lunedì 22 febbraio 2016

COMUNICATO DEL COMITATO NO GUERRA NO NATO




Il 20 febbraio si è tenuta l’assemblea nazionale del Comitato No Guerra No Nato, che ha approvato il comunicato (sottostante) che definisce i parametri di giudizio sulla situazione attuale. Sono stati confermati I due coordinatori nazionali nelle persone di Vincenzo Brandi e Giuseppe Padovano. La discussione è stata interamente dedicata ai preparativi di una risposta popolare alla imminente prospettiva di un’entrata in guerra dell’Italia in Libia.



COMUNICATO DEL COMITATO NO GUERRA NO NATO
SULLA SITUAZIONE ATTUALE



Siamo in stato di guerra, impegnati su due fronti che di giorno in giorno divengono sempre più incandescenti e pericolosi.

Accusando la Russia di «destabilizzare l’ordine della sicurezza europea», la Nato sotto comando Usa ha riaperto il fronte orientale, trascinandoci in una nuova guerra fredda, per certi versi più pericolosa della precedente, voluta soprattutto da Washington per spezzare i rapporti Russia-Ue dannosi per gli interessi statunitensi.

Mentre gli Usa quadruplicano i finanziamenti per accrescere le loro forze militari in Europa, viene deciso di rafforzare la presenza militare «avanzata» della Nato nell’Europa orientale. La Nato – dopo aver inglobato tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre della ex Jugoslavia e tre della ex Urss – prosegue la sua espansione a Est, preparando l’ingresso di Georgia e Ucraina (questa di fatto già nella Nato), spostando basi e forze, anche nucleari, sempre più a ridosso della Russia.

Tale strategia rappresenta anche una crescente minaccia per la democrazia in Europa. L’Ucraina, dove le formazioni neonaziste sono state usate dalla Nato nel putsch di piazza Maidan, è divenuta il centro di reclutamento di neonazisti da tutta Europa, i quali, una volta addestrati da istruttori Usa della 173a divisione aviotrasportata trasferiti qui da Vicenza, vengono fatti rientrare nei loro paesi con il «lasciapassare» del passaporto ucraino. Si creano in tal modo le basi di una organizzazione paramilitare segreta tipo «Gladio».

Usa e Nato preparano altre operazioni sul fronte meridionale, strettamente connesso a quello orientale. Dopo aver finto per anni di combattere l’Isis e altri gruppi, rifornendoli segretamente di armi attraverso la Turchia, gli Usa e alleati chiedono ora un cessate il fuoco per «ragioni umanitarie». Ciò perché le forze governative siriane, sostenute dalla Russia, stanno liberando crescenti parti del territorio occupate da Isis e altre formazioni, che arretrano anche in Iraq.

Allo stesso tempo la Nato rafforza il sostegno militare alla Turchia, che con l’Arabia Saudita mira a occupare una fascia di territorio siriano nella zona di confine. A tale scopo la Nato, con la motivazione ufficiale di controllare il flusso di profughi (frutto delle guerre Usa/Nato), dispiega nell’Egeo le navi da guerra del Secondo gruppo navale permanente, che ha appena concluso una serie di operazioni con la marina turca. Per lo stesso scopo, vengono inviati anche aerei radar Awacs, centri di comando volanti per la gestione del campo di battaglia.


Nello stesso quadro strategico rientra l’operazione, formalmente «a guida italiana», che la coalizione a guida Usa si prepara a lanciare in Libia, per occupare le zone costiere economicamente e strategicamente più importanti, con la motivazione ufficiale di liberarle dai terroristi dell’Isis. Si prepara così un’altra guerra Usa/Nato, dopo Iraq 1991, Jugoslavia 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Siria dal 2013, accompagnate dalla formazione dell’Isis e altri gruppi terroristi funzionali alla stessa strategia.

Tale operazione è stata concordata dagli Stati uniti non con l’Unione europea, inesistente su questo piano come soggetto unitario, ma singolarmente con le maggiori potenze europee, soprattutto Francia, Gran Bretagna e Germania. Potenze che, in concorrenza tra loro e con gli Usa, si uniscono quando entrano in gioco gli interessi fondamentali.

Oggi 22 dei 28 paesi della Ue, con oltre il 90% della popolazione dell’Unione, fanno parte della Nato, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva». Sempre sotto comando Usa: il Comandante supremo alleato in Europa è nominato dal Presidente degli Stati uniti e sono in mano agli Usa tutti gli altri comandi chiave della Nato.

Va ricordato a tale proposito l’orientamento strategico enunciato da Washington al momento dello scioglimento del Patto di Varsavia e della disgregazione dell’Urss: «Gli Stati uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un'influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana. Fondamentale è preservare la Nato quale canale della influenza e partecipazione statunitensi negli affari europei, impedendo la creazione di dispositivi unicamente europei che minerebbero la struttura di comando dell'Alleanza».

Non si può pensare di costruire una Europa diversa, senza liberarci dal dominio e dall’influenza che gli Usa esercitano sull’Europa direttamente e tramite la Nato.

Anche perché l’avanzata Usa/Nato ad Est e a Sud già coinvolge la regione Asia/Pacifico, mirando alla Cina, riavvicinatasi alla Russia. È il tentativo estremo degli Stati uniti e delle altre potenze occidentali di mantenere la supremazia economica, politica e militare, in un mondo nel quale l’1% più ricco della popolazione possiede oltre la metà della ricchezza globale, ma nel quale emergono nuovi soggetti sociali e statuali che premono per un nuovo ordine economico mondiale.

Questa strategia aggressiva ha provocato un forte aumento della spesa militare mondiale, trainata da quella Usa, che è risalita in termini reali ai livelli della guerra fredda: circa 5 miliardi di dollari al giorno. La spesa militare italiana, al 12° posto mondiale, ammonta a circa 85 milioni al giorno. Un enorme spreco di risorse, sottratte ai bisogni vitali dell’umanità.

In tale quadro, particolarmente grave è la posizione dell’Italia che, imprigionata nella rete di basi Usa e di basi Nato sempre sotto comando Usa, è stata trasformata in ponte di lancio delle guerre Usa/Nato sui fronti orientale e meridionale. Per di più, violando il Trattato di non-proliferazione, l’Italia viene usata come base avanzata delle forze nucleari statunitensi in Europa, che stanno per essere potenziate con lo schieramento delle bombe B61-12 per il first strike nucleare.
Per uscire da questa spirale di guerra dagli esiti catastrofici, è fondamentale costruire un vasto e forte movimento per l’uscita dell’Italia dalla Nato, per un’Italia libera dalla presenza delle basi militari statunitensi e di ogni altra base straniera, per un’Italia sovrana e neutrale, per una politica estera basata sull’Articolo 11 della Costituzione, per una nuova Europa indipendente che contribuisca a relazioni internazionali improntate alla pace, al rispetto reciproco, alla giustizia economica e sociale.

