hanno in pratica “raccordato” - dicono - l’ordinamento italiano con quello militare del Patto Atlantico. “Su proposta dei ministri degli affari esteri, della giustizia, dell’interno e della difesa il Consiglio ha approvato in via definitiva, dopo aver acquisito il parere del Consiglio di Stato, una modifica al regolamento n.1666 del 1956, concernente le modalità di esercizio della rinuncia alla giurisdizione penale italiana nei confronti di militari stranieri nell’ambito Nato”, si legge nel comunicato diffuso ieri dal Governo. “Il regolamento - si legge - adegua per il futuro le vecchie disposizioni alle norme del codice di procedura penale e consente l’esercizio della rinuncia coerentemente con la precisazione dei fatti nel corso del processo”. Viene sancita, cioè, l’extraterritorialità Nato del personale militare in forza in Italia, di fatto sanando ex post il vulnus già tristemente evidenziato, ad esempio, per la strage del Cermis, con l’impossibilità di giudicare in Italia gli autori del crimine. E’ vero che, nella sostanza, cambia poco o nulla. La rinuncia deve essere considerata una decisione di tipo politico, non a caso, il regolamento in questione accorda questa facoltà al ministro della Giustizia. Organo che deve agire con il ministro degli Esteri o della Difesa a seconda dei casi. Non solo, è previsto un immediato coinvolgimento dei Comandi militari e, conseguentemente, di Paesi stranieri. I giudici italiani procedenti avranno più a che fare con degli ostacoli. Le norme in questione rendono più che subalterno, nel “diritto” oltre che nei fatti, il nostro Paese di fronte agli eserciti atlantici. Una irrituale non proseguibilità giudiziaria renderà da oggi anche formalmente impossibili processi per “reati comuni” compiuti da personale militare straniero. Il diritto internazionale fornisce sicuramente delle garanzie per il personale diplomatico e, quindi, per le alte sfere dell’organizzazione militare internazionale. Cautele che non dovrebbero affatto fare da schermo in processi che hanno per oggetto fatti lontanissimi dalla gestione dei rapporti tra Forze armate alleate. In giurisprudenza risultano addirittura applicazioni per imputazioni come lo spaccio di stupefacenti o lo stupro. La precisazione dei fatti nel corso del processo sarà inutile, non servirà a nulla emettere una sentenza che potrà non essere applicata né dalle istituzioni italiane né da quelle di un Paese alleato. Ovviamente, da un esecutivo “attentissimo” alle relazioni con quelli che si definiscono i nostri “interlocutori internazionali” non ci potevamo aspettare condotte diverse. Il rapporto di sudditanza con chi gestise il Patto atlantico è un classico dei governi succedutisi in Italia nel dopoguerra. La sovranità nazionale non è al centro delle agende politiche dei partiti “istituzionali”. Lo apprese bene a suo tempo l’ex ministro socialista Rino Formica che scoprì una anonimissima “circolare” del commercio estero che di fatto dichiarava l’extraterritorialità di ogni trasferimento “atlantico” di beni e persone sul suolo nazionale italiano. E lo apprese ancora più bene, a suo discapito, il presidente del Consiglio socialista Bettino Craxi, autore dell’affronto di Sigonella e del reclamo di una sovranità “non concessa” contro il Nostro Lord Protettore, gli Stati Uniti d’America. da Rinascita L’Italia? Una colonia della Nato. E’ certificato di: Matteo Mascia E così, zitto zitto, quatto quatto, il nostro caro governo “tecnico” dimissionario ha voluto certificare ulteriormente, con una ‘lieve’ modifica al regolamento 1666 del 1956, la subalternità italiana di fronte agli eserciti atlantici. Il nuovo testo è così intitolato: “Approvazione del regolamento relativo all’applicazione dell’articolo VII della Convenzione fra gli Stati aderenti al Trattato del Nord Atlantico sullo “status” delle loro Forze armate, firmata a Londra il 19 giugno 1951”. Le norme in questione hanno in pratica “raccordato” - dicono - l’ordinamento italiano con quello militare del Patto Atlantico. “Su proposta dei ministri degli affari esteri, della giustizia, dell’interno e della difesa il Consiglio ha approvato in via definitiva, dopo aver acquisito il parere del Consiglio di Stato, una modifica al regolamento n.1666 del 1956, concernente le modalità di esercizio della rinuncia alla giurisdizione penale italiana nei confronti di militari stranieri nell’ambito Nato”, si legge nel comunicato diffuso ieri dal Governo. “Il regolamento - si legge - adegua per il futuro le vecchie disposizioni alle norme del codice di procedura penale e consente l’esercizio della rinuncia coerentemente con la precisazione dei fatti nel corso del processo”. Viene sancita, cioè, l’extraterritorialità Nato del personale militare in forza in Italia, di fatto sanando ex post il vulnus già tristemente evidenziato, ad esempio, per la strage del Cermis, con l’impossibilità di giudicare in Italia gli autori del crimine. E’ vero che, nella sostanza, cambia poco o nulla. La rinuncia deve essere considerata una decisione di tipo politico, non a caso, il regolamento in questione accorda questa facoltà al ministro della Giustizia. Organo che deve agire con il ministro degli Esteri o della Difesa a seconda dei casi. Non solo, è previsto un immediato coinvolgimento dei Comandi militari e, conseguentemente, di Paesi stranieri. I giudici italiani procedenti avranno più a che fare con degli ostacoli. Le norme in questione rendono più che subalterno, nel “diritto” oltre che nei fatti, il nostro Paese di fronte agli eserciti atlantici. Una irrituale non proseguibilità giudiziaria renderà da oggi anche formalmente impossibili processi per “reati comuni” compiuti da personale militare straniero. Il diritto internazionale fornisce sicuramente delle garanzie per il personale diplomatico e, quindi, per le alte sfere dell’organizzazione militare internazionale. Cautele che non dovrebbero affatto fare da schermo in processi che hanno per oggetto fatti lontanissimi dalla gestione dei rapporti tra Forze armate alleate. In giurisprudenza risultano addirittura applicazioni per imputazioni come lo spaccio di stupefacenti o lo stupro. La precisazione dei fatti nel corso del processo sarà inutile, non servirà a nulla emettere una sentenza che potrà non essere applicata né dalle istituzioni italiane né da quelle di un Paese alleato. Ovviamente, da un esecutivo “attentissimo” alle relazioni con quelli che si definiscono i nostri “interlocutori internazionali” non ci potevamo aspettare condotte diverse. Il rapporto di sudditanza con chi gestise il Patto atlantico è un classico dei governi succedutisi in Italia nel dopoguerra. La sovranità nazionale non è al centro delle agende politiche dei partiti “istituzionali”. Lo apprese bene a suo tempo l’ex ministro socialista Rino Formica che scoprì una anonimissima “circolare” del commercio estero che di fatto dichiarava l’extraterritorialità di ogni trasferimento “atlantico” di beni e persone sul suolo nazionale italiano. E lo apprese ancora più bene, a suo discapito, il presidente del Consiglio socialista Bettino Craxi, autore dell’affronto di Sigonella e del reclamo di una sovranità “non concessa” contro il Nostro Lord Protettore, gli Stati Uniti d’America.

