mercoledì 26 febbraio 2014

Il sogno infranto dei baby campioni feriti al checkpoint dagli israeliani


Due giovani promesse del calcio nazionale palestinese non potranno mai più scendere in campo; sarà un miracolo – dicono i medici palestinesi – se potranno riprendere a camminare. I dottori dell’ospedale di Ramallah dicono che i due ragazzi – Jawhar Nasser Jawar di 19 anni e Adam Abd al-Rauf Halabiya di 17 – avranno bisogno di almeno sei mesi di trattamenti prima di poter sciogliere la diagnosi, che sembra però lasciare poche speranze.
Il loro sogno si è infranto il pomeriggio del 31 gennaio, mentre tornavano a casa dopo una sessione di allenamento dallo Stadio Feisal Husseini di Al-Ram, quello dove gioca e si allena la nazionale palestinese nei pressi di Gerusalemme, appena oltre il Muro di sicurezza. La tuta sportiva, le scarpe da ginnastica e un borsone a tracolla con gli scarpini e la divisa dentro, hanno allarmato una pattuglia israeliana, che ha giudicato sospetta la loro camminata nei pressi di un checkpoint militare e ha aperto il fuoco a raffica contro la coppia senza preavviso. Poi ha liberato i cani-poliziotto mentre i due ragazzi crollavano a terra in un lago di sangue. Semi - incoscienti per ferite sono stati ammanettati e portati via da un’ambulanza militare e trasportati in un ospedale israeliano di Gerusalemme dove sono stati sottoposti a una serie di interventi chirurgici, prima di essere trasferiti all’ospedale palestinese di Ramallah.
I rapporti medici indicano che Jawhar è stato ferito da 11 proiettili - sette nella gamba sinistra, tre in quella di destra e uno nella mano sinistra - ad Adam un solo colpo ha maciullato un piede. Non ci sono centri specialistici in Cisgiordania, così tra le lacrime delle famiglie sono stati trasferiti al “King Hussein Medical Centre” di Amman, in Giordania, che ha la reputazione di un ospedale di eccellenza.
È furibondo Jibril Rajub, il presidente della Football Association palestinese, Il problema per gli atleti palestinesi è sempre lo stesso: per spostarsi hanno bisogno dei permessi israeliani per circolare in Cisgiordania fra le varie città, così come per andare all’estero se giocano nella Nazionale. Spesso hanno perso a tavolino perché il team non era completo visto che a tre - quattro giocatori non veniva dato il permesso di espatrio. Le partite della Lega A, spesso, il venerdì saltano perché la squadra di Betlemme non ha il permesso di andare a Nablus o viceversa. Il presidente della Fifa Sepp Blatter promette da anni il suo impegno presso le autorità israeliane per superare queste restrizioni ma finora sono rimaste parole. «Concentrarsi sullo sport, sul calcio, è stata la scelta più razionale che l’Anp potesse fare», aveva detto qualche tempo fa Jibril Rajub a Repubblica, «la lotta non violenta è certamente la più proficua per la causa palestinese e lo sport ne è parte integrante ». «Ogni volta che un ragazzino prende a calci qualcosa per strada, lì ricomincia la storia del calcio», ha insegnato il grande Jorge Luis Borges. Perché la Palestina dovrebbe essere diversa? Lo tenga a mente Blatter, quando nelle foto-opportunity si circonda di star che guadagnano milioni di euro l’anno
Fonte la Repubblica.it > 2014 > 02 > 16

lunedì 24 febbraio 2014

“Non c’è posto al mondo più militarista e razzista di Israele”



14 febbraio 2014

Marco Santopadre



A denunciarlo sono la refusenik Sahar Vardi e l’ex soldato di Tsahal Micha Kurz (nella foto). Entrambi, israeliani, si scagliano contro la ‘politica del terrore’ con la quale il paese in guerra permanente educa e condiziona tutta la società.

Anche loro, fin da piccoli, hanno respirato la cultura colonialista e militarista alla quale però ad un certo punto hanno detto no. A prezzo di enormi sacrifici. Sahar Vardi ha pagato carissima la sua scelta di rifiutarsi di entrare nell’esercito israeliano per prestare il servizio militare. La ragazza di Gerusalemme è passata per le prigioni militari per ben 3 volte, nonostante la giovane età, trattata dallo Stato e dalla società nel suo complesso come una traditrice. Alla fine è scampata alla persecuzione della magistratura solo perché definita ‘malata di mente’ e quindi esentata dal prestare servizio nell’esercito.
Micha Kurz, anche lui di Gerusalemme, ha combattuto nelle truppe con la Stella di David, più che altro durante la Seconda Intifada, contro palestinesi inermi e spesso giovanissimi. Poi però gli si è accesa una lampadina ed ha abbracciato la causa della resistenza Palestinese all’occupazione e della denuncia delle discriminazioni israeliane.