Roma, 20 febbraio 2016

Vedi Campagna per l'uscita dell'Italia dalla NATO per un’Italia neutrale
https://www.change.org/p/la-pace-ha-bisogno-di-te-sostieni-la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale

domenica 21 febbraio 2016

COLPITO DA IGNOTI OSPEDALE INVISIBILE

Siria. Colpito da ignoti l’ospedale invisibile che non era di Msf…

by - · 19 febbraio 2016

Nella tragedia assoluta che da anni colpisce la Siria, occorre molta attenzione da parte degli operatori umanitari i quali rischiano di essere strumentalizzati da chi fomenta il conflitto, con il risultato di ulteriori deflagrazioni. Un caso emblematico è qui descritto.

Prima tappa. Urlo mondiale: «La Russia bombarda deliberatamente un ospedale di Msf». Il 15 febbraio da Gaziantep, Turchia, un comunicato dell’organizzazione medica internazionale Médecins sans frontières (MSf) denuncia un fatto odioso: la distruzione, in due attacchi che fanno molti morti, di un ospedale «sostenuto da Msf» (Msf-supported) nella provincia di Idlib, a Ma’arat al Numan.

Il capo missione Msf dice che «sembra trattarsi di un attacco deliberato a una struttura medica». Msf in quel momento non indica una responsabilità precisa. Ma siccome l’Osservatorio siriano per i diritti umani (dell’opposizione) accusa gli aerei russi, la notizia in mondovisione diventa: «La Russia bombarda deliberatamente un ospedale di Msf». In una situazione tragica, notizie come queste sono quel che Turchia e sauditi aspettano per entrare definitivamente nel paese e aiutare una guerra senza fine.

Seconda tappa. Richiesta di chiarimento a Msf: Sulla base del comunicato di Msf, dell’assenza di riflessioni critiche da parte dei media e del fatto che l’organizzazione medica non è presente in Siria né con proprie strutture né con proprio personale, bensì opera a sostegno di strutture locali e solo nelle zone controllate militarmente dall’opposizione (il governo non ha dato il permesso di aprire strutture nelle aree che controlla, così diceva un comunicato di tempo fa), il 16 mattina mandiamo alla struttura alcune domande. Intanto Russia e Siria negano recisamente ogni responsabilità e additano la mancanza di prove in merito. Domande:

La struttura di Ma’arat non era un ospedale di Msf ma solo sostenuto da Msf. Chi la gestiva?
Perché l’ospedale non era segnalato e le sue coordinate non sono state comunicate alle parti in lotta, come era avvenuto invece per l’ospedale direttamente gestito da Msf di Kunduz in Afghanistan?
Chi accusa gli aerei russi? E su quali basi e prove?
Prima della guerra, l’edificio era già un ospedale?
Sulla base di quali elementi Msf parla di «attacco deliberato a una struttura medica» (crimine di guerra) visto che l’ospedale non era segnalato?
Come mai Msf dice che adesso 40mila persone sono senza ospedali? Non ci sono ospedali governativi nell’area?
Quanto all’ospedale materno-infantile colpito ad Azaz, sempre indicato nel vostro comunicato, poiché Msf dichiara che non si tratta di una struttura che sostiene, qual è la fonte della notizia?

Terza tappa. Msf dichiara da Ginevra : Per giorni e giorni, Msf non riesce a rispondere malgrado i solleciti (è la sede entrale a Ginevra a rispondere a questo genere di domande). Ma ecco che il 17 febbraio la direttrice delle operazioni di Msf Francia Isabelle Defourny e la presidente di Msf Johanne Liu in conferenza stampa a Ginevra rilasciano dichiarazioni che in pratica rispondono a buona parte dei nostri dubbi.

Ecco dunque le dichiarazioni che dà Msf. Si possono leggere in inglese qui: e qui tanto per citare due fonti molto diverse).

L’ospedale era nascosto, nient’affatto segnalato. Msf ha deciso di non segnalare in nessun modo a Russia e Siria le coordinate delle strutture mediche nelle aree controllate dall’opposizione e sostenute e finanziate da Msf (senza la presenza di personale Msf). Solo tre strutture in zone di intensi combattimenti sono segnalate agli ambasciatori russi a Ginevra e Parigi. Le altre no. Perché questa stranezza? Perché non segnalare in tutti i modi un ospedale, struttura protetta dalle Convenzioni di Ginevra? Risposta: perché non lo vogliono gli staff e la dirigenza delle strutture siriane sostenute da Msf nelle aree controllate dall'opposizione. Paura di essere colpiti. In un appello diffuso il 18 febbraio, Msf chiede ai membri del Consiglio di sicurezza «e in particolare a Francia, Russia, Regno unito e Stati uniti che sono parte attiva nel conflitto», di impegnarsi per fermare il massacro e per la protezione dei civili evitando i combattimenti in aree civili. Nel rapporto che accompagna l’appello e che è stato redatto sulla base dei dati «raccolti in 70 fra gli ospedali e strutture sanitarie supportate dall’organizzazione in Siria nordoccidentale, occidentale e centrale», Msf «denuncia che 63 ospedali e strutture sanitarie supportate da MSF sono state attaccate o bombardate in 94 diverse occasioni nel solo 2015; e nel 2016 ben 17, di cui sei supportate da Msf». Ma appunto: queste strutture, per ammissione di Msf, non erano segnalate come ospedali. Comunque, dopo il fatto degli ultimi giorni, sostiene che si aspetta che suoi affiliati siriani si coordinino con il governo siriano.

«Attacco deliberato a una struttura medica», quando questa non era in alcun modo riconoscibile come tale? Davanti a questa contraddizione, Msf (non) precisa: «The attack can only be considered deliberate». Se l’inglese ci assiste, vuol dire: «l’attacco non può che essere considerato deliberato». Ma anche se la frase fosse solo possibilista, la contraddizione rimarrebbe.