lunedì 11 marzo 2013

Lampi di terza Intifada

Mobilitati dallo sciopero della fame dei detenuti politici, migliaia di palestinesi sono scesi in strada con manifestazioni e raduni. Il ruolo dei Comitati popolari sabato 23 febbraio 2013 10:10 di Michele Giorgio Gerusalemme, 23 febbraio 2013, Nena News - Lampi di terza Intifada. A Gerusalemme, Ramallah, Hebron, Nabi Saleh e altre località. Cresce nelle dimensioni e nei contenuti la protesta popolare palestinese contro l'occupazione, innescata dagli scioperi della fame osservati dai prigionieri politici nelle carceri israeliane. Manifestazioni e raduni che raccontano la rabbia e la frustrazione che covano sotto quella calma apparente che da tempo regna in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Allo stesso tempo sono anche il segnale più limpido del crescente protagonismo dei comitati popolari palestinesi. Dai villaggi agricoli, lungo il Muro israeliano in Cisgiordania, la lotta non violenta si sta trasferendo a ridosso dei centri urbani e dei campi profughi. Le iniziative si moltiplicano, a cominciare dalla creazione di «avamposti palestinesi» nelle aree che Israele ha destinato all'espansione delle colonie. Sono enormi le potenzialità di questo movimento. Lo hanno capito i comandi militari israeliani, che ieri hanno schierato ingenti forze per contrastare i manifestanti. In mezzo, tra le parti contrapposte, c'è la goffa polizia dell'Autorità nazionale del presidente Abu Mazen che tenta di fare interposizione e di riportare la calma. Ieri sulla spianata delle moschee di Gerusalemme, al termine della preghiera islamica del venerdì, dozzine di giovani palestinesi hanno scandito slogan a sostegno dei detenuti politici. Ad un certo punto qualche giovane ha lanciato sassi contro la polizia che è intervenuta arrestando diversi manifestanti. A Hebron circa mille palestinesi e gruppetti di attivisti internazionali si sono riuniti in Bab Zawye, all'ingresso della zona H2 - controllata da Israele e dove 600 coloni vivono in mezzo a 25mila palestinesi - per chiedere la riapertura di Shuhada Street, la strada commerciale più importante della casbah, chiusa dalle autorità di occupazione nel 2000. Gli attivisti hanno marciato verso l'ingresso di Shuhada Street, dove però sono stati bloccati dall'esercito israeliano che ha lanciato candelotti di gas lacrimogeno e granate assordanti. Un giovane è stato portato in ospedale perché colpito ad una gamba da un proiettile. Una ventina di palestinesi sono rimasti feriti o intossicati dal gas lacrimogeno. Ad Anata, tra Ramallah e Gerusalemme, un palestinese avrebbe forzato un posto di blocco della polizia, ferendo un agente, ed è poi riuscito a fuggire. Ci sono scontri a Nabi Saleh e vicino alla prigione di Ofer (Ramallah) dove centinaia di giovani hanno manifestato per il terzo giorno consecutivo a sostegno dei detenuti in sciopero della fame, in particolare di Samer Issawi, liberato con lo scambio di prigionieri della fine del 2011 in cambio del soldato Ghilad Shalit e condannato a 8 mesi di carcere per essersi recato in Cisgiordania violando le restrizioni ai suoi movimenti. Considerando il periodo già trascorso in prigione, Issawi, che fa lo sciopero della fame da oltre 200 giorni, dovrebbe uscire il 6 marzo. Rischia però di dover scontare condanne ricevute in precedenza e di rimanere in carcere per molti anni ancora. Il detenuto perciò continua la sua protesta. L'altra notte Jafar Ezzedine e Ayman Sharawna, due dei quattro prigionieri in sciopero della fame, sono stati ricoverati in ospedale. Intanto la Federazione di calcio palestinese ha detto che è «troppo presto» per organizzare una partita contro Israele come aveva proposto Sandro Rosell, presidente del Barcellona FC. «Questa idea provocherebbe un terremoto nella regione se venisse attuata, è troppo presto e la palla è nel campo israeliano», ha detto il presidente della Federazione, Jibril Rajoub. Nena News 10

Discorso del presidente dell'Uruguay, José Mujica, al summit di Rio de Janeiro, 20 - 22 June 2012

Autoritá e organizzazioni presenti di tutte le latitudini, mille grazie. Grazie al popolo del Brasile e alla sua Presidentessa, Dilma Rousseff. Grazie per la buona fede che, sicuramente, ha caratterizzato tutti gli oratori che mi hanno preceduto. Esprimiamo la profonda volontá come governanti di sostenere tutti gli accordi che questa nostra povera umanitá possa sottoscrivere. Mi sia permesso di fare alcune domande ad alta voce. Tutto il pomeriggio si é parlato di sviluppo sostenibile. Di tirare fuori dalla povertá masse immense. Che cosa ruota nella nostra testa? Il modello di sviluppo e di consumo attuale delle societá ricche? Mi domando: che cosa succederebbe al pianeta se gli indiani avessero in proporzione la stessa quantità di auto per famiglia che hanno i tedeschi? Quanto ossigeno resterebbe per poter respirare? Piú chiaramente: il mondo possiede oggi gli elementi materiali per rendere possibile che 7 o 8 miliardi di persone possano ottenere lo stesso grado di consumo e di spreco che hanno le societá occidentali piú opulente? Sará possibile tutto ció? O dovremmo sostenere un giorno, un altro tipo di discorso? Perché abbiamo creato questa civilizzazione figlia del mercato, figlia della competizione e che ha portato un progresso materiale portentoso ed esplosivo? Ma l’economia di mercato ha creato una societá di mercato. E ci ha regalato questa globalizzazione, che significa guardare a tutto il pianeta. Stiamo governando la globalizzazione o è la globalizzazione che ci governa? É possibile parlare di solidarietá e di stare tutti insieme in una economía basata sulla competizione spietata? Fino a dove arriva la nostra fraternitá? Non dico queste cose per negare l’importanza di quest’evento. Ma al contrario: la sfida che abbiamo davanti é di una grandezza colossale e la grande crisi non é ecologica, é política! L’uomo non governa oggi le forze che ha sprigionato, ma queste forze governano l’uomo ... e la vita! Non veniamo alla luce solamente per svilupparci, cosí, in generale. Veniamo alla luce per essere felici, perché la vita é corta e se ne va via rapidamente. E nessun bene vale quanto la vita, questo é elementare. Ma se la vita scappa via, lavorando e lavorando per consumare sempre di più perché la societá del consumo é il motore, perché, in definitiva, se si paralizza il consumo, si ferma l’economia, e se si ferma l’economia, appare per tutti il fantasma della stagnazione. Ma questo iperconsumo é lo stesso che sta aggredendo il pianeta. Ma loro devono generare questo iperconsumo, producono cose che durano poco, perché devono venderne sempre di più. Una lampadina elettrica, quindi, non puó durare piú di 1000 ore accesa. Ma esistono lampadine che possono durare 100mila ore accese! Ma questo non si puó fare perché il problema é il mercato, perché dobbiamo lavorare e dobbiamo sostenere una civilizzazione dell’usa e getta, e cosí rimaniamo in un circolo vizioso. Questi sono problemi di carattere político che ci stanno indicando che é ora di cominciare a lottare per un’altra cultura. Non si tratta di immaginare il ritorno dell’uomo all’epoca delle caverne, né di costruire un monumento all’arretratezza. Ma non possiamo continuare, indefinitamente, ad essere governati dal mercato, dobbiamo cominciare a governare il mercato. Per questo dico, nella mia umile maniera di pensare, che il problema che abbiamo davanti é di carattere político. I vecchi pensatori – Epicuro, Seneca o anche gli Aymara – dicevano: “povero non é colui che ha poco, ma colui che ha bisogno di molto e desidera ancora di piú e di piú”. Questa é una chiave di carattere culturale. Quindi, saluteró volentieri lo sforzo e gli accordi che si faranno. E li sosterró, come governante. So che alcune cose che sto dicendo, stridono. Ma dobbiamo capire che la crisi dell’acqua e l’aggressione all'ambiente non ne sono la causa. La causa é il modello di civilizzazione che abbiamo costruito. E quello che dobbiamo cambiare é la nostra forma di vivere! Appartengo a un piccolo paese dotato di molte risorse naturali per vivere. Nel mio paese ci sono poco piú di 3 milioni di abitanti. Ma ci sono anche 13 milioni di vacche, delle migliori al mondo. E circa 8 o 10 milioni di pecore meravigliose. Il mio paese é un esportatore di cibo, di latticini, di carne. É una semipianura e quasi il 90% del suo territorio é sfruttabile. I miei compagni lavoratori hanno lottato tanto per le 8 ore di lavoro. E ora stanno ottenendo le 6 ore. Ma chi lavora 6 ore, poi cerca un secondo lavoro; quindi lavora piú di prima. Perché? Perché deve pagare una quantitá di rate: per la moto, per l’auto e per molte altre cose e quando vuole riposarsi … é un vecchio reumatico – come me – al quale gli è già passata la vita davanti! E allora uno si fa questa domanda: questo é il destino della vita umana? Queste cose che dico sono molto elementari: lo sviluppo non puó essere contrario alla felicitá. Deve essere a favore della felicitá umana; dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, dell’attenzione ai figli, dell’avere amici, dell’avere il giusto, l’elementare. Precisamente. Perché é questo il tesoro piú importante che abbiamo: la felicitá! Quando lottiamo per l'ambiente, dobbiamo ricordare che il primo elemento dell'ambiente si chiama felicitá umana! Revisione della traduzione a cura di Alfredo Tradardi Torino, 10 marzo 2013

domenica 10 marzo 2013

8 marzo

NON SOLO L'8 MARZO E' L'8 MARZO

NON SOLO L'8 MARZO E' L'8 MARZO di Il "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo Non solo l'8 marzo, ma tutti i giorni dell'anno occorre lottare contro il femminicidio e la violenza sessuale. Non solo l'8 marzo, ma tutti i giorni dell'anno occorre lottare contro il maschilismo e il patriarcato. Non solo l'8 marzo, ma tutti i giorni dell'anno occorre lottare in difesa della vita, della dignita' e dei diritti di tutti gli esseri umani. Non solo l'8 marzo, ma tutti i giorni dell'anno occorre lottare contro tutte le violenze e tutte le complicita' con la violenza e tutte le ideologie della violenza. Non solo l'8 marzo, ma tutti i giorni dell'anno occorre che siano l'8 marzo. * Vi e' questa ineludibile evidenza: che la violenza maschile contro le donne e' la prima radice di ogni altra violenza. Vi e' questa ineludibile evidenza: che la violenza maschile contro le donne e' il primo nemico dell'umanita'. Vi e' questa ineludibile evidenza: ne discende il tuo primo dovere. * La lotta delle donne per la liberazione dell'umanita' e' la corrente calda della nonviolenza in cammino. Questo significa l'8 marzo. Sostenere la lotta delle donne per la liberazione dell'umanita' e' il primo dovere di ogni persona decente. Questo significa l'8 marzo. Ogni volta che fai la cosa giusta per contrastare la violenza maschilista, quel giorno e' l'8 marzo. Non solo l'8 marzo, ma tutti i giorni dell'anno occorre che siano l'8 marzo. Il "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo Viterbo, 7 marzo 2013 Mittente: "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, e-mail: nbawac@tin.it e centropacevt@gmail.com , web: lists.peacelink.it

sabato 9 marzo 2013

"vi chiedo di unirvi a me nel celebrare l'incredibile pilastro di forza che è mia madre, Laila Issawi".

Shireen Issawi ( Attivista e sorella di Samer Issawi). Sono cresciuta all’ombra di una grande autorevolezza, una madre con grandi ideali, che ha sofferto non solo per i suoi figli, ma che ha dovuto lottare per la libertà e la dignità di un popolo. Dai miei ricordi affiora sempre una grande considerazione per mia madre per la sua passione, per la sua dignità e la sua resilienza. Ha vissuto con l'amore per la Palestina e ci ha educati con quegli stessi suoi ideali ad amare il nostro Paese, a difendere i nostri diritti e a lottare fino a quando questi diritti non vengano raggiunti. Nel 1967 Israele ha occupato la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Improvvisamente, una forza militare straniera controlla e opprime la vita di tutto il popolo palestinese. Mia madre era forte fin dall'inizio. Era una sposa nei primi anni '70 quando è stata arrestata. E 'stata in carcere per sei mesi senza mai essere ascoltata da un tribunale. Durante la prima Intifada, le forze militari israeliane hanno razziato regolarmente la nostra casa mettendo tutto sotto sopra. Alcuni militari colpirono alla schiena mia madre che ancora oggi soffre di mal di schiena cronico, come a ricordare quel giorno. Non si è mai lamentata per il dolore nè fisico, nè morale, anzi ogni giorno che passa lo sopporta di più e lo affronta con coraggio per i suoi figli. Nonostante le sue paure, ci ha cresciuti con grande amore, dignità e forza. Ho sei fratelli e una sorella. Uno dei miei fratelli è stato ucciso un anno dopo il suo rilascio da una prigione israeliana: Fadi, morto sul colpo quando un soldato israeliano gli ha sparato un proiettile in gola nel 1994: aveva solo 16 anni. I miei fratelli Ra'fat, Firas e Shadi hanno trascorso complessivamente 25 anni nelle prigioni israeliane. Midhat e Samer sono ancora nelle carceri israeliane, hanno già scontato un certo numero di anni della loro vita in carcere e di stanno ancora scontando. Anch'io ho trascorso un anno in carcere (nel carcere di Hasharon nel 2010). Credo di essere stata la fortunata nella mia famiglia. Nelle carceri israeliane ci sono le donne insieme a 200 bambini e circa 4.500 uomini. Mio fratello Samer è ora in sciopero della fame già da ben 222 giorni. Durante questo periodo, le forze di occupazione israeliane hanno cercato numerose tattiche per porre fine alla protesta di mio fratello, tra cui la persecuzione della mia famiglia. Io sono stata recentemente arrestata nell’ambito di un tentavo di convincere mio fratello ad abbandonare il suo sciopero. Tutto quello che riuscivo a pensare, quando mi hanno portata in quella cella di isolamento sporca e fredda, era come incredibilmente mio fratello Samer riescisse, non solo a sopportare l'umiliazione per essere ingiustamente imprigionato da un paese straniero che occupa la nostra terra, ma anche a sopportare le condizioni orribili della prigione e con la forza di volontà a rifiutare il cibo come forma di protesta pacifica. Come mia madre anch'io mi sono impegnata per la lotta contro l'ingiustizia. Per questo motivo, ho deciso di studiare legge. Ho studiato legge per difendere i miei fratelli, così come tutti i nostri combattenti per la libertà nelle carceri israeliane che resistono all'occupazione, rimanendo saldi in condizioni gravi. E nonostante Israele mi abbia sospesa per 6 mesi dall'esercizio della mia professione, un paese che non dovrebbe avere alcuna autorità su di me o la mia licenza, continuerò la campagna per il sostegno internazionale, per chiedere la liberazione di mio fratello Samer e di tutti i prigionieri politici palestinesi. Continuerò a essere forte fino a quando tutti i miei fratelli saranno liberi, finchè il nostro amato paese, la Palestina, sarà libera! Soffriamo un’occupazione militare orrenda della nostra terra, la nostra vita e la nostra stessa esistenza in Palestina. Ma, come mia madre, io sopporterò il dolore e l'agonia per la liberazione della mia patria. In questo giorno, in cui si celebrano in tutto il mondo le conquiste delle donne, vi chiedo di unirvi a me nel celebrare l'incredibile pilastro di forza che è mia madre, Laila Issawi. Lei continua a darmi la speranza che, un giorno, vivremo in dignità e in libertà. Il mio unico desiderio è che mio fratello Samer possa vivere per vedere quel giorno. [traduzione Consolata L. ]