Quali i colpevoli e con quali prove e chi lo dice? Joanne Liu, presidente internazionale di Msf, dichiara: «L’attacco è stato probabilmente portato dalla coalizione guidata dal governo siriano, la più attiva nella regione», cioè dall’esercito siriano o dagli aerei russi. Probabilmente? Quali le prove dunque? «Parliamo di probabilità perché come unici fatti abbiamo le percezioni dello staff locale. I sopravvissuti ritengono che l’attacco sia stato condotto dalla coalizione guidata dal governo». E anche «raccogliere prove richiede tempo». Ma insomma: possono forse dichiarare qualcosa di diverso gli operatori di un ospedale dell’opposizione che ha preferito non segnalarsi come struttura medica? (Va detto che anche il Pentagono non ha fornito prove sulle responsabilità dell’attacco imputato ai russi o ai siriani, ad aerei o a missili, affermando che «il punto non è chiaro»).

Rimane inevasa la domanda sulla presenza o meno nelle aree controllate dall’opposizione, di ospedali governativi e statali, ovviamente prima esistenti. Approfondiremo in altra sede. Ma di certo la zona di Idlib è sotto il controllo di una coalizione ombrello di gruppi islamisti, Jaish Al Fatah (Esercito della conquista), in un rapporto a geometria variabile con altre formazioni salafite o qaediste come al Nusra. E secondo precedenti denunce governative (tanto per citare anche l'altra parte), questi armati hanno via via occupato o distrutto i centri medici del governatorato, compreso il famoso ospedale Jisr al Shugur.

Rimane la domanda sull’ospedale di Azaz. Ma non può essere Msf ad avere informazioni, che non sosteneva la struttura e non è presente in Siria con propri operatori. In quel caso le accuse agli aerei russi vengono dal governo turco e dall’opposizione siriana, in particolare i White Helmts ovvero Elmetti bianchi. Ma chi sono gli Elmetti bianchi, o Syrian Civil Defense, “organizzazione di volontari per il soccorso”? Non proprio una fonte imparziale e nemmeno immacolata. Alcuni loro membri, che a differenza dell’ospedale di Idlib sono ben identificabili (elmetto bianco e simbolo sulla divisa) sono stati coinvolti in esecuzioni sommarie che lo stesso organismo non nega pur condannando l’accaduto. Come dichiara il loro fondatore, l’ex ufficiale britannico James Le Mesurier alla tivù amica Al Jazeera del Qatar, gli Elmetti sono stati formati in Turchia (dove l’inglese lavorava, non si sa a che cosa) a partire dal 2013, con finanziamenti di Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna.Mark Ward, che al Dipartimento guida l’assistenza Usa alla Siria, spiega che «niente tiene insieme una comunità meglio degli sforzi di soccorrere le vittime».

Peccato che proprio Usa, Turchia e alleati abbiano fatto di tutto per trasformare la Siria in un cimitero.

Marinella Correggia


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sabato 20 febbraio 2016



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Le vittime ebree del sionismo
Ella Shohat
introduzione di Vera Pegna
a cura di Cinzia Nachira
Edizioni Q