venerdì 8 marzo 2013

Una tenda contro la detenzione amministrativa

Tre ragazzi e due ragazze palestinesi da 16 giorni vivono solo di acqua e sale. Non si fermeranno finchè non sara' liberato Samer Issari e gli altri in detenzione amministrativa adminSito giovedì 7 marzo 2013 10:09 di Giovanni Dal Santo Ramallah, 7 marzo 2013, Nena News - Ahmad, Waleed, Mahmoud, Nasim, Sawsan. Cinque nomi qualunque, cinque giovani che da 16 giorni a questa parte, in solidarietà al loro compagno Samer Issawi e a tutti gli altri "Hunger Strikers" palestinesi, si rifiutano di mangiare. Una forma di protesta, lo sciopero della fame, che porta all'autodistruzione dell'individuo. Autodistruzione non rapida e shockante come le cosiddette "torce umane", nate tra i monaci tibetani e diventate famose nella recente "primavera araba", immortalabili con un semplice scatto che, in un attimo, può fare il giro del mondo. Un hunger striker può sopravvivere anche 226 giorni, come sta accadendo a Samer Issawi, detenuto palestinese rilasciato dal carcere nell'ottobre 2011, nello scambio di prigionieri tra Israele e l'Autorità Palestinese, che ha permesso la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit in cambio di 1027 prigionieri palestinesi. Samer però e' stato arrestato qualche mese dopo. Ufficialemnte per aver violato l'ordine di non uscire da Gerusalemme, in realta' per il sospetto di attivismo politico, che secondo la legge militare israeliana - ossia quella valida nei Territori Occupati Palestinesi - è un ottimo motivo per tenere in carcere una persona fino a nove mesi, senza un processo. Nasce da qui l'idea di questa protesta pacifica e apparentemente silenziosa, portata avanti da altri prigionieri politici in altre cause simili a quella palestinese, basti pensare a Bobby Sands, l'hunger striker irlandese, leader della cosiddetta "Blanket protest", che perse la vita nel maggio 1981 dopo 66 giorni di sciopero della fame in una prigione Inglese, in Irlanda del Nord. Ahmad, Waleed, Mahmoud, Nasim, Sawsan: 3 ragazzi, 2 ragazze. Giovanissimi. Hanno piantato una tenda a Ramallah, la capitale amministrativa di quello che dovrebbe diventare lo stato palestinese (il primo stato al mondo ad oggi senza terra), di fronte al palazzo che ospita l'headquarter delle Nazioni Unite della West Bank. Sono le 19,30 e trovo i tre ragazzi attorno ad una stufetta elettrica; le ragazze, Nasim e Sawsan, sono andate a casa a dormire, come vogliono le locali norme sociali, e torneranno qui domattina, alle sei. Fuori si sente sibilare il vento freddo di questa primavera palestinese, mentre Ahmad e Waleed mi mostrano i tre materassi su cui dormono da un paio di settimane, e mi spiegano che, da quando hanno iniziato la loro protesta, hanno assunto solamente acqua e sale; sono già stati un paio di volte ciascuno in ospedale, per dei semplici controlli, ma non mollano. Sedici giorni ad acqua e sale, e non si fermeranno finchè i loro compagni in detenzione amministrativa non verranno liberati. Hanno l'aria stanca, ma i loro occhi brillano di quello splendore interiore che hanno le persone che credono in qualcosa. Si mettono in posa con in mano un manifesto che invoca la liberazione di Samer Issawi, e mi ringraziano, perchè sperano che attraverso qualche riga io possa far parlare di loro e della loro resistenza pacifica ad un'oppressore brutale. Nena News 4

mercoledì 6 marzo 2013

Hugo Chavez ci ha lasciati

Hasta la victoria siempre, Comandante Hugo Chavez !! Alle ore 17,00 di fronte all’Ambasciata del Venezuela, in via TARTAGLIA 11, ROMA, invitiamo tutti i compagni, gli amici della rivoluzione bolivariana, a dare un saluto al Comandante Chavez ,e la più sentita fraternità e solidarietà al governo e al popolo bolivariano , portando ognuno un semplice omaggio floreale con un solo significativo garofano rosso. Rete dei Comunisti,mercoledì 6 marzo 2013. Con profondo dolore apprendiamo la notizia della morte fisica del Comandante Hugo Chavez Frias, ma il suo insegnamento vive dentro di noi e sarà sempre presente nelle lotte di tutti gli antimperialisti, gli anticapitalisti , i comunisti e i rivoluzionari di tutto il mondo. L’azione del governo bolivariano guidato dal Presidente Hugo Chavez ha dato vita ad un formidabile protagonismo politico del popolo venezuelano, chiamato a lottare per la propria indipendenza e autodeterminazione contro l’ordine reazionario delle oligarchie borghesi sostenute dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Hugo Chavez Frias è un uomo dalle umili origini, un uomo del popolo, e come tale meglio di altri ha condiviso le condizioni di vita e l’aspirazione ad una società più giusta ed equa della sua gente. Da giovane militare, nel 1989 si oppose alle politiche repressive dell’oligarchia fascista rifiutandosi di sparare sulle manifestazioni popolari. Negli anni che seguirono diede vita al “Movimiento Bolívariano MBR-200”, continuando a battersi contro l’ordinamento reazionario e finendo in carcere una prima volta nel 1992. La seconda volta fu arrestato da Presidente della Repubblica Bolivariana , l’11 aprile del 2002, in seguito ad colpo di Stato organizzato dall’Ambasciatore USA Shapiro e da un gruppo di oligarchi fascisti tra cui Henrique Capriles, candidato della destra, sonoramente sconfitto alle ultime elezioni presidenziali. Un figlio del popolo e del processo rivoluzionario venezuelano e bolivariano che per ben due volte, nel 1994 e nel 2002 , ha visto il popolo scendere dai barrios e dai ranchitos ed imporre la sua liberazione alla borghesia reazionaria e ai gorillas che lo avevano arrestato. I successi del governo bolivariano si esprimono negli avanzamenti del processo di transizione al socialismo, con una decisa e massiccia redistribuzione della ricchezza sociale prodotta, che si è tradotta in una forte politica di pianificazione socio-economica rivolta a soddisfare i bisogni dei lavoratori,dei proletari e di tutti gli sfruttati venezuelani che hanno potuto conquistare in pochi anni l’accesso alla sanità pubblica e gratuita, il diritto all’istruzione gratuita, l’allargamento e l’aumento della previdenza sociali e delle pensioni. Il sostegno popolare alla rivoluzione bolivariana e al suo Comandante sono intimamente legati all’emancipazione politica, sociale , culturale ed economica di milioni di uomini e donne. Questo è un giorno triste, innanzitutto per il popolo della rivoluzione bolivariana e per l’America Latina, ma l’esempio di vita di combattente per il socialismo del Comandante Chavez tocca il cuore e la mente dei rivoluzionari e degli sfruttati in tutto il mondo. Il suo contributo di una vita dedicata al popolo bolivariano e al riscatto del proletariato di Nuestra America è sotto gli occhi di tutti, anche dei nemici di classe, perché con lui la rivoluzione bolivariana ha rimesso in moto la storia non solo in Venezuela e in America Latina, ma ha detto ai popoli del mondo che è possibile ribellarsi, conquistare e difendere il potere popolare con la democrazia di base partecipativa. La politica del governo rivoluzionario venezuelano oggi ripropone l’attualità del socialismo nel contesto storico politico ed economico del XXI secolo, il socialismo possibile nell’attuale contesto storico caratterizzato dalla crisi sistemica del modo di produzione capitalistico e dalla conseguente aggressività dei paesi imperialisti e da una debolezza soggettiva del movimento internazionale anticapitalista organizzato. Grazie alla rivoluzione bolivariana e ai paesi dell’ALBA, i rapporti di forza tra le classi a livello internazionale hanno visto il movimento operaio e progressista assestare un duro colpo all’imperialismo, privato dell’egemonia sul continente latino-americano. In questo quadro l’alternativa socialista della rivoluzione bolivariana, dell’ALBA e l’alleanza con i governi progressisti rappresentano il punto più avanzato oggi della lotta anticapitalista. Dopo la caduta dei paesi socialisti, nel momento in cui l’imperialismo statunitense e europeo si immaginavano privi di ostacoli, la rivoluzione bolivariana, insieme alla Bolivia del MAS e del socialismo comunitario, a Cuba rivoluzionaria socialista,alla rivoluzione cittadina dell’Ecuador , hanno riaperto la prospettiva dell’ emancipazione, della sovranità autodeterminata e dell’indipendenza del continente latino-americano, e della fuoriuscita dal capitalismo mettendo concretamente in campo la prospettiva Il socialismo nel e per il XXI secolo. Il Comandante Chavez e la dirigenza politica del governo bolivariano hanno fatto della solidarietà internazionalista e dell’antimperialismo un elemento centrale della propria azione politica, guadagnandosi l’affetto e la stima dei popoli oppressi. Ricordiamo le parole di condanna nei confronti delle aggressioni sioniste in terra di Palestina, delle ripetute aggressioni imperialiste in Libia , in Siria, ed in altri paesi dell’Africa, posizioni coraggiose che sono state accompagnate dal sostegno ai movimenti di liberazione e alle forze antimperialiste. Ci stringiamo vicini con tutto il cuore e l’affetto alla famiglia del Comandante per questo tremendo momento.Vogliamo ancor più intensamente rinnovare tutto la nostra fratellanza e sostegno rivoluzionario ai compagni del PSUV, del PCV, al vice-presidente Maduro, a tutto il governo rivoluzionario, alle forze politiche, sindacali e sociali venezuelane, e a tutto il popolo che è linfa vitale e spina dorsale dell’intero processo rivoluzionario bolivariano. Siamo a fianco della gente umile e dignitosa dei barrios, delle missioni, ai militari bolivariani, ai lavoratori e ai contadini, alla folla proletaria che di nuovo tornerà a riempire di rosso le piazze per stringersi intorno al suo Comandante e per dire forte e chiaro all’oligarchia fascista e agli imperialisti di Washington e Bruxelles a che il governo è e resterà del popolo bolivariano . CHAVEZ VIVRà PER SEMPRE NELLA LOTTA RIVOLUZIONARIA DI TUTTI GLI SFUTTATI !! La lotta continua e si rafforza perché il comandante Chavez è vivo e vincerà, e resterà un indimenticabile esempio di ricchezza rivoluzionaria e patrimonio vivo dell’intera umanità che lotta per la libertà , la giustizia, l’uguaglianza , il socialismo. .Rete dei Comunisti

La AMLRP per l'8 marzo

COMUNICATO PER L'8 MARZO Resistenza femminile. Il nostro messaggio per l'8 marzo Per le donne palestinesi il mese di marzo è ricco di date importanti. Il 21 marzo in Palestina si celebra la “festa della Mamma” … però non si festeggia con i “baci perugina”, ma con l’attesa dei figli dal carcere, e con i fiori sulle tombe di quelli che dal carcere non torneranno. Il 30 marzo tante donne, vecchie e giovani, dal 1976 ad oggi, ogni anno organizzano e partecipano alle manifestazioni per la Giornata della Terra che oggi come allora si svolge sotto la costante minaccia di repressioni e uccisioni. Noi vogliamo dedicare a queste donne il nostro 8 marzo, non dimentichiamo tutte le donne che nel mondo, compresa l’Italia, lottano ogni giorno contro le più diverse forme di barbarie e di repressione frutto della sub-cultura maschilista, prima alleata dello sfruttamento capitalistico. Ma in particolare questa giornata la vogliamo dedicare alla Resistenza attiva e continua delle donne palestinesi che nei Territori occupati, a Gaza e anche in Israele, lottano per la libertà del proprio popolo e per i loro giusti diritti continuamente violati. Elencarle tutte è impossibile, ma nel nostro cuore ci sono tutte, e sono centinaia. Non elenchiamo le donne incinte morte ai check point nel dileggio dei fuorilegge israeliani in divisa militare, non elenchiamo tutte quelle uccise durante i crimini contro l’umanità rappresentati dai bombardamenti che si ripetono periodicamente, né quelle uccise durante le legittime manifestazioni contro il muro . No, le onoriamo tutte e a tutte loro è dedicata questa giornata, ma ne elenchiamo soltanto cinque, quelle alle quali in questo momento è necessario dare tutto il nostro sostegno affinché la loro lotta, di donne oltre che di militanti, sia una lotta vincente. Se vinceranno, ci sentiremo di aver vinto con loro. 02/04/2012, Hana’ Ash-Shalabi, 31 anni di Jenin, viene deportata a Gaza dopo uno sciopero della fame durato 45 giorni intrapreso per protestare contro l’illegale prassi della detenzione amministrativa. Era stata rilasciata nell’ottobre 2011 durante lo scambio prigionieri tra Hamas e Israele, ed era stata nuovamente arrestata nel febbraio 2012. 30/10/2013, Jamila Shalahdah, 51 anni di El Khalil (Hebron) viene arrestata e maltrattata dai soldati israeliani con l'unica colpa di essere attivista di Youth Against Settlements di El Khalil. La corte militare israeliana ha deciso di rilasciarla dopo il pagamento di una cauzione di 1750 NIS, ma sono pronti ad arrestarla alla prossima manifestazione. 14/01/2013, Abir Kopty, palestinese con cittadinanza israeliana, vive a Ramallah. Viene picchiata e portata via dalla polizia israeliana perché partecipa alla costruzione, in territorio palestinese, del villaggio di Bab as-Shams, una delle tante azioni legittime, condotte dai comitati popolari di resistenza non violenta, che Israele può soffocare solo perché i suoi alleati mondiali gli consentono – illegalmente – di farlo. 19/01/2013 la giovane Reema, contadina palestinese del villaggio di Um Al Arayes, sulle colline a sud di El Khalil, viene arrestata insieme alla sua bambina di 18 mesi dall’esercito israeliano perché colpevole di coltivare il suo campo!! 09/02/2013 Alaa Abu Zaytoun, del villaggio di Asira al-Shamaliya è arrestata al posto di blocco di Hawara senza alcun motivo che l’arbitrio dei soldati occupanti . A loro e alla Resistenza femminile, dedichiamo il nostro 8 marzo. Le compagne dell’associazione Amici della Mezzaluna Rossa palestinese, onlus _________________