Non ci sono molte pubblicazioni né informazioni sul ruolo e sulla storia degli ebrei arabi emigrati in Israele quindi questo libro, assieme al precedente «Ebrei arabi: terzo incomodo?» a cura di Susanna Senigaglia, contribuisce a colmare un vuoto fornendo informazioni preziose per comprendere la dinamica delle contraddizioni interne allo stato israeliano e per smascherare la falsità della narrazione ufficiale. Gli ebrei arabi, o mizrachi, sono la maggioranza della popolazione israeliana, specialmente se ci si aggiunge il 20 per cento dei palestinesi del '48, è perciò abbastanza sconcertante che la storia della loro immigrazione, così significativa ai fini della comprensione della natura dello stato israeliano fin dall'inizio, sia stata trascurata, anche dagli stessi nuovi storici che pure gettarono luce sulla pulizia etnica della Palestina e su altre nefandezze. Ma qual'è il racconto ufficiale dello stato israeliano rispetto a questo argomento ce lo spiega molto bene Ella Shohat, secondo tale racconto gli ebrei arabi avrebbero sofferto nei loro paesi d'origine discriminazione e abusi e sarebbero poi stati salvati e redenti dallo stato sionista che li avrebbe sollevati dalla loro condizione primitiva di semi-selvaggi accogliendoli nel suo seno secondo il progetto di «riunificazione degli esiliati dai quattro angoli del mondo» portandoli dalla condizione premoderna alla modernità, dall'oscurantismo e arretratezza dei loro paesi levantini ad una società democratica e rispettosa dei diritti civili. Dal saggio di Ella Shohat apprendiamo che questa costruzione è falsa dall'inizio alla fine, la Shohat la smonta pezzo per pezzo, ma già Vera Pegna nel saggio introduttivo, ricordando la propria esperienza di vita in Egitto, ci informa che «da sempre gli arabi di religione ebraica si sono confusi naturalmente tra la popolazione circostante e non si sono mai considerati -né altri li hanno considerati- un popolo a se, distinto dagli altri arabi fossero essi musulmani, cristiani o seguaci di altre religioni e sette presenti nei paesi arabi». Se ne deduce che non si sono verificate discriminazioni o pogrom e che gli ebrei arabi hanno vissuto in pace nei loro paesi fino a che non è giunto il sionismo a sconvolgere le loro vite e tutta la regione. Se problemi ci sono stati infatti essi sono stati creati dal sionismo e dalla fondazione dello stato sionista. Sia il saggio di Vera Pegna che quello di Ella S. ci informano che le immigrazioni degli ebrei levantini non sono avvenute per l'ardente desiderio della «terra promessa» ma a suon di bombe e altre numerose intimidazioni. «Di fronte alla scarsa adesione al progetto sionista dimostrata dagli ebrei egiziani il mossad decise di passare alle maniere forti prima diffondendo voci di pericolo per chi si rifiutasse di partire e poi compiendo, nei confronti degli ebrei, atti ostili da attribuire alle autorità egiziane» (Vera Pegna). Bombe furono piazzate nella sinagoga di Bagdad, ad Alessandria la bomba scoppiò in tasca all'agente del mossad prima che la collocasse in un cinema. Ogni volta che c'era un calo nelle liste di attesa di coloro che decidevano di partire avveniva una nuova esplosione a terrorizzare queste comunità spingendole a partire.
Gli ebrei arabi non dimostravano interesse per lo stato sionista, il sionismo del resto prima della Shoah e della fondazione di Israele era un movimento di minoranza che lasciava indifferente la maggior parte degli ebrei e da altri era fieramente contrastato. ( L'unione generale dei lavoratori ebrei di Russia, Polonia e Lituania -BUND- osteggiava il sionismo ritenendo che l'emancipazione e la dignità del popolo ebraico sarebbero state ottenute con il socialismo e l'internazionalismo perciò era contrario alla fondazione di uno stato ebraico). Per quanto riguarda poi la decantata modernità «questa visione elude la realtà dei processi storici tacendo una serie di verità, gli ashkenaziti come i sefarditi , provenivano da paesi che erano ai margini del capitalismo mondiale de avevano iniziato la loro industrializzazione come il loro sviluppo tecnologico e scientifico quasi contemporaneamente» (E. S.) Ma i
sionisti che avevano voluto fondare uno stato di stampo occidentale nel cuore del Medio Oriente erano ebrei europei (ashkenaziti) e come nella migliore tradizione colonialista e orientalista nutrivano profondo disprezzo per i popoli orientali. Gli ebrei arabi non furono accolti come uguali ma fatti oggetto di ogni possibile sopruso e violenza dal rapimento dei loro bambini alla sterilizzazione forzata delle donne, all'esposizione di migliaia di bambini a radiazioni che provocarono tumori e altre malattie gravi, alle condizioni di estrema povertà a cui furono costrette, nelle baracche dei campi di transito, intere famiglie per anni, dopo aver lasciato i loro beni nei paesi d'origine secondo gli accordi dei sionisti con gli stati arabi.
Ai sionisti era indispensabile l'immigrazione della massa degli ebrei arabi sia perché l'immigrazione dall'Europa si andava esaurendo, sia perché necessitava mano d'opera a basso costo e questi ebrei percepiti come «lavoratori naturali» potevano a un tempo sostituire i lavoratori palestinesi o entrare in concorrenza con loro, e mantenere l'obiettivo del «lavoro ebraico» uno dei miti del sionismo.
Nel suo impeto di occidentalizzare la società israeliana l'establishment ashkenazita era fortemente preoccupata dalla propria contraddizione interna: gli ebrei orientali e temeva che questi avrebbero potuto orientalizzare la società per cui li integrarono ai livelli più bassi della società dove il loro impatto sarebbe stato ininfluente. Essi furono insediati nelle zone periferiche e di frontiera e utilizzati nel controllo delle popolazioni native e delle loro terre.