martedì 5 marzo 2013

SAMER ISSAWI

L'ULTIMA PIETRA CHE MI RIMANE DA LANCIARE

Issawi: Non mi sono arreso all'occupante Samer Issawi, al 214esimo giorno di sciopero della fame, invia una lettera al The Guardian: "Questa battaglia è l'ultima pietra che mi rimane da lanciare". adminSito lunedì 4 marzo 2013 10:39 Commenta di Samer Issawi Gerusalemme, 4 marzo 2013, Nena News - La mia storia non è diversa da quella di tanti altri giovani palestinesi, nati e vissuti sotto l'occupazione israeliana. A 17 anni, sono stato arrestato per la prima volta e condannato a due anni. Sono stato arrestato di nuovo a vent'anni, all'inizio della Seconda Intifada a Ramallah, durante l'invasione israeliana di diverse città della Cisgiordania - quella che Israele ha ribattezzato "Operazione Scudo di Difesa". Sono stato condannato a 30 anni di prigione con l'accusa di far parte della resistenza all'occupazione. Non sono stato il primo nella mia famiglia ad essere arrestato nella lunga marcia del mio popolo verso la libertà. Mio nonno, uno dei membri fondatori dell'OLP, è stato condannato a morte dalle autorità del Mandato britannico, le cui leggi Israele utilizza ancora oggi per opprimere il mio popolo; è fuggito qualche ora prima di essere giustiziato. Mio fratello, Fadi, è stato ucciso nel 1994, all'età di 16 anni dalle forze israeliane durante una manifestazioni in Cisgiordania a seguito del massacro alla Moschea di Abramo ad Hebron. Un altro mio fratelli, Medhat, è stato in prigione 19 anni. E gli altri miei fratelli, Firas, Ra'afat e Shadi sono stati condannati a pene tra i 5 e gli 11 anni. Mia sorella, Shireen, è stata arrestata innumerevoli volte e ha scontato un anno di carcere. La casa di mio fratello è stata demolita. L'acqua e l'elettricità a casa di mia madre sono state tagliate. La mia famiglia, insieme al popolo della mia amata Gerusalemme, è continuamente vessata e attaccata, ma continua a difendere i diritti dei palestinesi e dei prigionieri. Dopo quasi dieci anni di prigione, sono stato rilasciato nell'accordo sponsorizzato dall'Egitto, tra Israele e Hamas, per il rilascio del soldato israeliano Gilad Shalit in cambio di prigionieri palestinesi. Tuttavia, il 7 luglio 2012, sono stato arrestato di nuovo vicino Hizma, area all'interno dei confini del comune di Gerusalemme, accusato di aver violato i termini del rilascio (non potevo uscire da Gerusalemme). Altri che sono stati rilasciati con l'accordo sono stati anch'essi riarrestati, alcuni senza una ragione dichiarata. Per questo ho cominciato lo sciopero della fame il primo agosto, per protestare contro la mia detenzione illegale e la violazione dell'accordo da parte di Israele. La mia salute sta deteriorando molto, ma continuerò lo sciopero della fame fino alla vittoria o al martirio. Questa è l'ultima pietra che mi rimane da lanciare contro i tiranni e i secondini, contro l'occupazione razzista che umilia il nostro popolo. Prendo la mia forza da tutti i popoli liberi del mondo che vogliono porre fine all'occupazione israeliana. I deboli battiti del mio cuore continuano grazie a questa solidarietà e a questo sostegno; la mia voce flebile trova la sua forza dalle voci più alte e penetra le mura della prigione. La mia battaglia non è solo per la mia libertà. Io e i miei compagni in sciopero della fame, Ayman, Tarik e Ja'afar stiamo combattendo una battaglia per tutti i palestinesi contro l'occupazione israeliana e le sue prigioni. Quello che sopporto è niente se confrontato con il sacrificio dei palestinesi di Gaza, dove in migliaia sono morti o sono rimasti feriti nei brutali attacchi israeliani e in un assedio disumano e senza precedenti. Tuttavia, c'è bisogno di più sostegno. Israele non può continuare nella sua oppressione senza l'aiuto dei governi occidentali. Questi governi, in particolare quello inglese, che ha una responsabilità storica nella tragedia del mio popolo, dovrebbe imporre sanzioni al regime israeliano fino a che non ponga fine all'occupazione, riconosca i diritti dei palestinesi e liberi tutti i prigionieri politici. Non preoccupatevi se il mio cuore si fermerà. Sono ancora vivo e lo sarò dopo la morte, perché Gerusalemme scorre nelle mie vene. Se muoio, è una vittoria; se saremo liberi, è una vittoria perché in ogni caso ho rifiutato di arrendermi all'occupazione israeliana, alla sua tirannia e alla sua arroganza. Traduzione a cura della redazione di Nena News