Ai mizrachi fu chiesto di scegliere tra l'essere arabi o ebrei, di convincersi che la loro storia e cultura non aveva radici nei paesi orientali da dove provenivano ma negli shtetl della Lituania, di convincersi che erano parte della generale persecuzione che in ogni paese e in ogni epoca avevano subito gli ebrei, che nei loro paesi c'erano stati i pogrom come in Russia e infine di trasformarsi nel modello sionista del nuovo ebreo, che entrava gloriosamente di nuovo nella storia dopo secoli di persecuzioni e di esilio. Questa universalizzazione del vittimismo ebraico giustificava il progetto nazionalista e coloniale dei sionisti e a un tempo lo sradicamento di popolazioni dai loro paesi e dalle loro storie e culture. Storie e culture che dovevano essere cancellate per unificarsi alla narrazione ufficiale. Nell'ultima parte del libro, nel corso dell'intervista, Ella S. scrive: «...la separazione operata da Euro-Israele della parte ebraica da quella mediorientale si è tradotta nello smantellamento delle comunità ebraiche del mondo islamico come anche in forti pressioni sugli ebrei orientali affinché adeguassero la loro identità ebraica ai paradigmi sionisti...gli ebrei dell'Islam hanno dovuto far fronte per la prima volta nella loro storia al dilemma a loro imposto: la scelta tra arabicità e ebraicità all'interno di un contesto geopolitico che ha riprodotto, da un lato, l'equazione arabicità-mediorientalità-Islam e dall'altro lato quella di ebraicità-europeità-occidentalità. Un altro aspetto determinante del racconto...la «nazione ebraica» combatteva un comune nemico storico» -l'arabo musulmano- sviluppando una duplice amnesia relativamente alla storia giudeo-islamica e alla spartizione coloniale della Palestina. Le false analogie tra arabi e nazisti sono diventate non solo un punto fisso della retorica sionista ma anche un sintomo dell'incubo ebraico-europeo proiettato sulle dinamiche politiche, strutturalmente distinte, del conflitto israelo-palestinese» e conclude « nel contesto dei massacri e delle privazioni inflitte al popolo palestinese la sovrapposizione della figura dell'arabo musulmano a quella dell'europeo oppressore degli ebrei mette la sordina alla storia degli insediamenti coloniali dello stesso Euro-Israele».
Sotto un'incredibile pressione, impossibilitati a tornare indietro nei loro paesi, impoveriti e discriminati molti mizrachi hanno finito per interiorizzare l'immagine che la retorica sionista aveva di loro, giungendo a un disprezzo di se che proiettavano a loro volta sui palestinesi. Questo si è tradotto in un desiderio di assimilazione e a integrarsi con la cultura dominante, senso di inferiorità, e una forte spinta a migliorare il basso livello socio-economico. «Anche quando ufficialmente celebrano la loro eredità araba e medio orientale , lo fanno rifiutando «l'arabo". Così l'ideologia orientalista del «noi" contro «loro" è stata talvolta adottata dagli stessi ebrei orientali soprattutto con lo spegnersi, generazione dopo generazione ,della
memoria del sincretismo storico e culturale giudeo-islamico." (E. S.) Questo risultato può senz'altro essere definito una vittoria del sionismo. Non solo il sionismo ha fondato uno stato che ha inventato un popolo, ma ha anche costruito una mitologia e una storia, funzionale ai suoi fini politici, che doveva essere la storia di ogni ebreo,distruggendo «la consapevolezza di poter essere ebrei secondo forme molteplici di appartenenza.». Ma esiste anche un'altra faccia della realtà sefardita, molti ebrei orientali hanno resistito e lottato, come le «Pantere nere» degli anni '70 i quali pensavano di essere un «intermediario naturale» per la pace e lanciarono un appello per un «vero» dialogo con i palestinesi, o i giovani mizrachi che nel corso della primavera araba firmarono una lettera aperta ai fratelli arabi: «noi crediamo che in quanto ebrei mizrachi israeliani la nostra lotta per avere diritti economici, sociali e culturali debba basarsi sull'idea che un cambiamento politico ...può solo venire da un dialogo intraregionale e interreligioso che si riconnetta alle diverse lotte e ai movimenti attualmente attivi nel mondo arabo. Nello specifico, dobbiamo dialogare ed essere solidali con le lotte dei cittadini palestinesi di Israele che combattono per uguali diritti economici e politici e per l'abolizione delle leggi razziste, e con la lotta del popolo palestinese che vive sotto l'occupazione israeliana , nella West Bank e a Gaza, quando chiede la fine dell'occupazione stessa e l'indipendenza nazionale palestinese». «Benché sia stata cancellata e oscurata la resistenza sefardita continua ad evolversi rinnovando i modelli organizzativi» scrive E. S. «Gli sforzi che mirano a seminare discordia tra ebrei orientali e palestinesi non sono riusciti nell'intento di dissuadere i primi dal difendere un'equa soluzione per i palestinesi. In Israele e all'estero numerosi sefarditi non chiedono di meglio che di poter fungere da mediatori per la pace con gli arabi e con i palestinesi ma l'establishment ha sempre compromesso i loro sforzi in questo senso.»
La ragione per cui la storia dei mizrachi è così poco conosciuta non è misteriosa: Israele doveva occultare le sue azioni più crudeli per non offuscare l'immagine che si sforza di dare di sé e per tacitare le voci critiche, il lavoro costante della propaganda sionista tenta di arginare un rischio potenziale «Una minaccia si aggira sul sionismo: tutte le sue vittime -i palestinesi, i sefarditi, (così come gli ashkenaziti dissidenti etichettati come degli eterni insoddisfatti che rimuginano sul loro odio di sé) potrebbero cogliere gli elementi che accomunano la violenza che li opprime. L'establishment sionista di Israele ha fatto di tutto per allontanare questa minaccia: ha fomentato guerre e ha costruito un vero culto della sicurezza nazionale, ha dato della resistenza palestinese l'immagine semplicistica del terrorismo, ha creato le condizioni della discordia tra sefarditi e palestinesi attraverso il sistema educativo e i mass media ha incitato i sefarditi a odiare gli arabi e a rifiutare la propria cultura ha represso o cooptato tutti quegli elementi che potevano favorire un'alleanza progressista tra palestinesi e ebrei orientali.»
Noi confidiamo nel fatto che molto presto questa consapevolezza possa risultare chiara e far crollare l'immane muro di menzogne del sionismo, e per concludere con le parole di E. S. « la pace non è possibile senza il rispetto per «l'Oriente" in tutte le sue componenti dagli ebrei orientali ai palestinesi e ai vicini arabi musulmani. Superando l'inerzia di un immaginario paralizzato Israele dovrebbe smettere di essere uno stato canaglia e diventare lo stato di tutti i suoi cittadini.»
Miriam Marino