domenica 3 marzo 2013

Prigioniere palestinesi

Prigionieri palestinesi

Rapporto completo sulla condizione dei prigionieri politici

Rapporto completo sulla condizione dei prigionieri politici Scritto da Associazione Creato Domenica, 03 Marzo 2013 11:32 Visite: 7 MEM – Middle East Monitor 28.02.2013 http://www.middleeastmonitor.com/resources/reports-and-publications/5367-full-report-on-the-condition-of-palestinian-prisoners-in-israeli-jails Rapporto completo sulla condizione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane Rapporto del MEM Prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane Il numero di prigionieri e detenuti palestinesi nelle carceri israeliane e nei centri di detenzione è di 4.750 persone, provenienti da tutti i settori della società palestinese. La maggioranza (82,5 per cento) proviene dalla West Bank, il 9,6 per cento proviene dalla Striscia di Gaza, il resto da Gerusalemme e da quelle zone della Palestina occupata nel 1948, ora conosciuto come Israele. Sono divisi in circa 17 prigioni e centri di detenzione, i più noti sono: Al-Naqab, Ofer, Nafha, Gilbo’a, Shata, Ramon, Askalan, Hadarim, Eshel, Ohalei Kedar, HaSharon, Ramla e Megiddo.Del totale, 186 sono in “detenzione amministrativa”, senza accuse e 13 sono donne, la più anziana è Lina Al-Jarbouni dai territori occupati nel 1948, che è stata in prigione per 11 anni. Inoltre, ci sono 198 bambini di età inferiore ai 18 anni, 25 dei quali sono sotto i 16 anni, così come 12 membri del Consiglio Legislativo Palestinese (PLC), 3 ex ministri e un gran numero di funzionari palestinesi. Violazioni contro i prigionieri Ai prigionieri palestinesi viene spesso negata la visita di altre persone, vengono messi in isolamento e tenuti sotto la cosiddetta detenzione amministrativa, il che significa essere detenuti senza accusa né processo. Inoltre, sono sottoposti a numerose perquisizioni, le opportunità di ricevere un’istruzione sono negate, vietati i libri , viene distribuito cibo in piccole porzioni e di bassa qualità, vengono sottoposti a frequenti perquisizioni diurne e notturne. Inoltre, le carceri sono carenti di beni di prima necessità e adottano una politica ufficiale di negligenza medica, soprattutto nel caso di malattie croniche e nei confronti di coloro che necessitano di operazioni durante il periodo di detenzione. Vittime di negligenza medica sono anche i prigionieri affetti da cancro, da problemi cardiaci, malattie renali, artrite, ipertensione, asma, reumatoide, emorroidi, obesità e ulcere. Prigionieri malati Il numero di detenuti che soffrono di problemi di salute ha raggiunto quota 1400, tale numero comprende diverse condizioni, derivanti tutte dalle difficili condizioni imposte dietro le sbarre, tra cui abusi e malnutrizione. I prigionieri non ricevono le cure basilari . Quel che è peggio è che decine di prigionieri soffrono anche di disabilità di varia natura: motoria, mentale e sensoriale , in oltre ci sono anche prigionieri che soffrono di malattie pericolose e croniche come malattie cardiache, cancro, insufficienza renale e paralisi. Vi sono 18 prigionieri detenuti stabilmente in quello che viene chiamato “Ramla Hospital” (Ospedale di Ramla) , alcuni dei quali non possono muoversi a causa della negligenza perpetuata dall’amministrazione penitenziaria e a causa dell’incapacità di fornire le necessarie cure ed un’adeguata assistenza sanitaria. Prigionieri anziani Ci sono 106 Prigionieri anziani imprigionati da prima degli accordi di Oslo e da prima della creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese , avvenuta il 4 maggio 1994. Questa lista include i prigionieri provenienti da tutti i comuni palestinesi, la maggior parte dei quali , 57, provengono dalla West Bank, 26 dalla Striscia di Gaza, 14 dai territori occupati del 1948 e 9 da Gerusalemme occupata. L’elenco comprende 71 prigionieri che hanno scontato più di 20 anni; essi vengono chiamati “decani” . Chi ha scontato oltre 25 anni viene chiamato “generale della pazienza”, si contano 24 di questi prigionieri . Purtroppo, mentre gli anni passano, queste cifre aumentano. Due di questi prigionieri, Kareem e lo scioperante della fame Maher Younis, dal villaggio di ‘Ar’ara, occupato nel 1948 , hanno scontato più di 30 anni. Tortura e martiri del movimento nazionale dei prigionieri Ogni detenuto che entra in una prigione israeliana avrà già sperimentato varie forme di tortura fisica e mentale. L’abuso inizia al momento dell’arresto, accompagnato dalla paura e l’orrore vissuto dalle loro famiglie, in quanto gli israeliani esaltano di proposito la loro brutalità e abusano del detenuto di fronte alla famiglia e ai bambini. Inoltre, le forze di occupazione israeliane insultano e colpiscono deliberatamente i detenuti prima di portarli via dalle loro case. Il tutto è seguito da minacce di morte, di esilio, di demolizione della casa, violazioni varie, l’arresto delle mogli dei detenuti, con le teste coperte da sacchetti sporchi, la privazione del sonno, mancanza di cure mediche, vengono inflitte ferite come tagli durante l’interrogatorio, oppure viene messo il detenuto in un frigorifero, vengono obbligati a stare in piedi per lunghi periodi, viene quindi inflitto stress psicologico, vengono usati lacci di plastica, viene versata acqua fredda o calda sopra la testa del prigioniero, viene utilizzata musica ad alto volume, viene vietata ai prigionieri qualsiasi pratica di culto religioso, e vengono denudati. . Nelle loro celle, ai detenuti è vietato usare i normali servizi igienici, vengono dati loro dei secchi che causano odori sgradevoli e che rappresentano un rischio per la salute. Sono seriamente maltrattati e le loro mani vengono legate dietro piccole sedie o su piastrelle rimosse , al fine di indebolire le loro schiene, sono spesso costretti a tali posizioni scomode per ore, anche giorni. In aggiunta a questo, viene percossa violentemente la loro testa , cosa che potrebbe portare alla paralisi, ad un’invalidità permanente o addirittura la morte. La tortura più pericolosa avviene quando si usano corpi contundenti per colpire i prigionieri durante gli interrogatori, questa pratica ha portato a numerosi decessi. Quello che è successo ad Arafat Jaradat, dopo aver subito brutali torture durante l’ interrogatorio nel carcere di Al-Julma noto ai palestinesi come “macelleria Al-Julma “, è la prova evidente del disprezzo per la vita dei prigionieri palestinesi da parte degli israeliani . Più di 200 palestinesi sono morti in seguito a tali trattamenti, 71 sono morti a causa di abusi, 51 a causa di negligenza medica, 74 a causa di omicidio ed immediatamente dopo il loro arresto e 7 sono stati freddati con arma da fuoco all’interno dei centri di detenzione. I martiri dei “cimiteri dei numeri” Israele è l’unico stato al mondo che conserva ciò che ne rimane dei prigionieri morti; si rifiuta di consegnare ciò che ne rimane dei martiri che sono stati nei “cimiteri dei numeri” dal 1978, come Dalal Al-Maghrabi. Inoltre, decine di corpi dei prigionieri sono tenuti dagli israeliani in condizioni che non rispettano la dignità dei defunti. Tutto questo in violazione dei diritti umani, , che chiedono alla potenza occupante, quale israele è, di consegnare ciò che ne rimane dei prigionieri morti alle rispettive famiglie e di rispettare le esigenze religiose per la sepoltura. Prigionieri in detenzione amministrativa Ci sono circa 186 prigionieri detenuti con il sistema della detenzione amministrativa senza né accusa né processo. Questi prigionieri sono detenuti sulla base di prove segrete delle quali non ne possono venire a conoscenza né il prigioniero né il loro avvocato . Il mandato di arresto può essere rinnovato a tempo indeterminato da un tribunale militare. Gli scioperanti della fame Ci sono 11 i prigionieri attualmente in sciopero della fame, 2 di loro, Samer Al-Issawi e Ayman Sharawneh, sono in sciopero da più di 6 mesi in segno di protesta contro il loro nuovo arresto dopo essere stati rilasciati con l’accordo dello scambio di prigionieri, che ha portato al rilascio del soldato israeliano Gilad Shalit. Ja’afar Ezzedine e Tarik Qa’adan sono in sciopero da 92 giorni per protestare contro la loro detenzione amministrativa basata su prove segrete, oltre al fatto che non sono stati nemmeno incriminati. Mona Qa’adan è in sciopero della fame da 6 giorni in solidarietà al Tarik fratello Tarik , e il decano di tutti i prigionieri palestinesi e arabi, Maher Younis, è in sciopero politico. I prigionieri Ayman Saqar, Dar Omar Ayoub, Sufyan Rabe’e, Hazem Al-Taweel e Younis Al-Horoub sono tutti in sciopero della fame per protestare contro il sistema della detenzione amministrativa. Ex-prigionieri nuovamente arrestati dopo l’accordo di scambio Mona Qa’adan da Jenin, Ayman Al-Sharawneh da Hebron, Samer Al-Issawi da Gerusalemme, Eyad Fanoun da Betlemme, Ali Juma’a da Hebron, Ibrahim Abu-Hajleh da Ramallah, Yousef Shitewi viene dai Qalqiliya, Ayman Abu-Daud viene dai Hebron e Abdulrahman Dahbour viene dai Qalqilya sono stati nuovamente arrestati dopo essere stati rilasciati secondo l’accordo di scambio prigionieri. Donne detenute Ci sono 13 detenute palestinesi nelle carceri israeliane, la più anziana, Lina Jarbouni, viene dai territori occupati del 1948, ed è stata arrestata 11 anni fa Le sue compagne di cella sono Mona Qa’adan, Nawal Al-Sa’adi, Asma Al-Batran, Manal Zawahreh, Ena’am Al-Hasanat, Intisar Al-Sayed, Ala’a Abu-Zaytoun, Ala’a Al-Jua aba, Hadeel Abu-Turki, Salwa Hassan, Ayat Mahfouth e Eman Bani Odeh. Violazioni ai danni delle detenute Le autorità israeliane hanno commesso decine di violazioni contro le detenute, nelle loro prigioni. Le più rilevanti sono il modo brutale del loro arresto davanti alle loro famiglie e ai bambini; i metodi psicofisici con cui si svolgono gli interrogatori , la proibizione di far vedere loro i propri ; la negligenza medica nei confronti delle detenute in stato di gravidanza; la costrizione fisica durante il parto, le punizioni durante la prigionia, come l’isolamento e l’uso della forza, la detenzione in luoghi inappropriati; perquisizioni provocatorie da parte degli agenti di polizia penitenziaria, insulti, aggressioni e uso di gas lacrimogeni. Inoltre, vengono maltrattate durante l’uscita dal tribunale , durante le visite familiari o anche durante il trasferimento da una sezione ad un’altra della prigione.. Vengono negate le visite. . Durante i periodi di isolamento i prigionieri politici sono spesso messi con i criminali, e le esigenze dei figli delle detenute non vengono soddisfatte. Bambini Il numero di bambini detenuti da Israele sale a quota 198. Sono soggetti ad abusi scandalosi, che violano tutte le leggi e le convenzioni internazionali per la tutela dei minori e volte a garantire i loro diritti fisici, psicologici ed educativi. Tali convenzioni insistono sul fatto che ci deve essere un contatto con i familiari e con dei consulenti che li guidino e che garantiscano un trattamento, da parte delle autorità, da bambini e non terroristi. Quest’ultimo punto è troppo spesso violato. Inoltre i giovani detenuti, soffrono di una mancanza di assistenza sanitaria di un’assistenza culturale e psicologica e dell’assenza di consiglieri nelle carceri israeliane. Nella maggior parte dei casi, sono detenuti dove si trovano anche i criminali e sono terrorizzati e molestati durante la procedura di arresto. L’isolamento L’isolamento è considerato come una delle più dure forme di punizione utilizzate dall’amministrazione penitenziaria israeliana. I prigionieri sono tenuti in isolamento, cioè in spazi scuri e molto piccoli, per lunghi periodi e non possono avere contatti con gli altri detenuti. I prigionieri in isolamento soffrono insopportabilmente in condizioni miserabili. Vengono loro negati i più elementari diritti umani, vengono picchiati e umiliati ogni giorno. Le celle in cui sono detenuti , sono state descritte come tombe, alcuni prigionieri hanno trascorso lunghi anni in isolamento ,, arrivando a soffrire di gravi malattie mentali e fisiche. I prigionieri detenuti da Israele in isolamento per molti anni sono Darar Abu-Seesi, Samer Abu-Kwaik, Tamer Al-Remawi, Awad Al-Saeedi e Emad Sarhan. (Traduzione a cura di Luca Utopia)