domenica 14 febbraio 2016

LE SCARPE IN FACCIA CHE CI VORREBBERO

Editoriale
Le scarpe in faccia che ci vorrebbero!

di Giovanni Sarubbi
Muntazar al-Zaydi, chi è costui? È un giornalista iracheno, sciita, nato nel 1979. Ha lavorato dal 2005 per la tv araba al-Bagdadiyya del Cairo. Ha una laurea in scienza della comunicazione presa nell'università di Bagdad. È divenuto famoso perché il 14 dicembre del 2008 a Baghdad, tirò le sue scarpe in faccia all'allora presidente americano George Bush durante una conferenza stampa che egli teneva insieme al primo ministro iracheno Nuri al-Maliki (Vedi filmato). Fu un gesto che fece scalpore. In Iraq c'era la guerra dal 2003. I morti si contavano già allora a milioni. Le immagini di quella scena fecero, in pochi minuti, il giro del mondo. Milioni di persone nel mondo, me compreso, si immedesimarono con quel giornalista e si rammaricarono per il fatto che egli, per due volte, mancò, per pochi centimetri, il bersaglio. Quel gesto costò al giornalista una dura condanna e, soprattutto, pesanti torture durante tutto il periodo della sua detenzione che terminò il 15 settembre del 2009.
Lanciando quelle scarpe Muntazar al-Zaydi chiamò “cane” il presidente Bush e disse due frasi. Sulla prima scarpa gridò: «Questo è un bacio d'addio da parte del popolo iracheno, cane!». Sulla seconda scarpa gridò: «Questo è per le vedove, gli orfani e tutti quelli che sono stati uccisi in Iraq!». Due “dediche” che non hanno bisogno di grandi spiegazioni e che rappresentano bene l'indignazione che la guerra suscita in ogni essere umano che non abbia perso la sua umanità.
Mi è ritornato alla mente quell'episodio, che fa parte a pieno titolo della “terza guerra mondiale a pezzi” che stiamo vivendo dall'11 settembre del 2001, perché il prossimo martedì 2 febbraio a Roma si terrà una conferenza stampa di quello che una volta si chiamavano gli “amici della Siria” e che ora hanno cambiato nome in “small group”. Si tratta di 24 paesi fra cui Arabia saudita, Iraq, Emirati, Francia, Kuwait, Qatar, Regno Unito, Turchia, Usa, Italia.... «Insomma – scrive Marinella Correggia - proprio quei soggetti, diciamo Nato/Golfo (più i satelliti), che individualmente o in forma aggregata sono stati determinanti nel far esplodere l’atroce fenomeno autodefinentesi Stato islamico o Califfato, in sigla Isis o Is o Isil». (Vedi link)
La Conferenza stampa sarà tenuta dai due ministri degli esteri di Italia, Paolo Gentiloni, e degli USA, Jhon Kerry che copresiederanno l'incontro.
La conferenza stampa è “blindata” non solo dal punto di vista della sicurezza e degli uomini e dei mezzi posti a difesa della Farnesina, sede del ministero degli esteri Italiano, ma anche perché i giornalisti faranno in sostanza da comparsa, serviranno a rendere “democratico” ciò che non lo è affatto. Nessuno potrà fare domande. Sono previste solo due domande fatte da due grandi giornali già individuati.
Lor signori, quelli che insieme agli USA ritengono di essere i padroni del mondo, ci faranno sapere che cosa le loro graziose maestà imperiali hanno deciso in merito al conflitto in Siria che va avanti dal 2011. Il tema dell'incontro è stato definito come «Riunione ministeriale della Coalizione Globale anti-Daesh/ISIL». Ce ne sarebbero di domande da porre ma nessuno potrà farlo. Le due domande previste saranno molto probabilmente già state concordate. Saranno domande banali e ci saranno risposte banali. Il tutto finalizzato alla guerra. Aria fritta. Nessuna difficoltà avranno Gentiloni e Kerry a rispondere. Copione già scritto, ma non ci sarà nulla da ridere. Sarà una sceneggiata di cui i giornalisti saranno comparse.
Non sapremo mai che cosa i paesi presenti si diranno effettivamente, sia perché in queste conferenze stampa non si racconta mai la verità, sia perché non ci sarà alcun giornalista che potrà porre neppure una delle domande che sarebbe lecito porre a lor signori. Neppure la più banale che può essere questa: «ci spiegate come facevate a chiamarvi amici della Siria se poi avete scatenato una guerra che ha già fatto milioni di profughi e alcune centinaia di migliaia di morti? Cosa è l'amicizia per voi? I vostri amici li pigliate a bombe in faccia?».
Non ci saranno domande scomode da parte di alcuno, né ci saranno giornalisti che tireranno le loro scarpe in faccia ai due ministri che compariranno davanti ad una platea di giornalisti usati come comparse scendiletto della loro sceneggiata. Nessuno tirerà scarpe in faccia né fisicamente né tanto meno metaforicamente. Nessuno darà del “cane” a Gentiloni o a Kerry, nessuno chiederà loro conto dei vari milioni di morti che la politica di guerra degli USA ha prodotto nel mondo dall'11 settembre 2001 con le guerre in Afghanistan, in Iraq, in Libano, a Gaza, in Libia, in Siria, in Mali, in Ucraina e nel Dobass e per ultimo in Yemen. Nessuno chiederà conto dei profughi, delle centinaia di migliaia di morti, soprattutto bambini, uccisi dalle bombe o affogati nel Mediterraneo. Nessuno chiederà loro conto delle vendite di armamenti ai regimi del Golfo Persico o altri regimi dittatoriali e di come queste armi siano poi finite nelle mani dei cosiddetti terroristi, e di come l'esercito di questi terroristi si sia potuto rafforzare con i cosiddetti Foreing Fighters provenienti dall'Europa o dagli stessi USA, attraversando tutte le frontiere dei paesi Nato senza alcun ostacolo. L'espressione Foreing Fighters di solito viene tradotta con “combattenti stranieri” ma, più opportunamente, bisognerebbe chiamarli “soldati di ventura”, mercenari che si vendono al miglior offerente. Si tratta cioè di persone (e come è difficile usare questo termine associato a chi fa il mestiere delle armi) che sono guidati solo dalla voglia di uccidere e che hanno come unico dio solo il denaro. Nulla a che vedere con una qualsiasi religione, quale l'islam o il cristianesimo o quant'altro esiste nel panorama religioso mondiale.
Nessun giornalista italiano potrà chiedere conto delle migliaia di bombe costruite in Sardegna e da li partite, proprio nelle ultime settimane, alla volta dell'Arabia Saudita per il bombardamento dello Yemen, dove sono stati colpiti anche gli ospedali di Medici senza Frontiere. Nessuno chiederà conto degli affari che stanno dietro la guerra in corso e di come questi affari, leggasi petrolio, hanno nulla a che vedere con gli interessi dei popoli o con le loro legittime aspirazioni alla democrazia e alla libertà. Nessuno potrà porre domande sulla violazione, oramai costante, dello statuto dell'ONU che da organismo per salvaguardare la pace nel mondo si è trasformato in notaio delle guerre.
I “giornalisti” presenti non avranno la possibilità di proferire parola. “Scendiletto e servi site stati finora e dovete continuare ad esserlo”, questo in sostanza diranno Gentiloni e Kerry a chi il 2 febbraio sarà presente a Roma al ministero degli esteri.
Il 2 febbraio a Roma non ci sarà nessun lanciatore di scarpe, ne siamo certi. Ne ci saranno giornalisti o giornali mainstream che il giorno dopo si permetteranno di lanciare scarpe metaforiche contro un potere, quello Statunitense e di quei paesi suoi lacchè, che si sta comportando come ed anche peggio di quello che hanno fatto in Europa i nazisti e i fascisti negli anni '30 del secolo scorso.
Avremmo bisogno di lanciatori di scarpe, Dio solo sa quanto ne avremmo bisogno. Avremmo bisogno di giornalisti che ogni giorno facessero le pulci alle notizie false, che provengono dagli stati maggiori impegnati nella guerra, e ricercassero la verità e aiutassero la gente a prendere coscienza. Avremmo bisogno che ogni giorno ci fossero giornalisti che coprissero di disprezzo gli esponenti politici di governo o di opposizione che hanno venduto la loro anima ai mercanti di armi e che hanno sulla loro coscienza, ammesso che ne abbiano mai avuta una, i milioni di morti che da troppi secoli e da troppi decenni stanno insanguinando la nostra storia.
Io invidio quanti riescono a dire il loro sdegno per la guerra con parole meno crude di quelle che io, rozzo ed incolto apprendista giornalista, riesco a dire. Li invidio sinceramente. Ma c'è il momento nel quale si devono tirare scarpe in faccia, anche se solo metaforicamente, a chi fa della prepotenza, della violenza, della guerra il suo tratto sistematico di cui pagano le conseguenze milioni di esseri umani innocenti. E quel momento è ora! La conferenza di martedì 2 febbraio sarà, infatti, un momento di svolta della "terza guerra mondiale a pezzi" e a pagarne le conseguenze non saranno i cosiddetti "terroristi" ma milioni di persone innocenti, soprattutto bambini.
Ai giornalisti seri non resta da far altro che disertare le conferenze stampa come quelle di martedì prossimo o, se si decide di partecipare, fare come Muntazar al-Zaydi, anche se solo metaforicamente, limitandosi ad innalzare un cartello, che forse sarebbe più plateale se lo facessero tutti i presenti, con la foto di un grosso scarpone chiodato e la dicitura “vi meritate solo scarpe in faccia perché siete delle merde assassine”. Se ci dovesse essere poi qualcuno che voglia fare proprio come ha fatto Muntazar al-Zaydi, per piacere per lo meno si alleni prima a centrare il bersaglio.
Noi, nel nostro piccolissimo, per ora la nostra scarpa in faccia, metaforica, l'abbiamo scagliata. E tu che leggi cosa aspetti a farlo anche tu?
Giovanni Sarubbi

giovedì 11 febbraio 2016

Riflessioni sulla strategia palestinese


Analisi: riflessioni sulla strategia palestinese
2 febbraio 2016
Di Amal Ahmad - Maan News e Al-Shabaka


Un membro del movimento Fatah vicino ad un mural del leader palestinese Mahmoud Abbas nel campo di rifugiati palestinesi Ain al-Hilweh, alla periferia di Sidone. (AFP/File)

Quest'analisi è stata originariamente pubblicata da Al-Shabaka, una organizzazione indipendente e no profit il cui scopo è educare e promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani e l'autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.
Amal Ahmad è membro di Al-Shabaka e ricercatrice economica palestinese. Amal è entrata a far parte dell'Istituto di Ricerca di Politica Economica Palestinese di Ramallah prima di terminare un master in sviluppo economico presso la Scuola di Studi Orientali ed Africani di Londra. Il suo lavoro si concentra sui rapporti fiscali e monetari tra Israele e Palestina; si interessa anche di politiche economiche di sviluppo in tutto il Medio Oriente.

Il popolo palestinese ha iniziato l'anno nuovo affrontando una desolante situazione politica, con una leadership debole e compromessa, un popolo frammentato dal punto di vista geografico ed amministrativo e una società civile sempre più segnata dall'individualismo e dalla perdita di punti di riferimento politici. Il progetto di costruzione dello Stato che sembrava così promettente negli anni '80 e '90 ha rapidamente perso sostenitori - un recente sondaggio ha rilevato che circa due terzi dei palestinesi non crede più che sia praticabile, nonostante 137 Paesi ora riconoscano la Palestina. Ancora scarsa è la prospettiva di un obiettivo politico alternativo che goda dell'appoggio popolare.
Questo commento sostiene che l'attuale debolezza politica del popolo palestinese dipende in larga misura dall'assenza di un pensiero strategico, nonostante qualche sforzo organizzato a questo proposito anche dal Gruppo Strategico Palestinese [gruppo di studio formato da intellettuali e da studiosi palestinesi. Ndtr.] e da Masarat [Centro Palestinese per le Ricerche politiche e gli Studi Strategici. Ndtr.] for Policy Research and Strategic Studies. Ndtr.], per esempio. E' ancora indispensabile che i palestinesi elaborino una strategia con o senza le fazioni politiche dentro o fuori dall'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP): senza una strategia chiara e condivisa, alcuni degli strumenti e delle tattiche che sono stati adottati rischiano di dissanguare le energie e di dimostrarsi inefficaci, o di produrre risultati non voluti.

Promuovere analisi strategiche
Un solido pensiero strategico si fonda su un'accurata analisi dell'attuale contesto politico, comprese le opportunità e le sfide sia interne che esterne. Per i palestinesi è particolarmente vitale analizzare accuratamente le strategie dello Stato israeliano, perché è la parte in causa più forte, che definisce in modo preponderante la portata e la direzione del conflitto. Si può sostenere che il principale motivo per cui [gli accordi di ] Oslo sono stati un disastro politico è stato il fatto che i dirigenti palestinesi, incompetenti e alla disperata ricerca di una soluzione, hanno preso per buono il dichiarato interesse di Israele riguardo alla creazione di uno Stato palestinese ed hanno lavorato per raggiungere quell'obiettivo politico. Questo errore di calcolo e le concessioni che ne sono seguite si sono dimostrate catastrofiche per il potere negoziale dei palestinesi, per la loro unità e capacità di formulare una coerente strategia nazionale.
E' ora di riconoscere che i palestinesi si trovano in una soluzione senza Stato, nella quale Israele spera di tenerli chiusi per tutto il tempo necessario a raggiungere il suo progetto definitivo. Questo obiettivo è rappresentato da diversi (e maggiori) diritti per gli ebrei rispetto ai non ebrei, con una maggioranza ebraica sul territorio sotto il suo controllo diretto. La strategia israeliana per il raggiungimento di questo progetto è stata in ampia misura costante da quando ha occupato i territori palestinesi nel 1967: contenere i palestinesi rifiutando un accordo sullo status definitivo, che si trattasse della sovranità palestinese [con la soluzione] dei due Stati o gli stessi diritti in un unico Stato binazionale. Ho sostenuto in precedenza che l'unione doganale de facto imposta da Israele ai palestinesi è una chiara dimostrazione dell'intenzione di Israele di mantenere questa soluzione senza Stato [palestinese]. Le azioni dei palestinesi, la resistenza ed ogni futuro negoziato dovrebbero tener conto di questa situazione.
Dato che la strategia di Israele è fondata sul soddisfacimento dei diritti degli israeliani ebrei e dei coloni e sulla limitazione di quelli dei cittadini palestinesi di Israele e dei palestinesi dei territori occupati, di conseguenza una strategia fondata sui diritti dei palestinesi potrebbe essere particolarmente efficace se mettesse in evidenza e sfidasse i progetti israeliani. In una strategia di questo tipo l'obiettivo politico palestinese dovrebbe passare dalla costruzione dello Stato, un progetto irrealizzato che mette in ombra la strategia israeliana sul terreno, ad una lotta per i diritti umani, politici, civili, economici, sociali e culturali. I diritti dei palestinesi possono essere ottenuti con diverse soluzioni nazionali, uno o due Stati o una confederazione.
Oltre ad opporsi al nucleo essenziale del progetto nazionale israeliano, una strategia fondata sui diritti dei palestinesi offre una serie di differenti aspetti positivi. Fornisce un insieme di orientamenti per la lotta; riduce le differenze tra i palestinesi nei territori occupati e quelli all'interno di Israele; entra in consonanza con un discorso internazionale sui diritti e l'antirazzismo che è molto difficile da ignorare, aiutando a rinsaldare forti alleanze che appoggiano la lotta.
Qualunque strategia di successo non solo deve analizzare le intenzioni di Israele e identificare i punti deboli della loro struttura, deve anche raccogliere il consenso della comunità palestinese. Si tratta di una sfida difficile, in parte a causa della frammentazione del popolo palestinese, ma anche per il profondo attaccamento all'idea di uno Stato nazionale palestinese nonostante, l'irrealizzata soluzione dei due Stati. Di conseguenza è importante cercare di riconciliare per quanto possibile una strategia politicamente ragionevole con il sentimento nazionalista palestinese. Per esempio, argomenti a favore di un approccio centrato sui diritti dovrebbero sottolineare che abbandonare l'obiettivo della costruzione di uno Stato non significa abbandonare i legami con la terra e dovrebbero cercare i modi attraverso i quali possa essere superata la stretta commistione della costruzione dello Stato con la costruzione della nazione.