venerdì 1 marzo 2013

Rete no-War: No al sostegno armato in Siria

Il 28 febbraio il ministro tecnico e uscente Terzi convoca a Roma undici paesi sostenitori dell'opposizione armata in Siria e proporrà un maggiore aiuto militare, che fomenterà la guerra e prolungherà la tragedia (v. qui: http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20130222/manip2pg/07/manip2pz/336360/ e http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=1306). Terzi agisce disinformando e nascondendo i crimini commessi dai gruppi armati. La Rete No War Roma chiede a cittadini e gruppi di mandare agli uffici del ministro tecnico e uscente Terzi (segreteria.terzi@esteri.it; gabinetto.ministro@cert.esteri.it;gabinetto@esteri.it;giulio.terzi@esteri.it; poi anche al ministro Riccardi: segreteria.ministroriccardi@governo.it e chi ha facebook vada sulla pagina del Terzi e mandi) il seguente messaggio nell'Oggetto mettere (per dargli subito un'idea): A Terzi: illegale il sostegno a gruppi armati in Siria! ED ECCO IL testo da mandare con le vostre firme al fondo CITTADINI ITALIANI AL MINISTRO USCENTE E TECNICO TERZI E AL GOVERNO TECNICO E USCENTE MONTI: E' ILLEGALE E IMMORALE ARMARE L'OPPOSIZIONE IN SIRIA. BASTA FOMENTARE LA GUERRA E I GRUPPI JIHADISTI! SI' A UN VERO NEGOZIATO DI PACE SULLA BASE DELLA CONFERENZA DI GINEVRA DEL GIUGNO 2012 Il ministro tecnico e uscente Terzi ha già dichiarato che il 28 febbraio 2013 alla riunione degli «undici paesi più coinvolti nella gestione della crisi siriana» proporrà maggiori aiuti militari («assistenza tecnica, addestramento, formazione») ai gruppi armati dell'opposizione. Ricordiamo al ministro tecnico e uscente che armare l'opposizione armata è anti-umanitario, perché significa a) fomentare la guerra e prolumgare la tragedia in Siria, b) aiutare gruppi responsabili di attentati, massacri di civili, torture ed esecuzioni come ormai affermano perfino i media (anche se il ministro nasconde tutto ciò), c) boicottare ogni spazio negoziale serio sulla base degli accordi di Ginevra del giugno 2012. Invitiamo, come cittadini italiani, il ministro uscente Terzi e il suo governo tecnico a non prendere decisioni così gravi che impedirebbero qualunque spiraglio negoziale e finirebbero per armare gruppi stragisti. Ricordiamo al governo uscente e al ministro uscente che questo operato non solo fomenta gli scontri ma viola leggi italiane e internazionali. Fra queste la legge italiana 185/1990 sul commercio delle armi. Ricordiamo al governo uscente e al ministro uscente che l’art. 286 del Codice penale italiano punisce con l’ergastolo “Chiunque commette un fatto diretto a suscitare la guerra civile nel territorio dello Stato”, norma che, per analogia, dovrebbe applicarsi anche a paesi terzi. Ricordiamo al governo uscente e al ministro uscente che non solo la Carta dell'Onu impone ai paesi di perseguire politiche estere di pace anziché fomentare guerre, ma la fornitura di armi e risorse a forze che combattono contro un governo riconosciuto dall'Onu è illegale ed è una grave violazione del diritto internazionale. dATA E FIRMA

Issawi ricoverato, Tareq e Jafar tornano a mangiare

Issawi ricoverato, Tareq e Jafar tornano a mangiare Samer trasferito in ospedale, mentre Ezzedine e Qadan trovano un accordo con Israele: liberi il 21 maggio. Nuova autopsia sul corpo di Jaradat, la preoccupazione dell'ONU. di Emma Mancini Betlemme, 28 febbraio 2013, Nena News - Mentre Samer Issawi viene ricoverato in ospedale per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute, due dei quattro prigionieri in sciopero della fame - Tareq Qadan e Jafar Ezzedine - interrompono il digiuno. Ieri i due detenuti, in sciopero della fame rispettivamente da sei e tre mesi in protesta per gli ordini di detenzione amministrativa che li costringono dietro le sbarre di una prigione israeliana senza accuse formali, hanno deciso di mettere fine al digiuno dietro l'assicurazione di essere definitivamente rilasciati il 21 maggio.Lo annuncia Qadura Fares, capo del Palestinian Prisoners Society: "Jafar Ezzedine e Tareq Qadan hanno terminato lo sciopero della fame", confermando che il rilascio del prossimo 21 maggio sarà a a breve confermato da una corte militare. A continuare la battaglia degli stomaci vuoti restano Ayman Sharawneh e Samer Issawi. Che l'accordo con Israele non intendono trovarlo: "La parte israeliana - ha detto ieri il ministro per i Prigionieri dell'Autorità Palestinese, Issa Qaraqe - ha aperto ieri il dialogo per giungere ad una soluzione, ma per ora non ha presentato offerte accettabili". Entrambi i prigionieri chiedono il rilascio senza condizioni: nessun trasferimento fuori dalla Cisgiordania e Gerusalemme, come accaduto alla detenuta Hala Shalabi, deportata a Gaza. Sia Sharawneh che Issawi erano stati liberati nell'ottobre 2011 nell'ambito dell'accordo Shalit, lo scambio di prigionieri tra Hamas e Israele, e arrestati di nuovo poco dopo. Ma le condizioni di Samer Issawi peggiorano di giorno in giorno. Oggi, dopo oltre 210 giorni di sciopero della fame, Issawi è stato trasferito dal carcere di Ramle all'ospedale Kaplan, a Rahavot. Le sue condizioni sarebbero stabili, ha detto la portavoce dell'Israeli Prison Service, Sivan Weizman: "Issawi è in sciopero della fame da molto tempo e lo staff medico dell'IPS ha deciso di trasferirlo, è meglio che stia in ospedale". Caldissima l'atmosfera anche fuori dalle prigioni: da giorni la Cisgiordania è teatro di duri scontri tra manifestanti palestinesi e forze militari israeliane. La rabbia è esplosa dopo la morte del prigioniero palestinese Arafat Jaradat, 30 anni, morto sabato scorso nel carcere di Megiddo dopo una detenzione di una settimana. Torturato fino al decesso, secondo l'ANP, la famiglia e il popolo palestinese. L'autopsia condotta dall'Istituto forense israeliano di Tel Aviv indica, secondo fonti israeliane, che la morte è stata provocata da un infarto. Una conclusione che non soddisfa affatto la controparte palestinese: i medici dell'ANP, presenti all'autopsia sul corpo del giovane Jaradat, riportano evidenti segni di torture. Le pressioni internazionali - ieri è giunto l'appello del segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon - hanno spinto il ministro per la Sicurezza Pubblica, Yitzhak Aharonovitch, a decidere di compiere una nuova autopsia, questa volta al cospetto di un medico indipendente straniero. I risultati definitivi dell'analisi saranno pronti a giorni, ha promesso il ministro, così da rendere definitivamente chiaro il quadro. Israele spera così di placare la rabbia palestinese, a venti giorni dalla visita di Obama in Israele e nei Territori Occupati, ma anche di distogliere l'attenzione delle Nazioni Unite: Richard Falk, rappresentane del Consiglio dei Diritti Umani dell'Onu in Israele e Palestina, ha proposto la creazione di un team di medici internazionali che indaghi sulla morte di Jaradat. "La morte di un prigioniero durante un interrogatorio è sempre fonte di preoccupazione, ma in questo caso Israele ha mostrato l'abuso come pratica consolidata". A preoccupare Falk è il risultato del rapporto presentato dal medico palestinese presente all'autopsia: "Il dottor Alul ha trovato chiari segni di tortura sul corpo del giovane Jaradat, in piena salute prima di entrare in carcere. Alla luce di tale rapporto, non ci sono prove di un attacco cardiaco, ma ci sono i segni della tortura: un'inchiesta internazionale e indipendente va subito aperta". Nena News