Adottare tattiche che diano risultati
Il modo più rapido, sicuro ed efficace per promuovere una strategia nazionale è attraverso un sistema politico più rappresentativo ed effettivo. In assenza di prospettive per una dirigenza efficace e non compromessa all'interno dei Territori Palestinesi Occupati (TPO) o per il popolo palestinese nel suo complesso, questo diventa un compito difficile. Nel frattempo i palestinesi possono avvalersi di alcuni degli strumenti sviluppati dalle istituzioni e reti esistenti nella società civile palestinese e a livello internazionale, per promuovere una riflessione ed un'azione strategiche, con la speranza che passi nella giusta direzione possano accelerare o accompagnare la formazione di una nuova dirigenza.
Il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) rimane il più efficace strumento civile per inquadrare la lotta dei palestinesi nel linguaggio dei diritti e per sfidare la repressione israeliana basata sull’apartheid. Il BDS è ben noto per il prezzo che fa pagare all'occupazione, ma l'importanza di gran lunga maggiore del movimento risiede nella filosofia e nella prospettiva che fornisce. Propone un discorso con cui molti palestinesi si possono identificare, con cui il mondo può simpatizzare, che non rimane bloccato nella labirintica discussione di soluzioni e fasi finali. Inoltre colpisce dritto al cuore il progetto di Israele per la regione: Netanyahu non ha esagerato quando ha definito il movimento BDS una "minaccia strategica" per il progetto nazionale israeliano, data la sua natura razzista e di colonialismo di insediamento. Anche se la campagna BDS deve affrontare dei limiti all'interno dei territori occupati a causa della dipendenza strutturale dei TPO dall'economia israeliana, il fatto che il linguaggio dei diritti sia diventato più popolare è un segnale incoraggiante. Adottare il discorso del BDS e lanciare campagne BDS nelle università e nei consigli comunali, nei consigli di amministrazione ed in altre istituzioni è un passo concreto per aiutare i palestinesi a resistere all'apartheid ed avvicinarsi alla realizzazione dei diritti umani.
I palestinesi possono anche trarre profitto dal contesto legale esistente che riguarda direttamente i diritti umani e lo stato di diritto. Gli strumenti giuridici a disposizione del popolo palestinese includono il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 sul Muro di Separazione, che rafforza il consenso internazionale sul fatto che gli insediamenti sono illegali in base alla legge internazionale. Questi strumenti possono essere utilizzati per far notare a Stati terzi che la loro collaborazione con Israele ne compromette l'autorità legale e per chiedere che questi Stati rispettino le leggi internazionali sospendendo il commercio o i trattati con Israele finché questo manterrà il suo regime di apartheid. L'associazione della Palestina alla Corte Penale Internazionale dovrebbe anche fornire mezzi per sfidare le violazioni israeliane dei diritti umani, ma è importante essere realisti e continuare a mobilitare l'appoggio internazionale.
All'interno dei TPO, anche cicli di scontro con gli occupanti aiutano a rompere il monopolio sulla politica detenuto dall'Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e può aiutare ad accelerare e legittimare la ricerca di strategie alternative. Le ricorrenti ondate di collera ridefiniscono le relazioni dei palestinesi con lo Stato israeliano come basate sul conflitto piuttosto che sulla "comprensione", e spesso invocano apertamente la cancellazione degli accordi di Oslo. Come notato in una recente tavola rotonda di Al-Shabaka, mentre la capacità di queste ondate di ottenere risultati politici è molto limitata, a causa della scarsa capacità organizzativa e della reazione violenta da parte dell'ANP e di Israele, esse però costituiscono un cambio radicale di discorso e sono utili per unificare, almeno simbolicamente, il messaggio dei palestinesi.
Sopratutto, i cittadini palestinesi di Israele, che sono stati emarginati dall'OLP e dall'ANP nella ricerca della costruzione di uno Stato, saranno all'avanguardia di un approccio basato sui diritti. Infatti ciò è alla base della loro lotta per la giustizia e l'uguaglianza di diritti all'interno di Israele. Inoltre il loro stretto contatto e la dimestichezza con lo Stato israeliano e le loro continue lotte al suo interno rappresentano un'importantissima fonte di comprensione strategica a cui altri palestinesi possono attingere. Qualcuno ha notato che non si tratta solo di una fonte finora sottoutilizzata dell'azione palestinese, ma ha anche sostenuto che, con la formazione della Lista Unitaria [lista di tutti i partiti politici palestinesi che si è presentata alle ultime elezioni israeliane arrivando terza. Ndtr.], il popolo palestinese dovrebbe guardare ai partiti politici palestinesi in Israele per trovare una leadership. I palestinesi dei Territori occupati, dei campi di rifugiati e della Diaspora farebbero bene a prendere in considerazione più seriamente i rapporti che potrebbero stringere con le loro controparti "all'interno [di Israele]" ed adattare alcune di queste esperienze e tattiche al loro contesto locale, nel caso in cui sia possibile e corretto.
Allo stesso tempo, e come notato in precedenza, la mancanza di una strategia pone rischi in termini di mancata comprensione di quali strumenti e tattiche evitare. Benché il riconoscimento della Palestina come uno Stato abbia aperto la porta alla CPI, portando all'adesione come Stato osservatore all'ONU o al riconoscimento verbale dell’esistenza come Stato da parte di Stati terzi, ciò comporta seri rischi. Cela la realtà per cui la strategia di Israele è di rendere un tale Stato impossibile. Avvalora anche il defunto modello di Oslo e compromette l'argomentazione secondo cui Israele è responsabile dei diritti della popolazione che occupa ed opprime. Altre tattiche rischiose includono la mobilitazione per le elezioni del Consiglio Nazionale Palestinese [il parlamento palestinese. Ndtr.], un organo che ha un'efficacia molto limitata. Né sono democratiche elezioni che sanciscono il potere di partiti antidemocratici o che si svolgono in mancanza di una strategia nazionale particolarmente auspicabile.
Allo stesso modo, si è dimostrato fragile e irrealistico l'approccio che privilegia la costruzione delle istituzioni, adottato negli ultimi anni, attraverso cui le sovvenzioni vengono incanalate in un presunto progetto di costruzione dello Stato. Piuttosto, bisogna riconoscere che l'attuale strategia israeliana di contenimento impedisce non solo la costituzione di uno Stato palestinese indipendente, ma anche un'economia palestinese sostenibile. C'è bisogno di lavorare di più sul modo in cui la soluzione senza Stato rende l'economia palestinese dipendente, improduttiva e strutturalmente arretrata. Allo stesso tempo rimane criticamente importante fornire lavoro ai palestinesi non come sviluppo legato a falsi pretesti, ma per appoggiare la tenacia e per far in modo che i palestinesi rimangano in Palestina.
In sintesi, il problema non è se certi mezzi e tattiche sono buoni o cattivi in teoria, ma se affrontano direttamente o nascondono attivamente l'attuale situazione politica, se fanno avanzare o impediscono una specifica strategia intesa ad affrontare queste realtà. Questo breve ragionamento si propone come un contributo al processo d'identificazione di una tale strategia, che possa unire il popolo palestinese in una lotta che contrasti efficacemente il progetto di Israele di un regime di apartheid.

Il punto di vista espresso in questo articolo è dell'autrice e non esprime necessariamente la politica editoriale dell'agenzia di notizie Ma'an.

(traduzione di Amedeo Rossi)
Riflessioni