A parlare di loro è oggi un lungo articolo del quotidiano spagnolo Publico, che dà voce ai due israeliani dissidenti in questi giorni a Madrid per tenere delle conferenze sulla situazione in Israele e in Medio Oriente. Spiegano al giornalista che li intervista come la stragrande maggioranza degli israeliani vivano la loro intera vita senza conoscere – e senza preoccuparsi di conoscere – le reali implicazioni dell’occupazione dei territori palestinesi. E’ una conseguenza di quella che chiamano ‘politica della paura’ inculcata ai cittadini ebrei dello stato dalla culla alla morte. “Siamo cresciuti all’epoca della Seconda Intifada. Ci raccontavano che il mondo intero voleva la nostra morte, che ci avrebbero ucciso per strada” dice Vardi, che ha incontrato per la prima volta un palestinese a 12 anni, in un villaggio palestinese distante appena 15 minuti da casa sua. Kurz, invece, ricord di non aver mai interagito con un palestinese in vita sua finché non li ha cominciati a ‘frequentare’ ma da soldato, da occupante, da aguzzino. “Sono cresciuto senza conoscere un solo palestinese, senza aver mai visto uno dei loro quartieri, senza aver visto mai neanche un colono ebreo, senza sapere cos’era una colonia e cosa significava. La prima volta che ho avuto a che fare con l’occupazione è stato quando ho messo la divisa” ricorda il giovane dissidente. Che poi spiega: “Gli israeliani vivono terrorizzati, un esempio è una canzone che si canta durante la Pasqua ebraica un verso della quale recita ‘in ogni generazione c’è qualcuno che vuole sterminarci’”. Kurz punta il dito con un’educazione basata sulla militarizzazione a sua volta giustificata da elementi del linguaggio biblico. “Sei circondato da simboli militari fin da quando stai in un asilo nido” aggiunge Vardi secondo il quale l’ideologia ufficiale israeliana impone il messaggio secondo il quale “occorre sopravvivere attaccando per primi”.
Entrambi affermano che la critica all’interno della società israeliana è debole e minoritaria e che l’unico modo di sostenerla è esercitando pressioni internazionali su Israele, anche attraverso il rafforzamento delle campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) che può mettere in discussione l’equilibrio precario sul quale si poggia il cosiddetto ‘stato ebraico’.





lunedì 17 febbraio 2014

Cresce la protesta contro l’accordo ACEA-Mekorot

COMUNICATO STAMPA – Roma 17 febbraio 2014

Cresce la protesta contro l’accordo ACEA-Mekorot

Un appello sottoscritto da oltre 4000 persone, da associazioni e sindacati, tra cui i movimenti per l’acqua pubblica, la FIOM-CGIL, l’ARCI e il Sindaco di Napoli De Magistris. Dalla Palestina un invito a rispettare gli obblighi secondo il diritto internazionale.

Il Comitato No Accordo ACEA-MEKOROT ha raccolto in pochi giorni oltre 4000 firme su una petizione (http://chn.ge/1jmWN8X) contro il protocollo di intesa firmato lo scorso 2 dicembre 2013 tra l’ACEA, società di servizi controllata dal Comune di Roma, e la MEKOROT, la società idrica nazionale di Israele. L’appello è stato condiviso anche da oltre 50 organizzazioni tra cui la FIOM-CGIL, l’ARCI, il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua e il Coordinamento Romano Acqua Pubblica. Tra le adesioni individuali il Sindaco di Napoli Luigi De Magistris, Luisa Morgantini già Vice Presidente del Parlamento Europeo, Haidi Gaggio Giuliani, madre di Carlo Giuliani, e gli ex senatori Giovanni Russo Spena e Vincenzo Vita.

I promotori dell’appello sottolineano che la Mekorot è il braccio esecutivo delle politiche israeliane che sottraggono acqua ai palestinesi e ne negano il diritto all’accesso nei Territori Palestinesi Occupati, come documentate da organizzazioni internazionali, (quali Amnesty International e ONU), Palestinesi (Al Haq) ed israeliane (Who Profits e B’Tselem).[1] La Mekorot, infatti, alla quale sono state “trasferite” nel 1982 tutte le infrastrutture idriche palestinesi dalle autorità militari israeliane, pratica una sistematica discriminazione nella distribuzione dell’acqua. Riduce e raziona le forniture idriche ai palestinesi a favore delle colonie illegali e dell’agricoltura intensiva israeliana, creando nella regione una vera e propria “apartheid dell’acqua”. Il consumo pro capite giornaliero dei coloni israeliani è dì 369 litri [2] mentre quello dei loro vicini palestinesi è di 73 litri, al di sotto della quantità minima raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (100 litri).

Per queste ragioni, la società idrica Vitens, il primo fornitore di acqua in Olanda, a seguito delle indicazioni del suo governo ha recentemente interrotto un accordo di collaborazione con la Mekorot, motivando la decisione con l’impegno verso la legalità internazionale. Un impegno assunto anche da altre imprese europee nelle ultime settimane, che vogliono evitare legami con le colonie israeliane, come il fondo pensione olandese PGGM, la Danske Bank, la più grande banca danese, e il fondo statale norvegese.

Una lettera firmata da organizzazioni della società civile palestinese impegnate sulle questioni di acqua, agricoltura e ambiente ricorda l’obbligo legale degli Stati e delle sue istituzioni di “non dare copertura o assistenza alle violazioni israeliane del diritto internazionale” ribadendo che la “proposta di collaborazione tra ACEA e Mekorot equivale a una violazione di tale obbligo giuridico”.

I promotori della campagna sottolineano che questa iniziativa, come le altre che in tutto il mondo chiedono il boicottaggio economico e commerciale, il disinvestimento e le sanzioni verso Israele (BDS), è tesa a sviluppare una sempre maggiore pressione sul governo di Israele affinché rispetti il diritto internazionale, ed in particolare la Convenzione dell’Aja e la IV Convenzione di Ginevra che vietano alla potenza occupante di sfruttare le risorse del paese occupato. Il movimento BDS sostiene la parità di diritti per tutti e perciò si oppone ad ogni forma di razzismo, fascismo, sessismo, antisemitismo, islamofobia, discriminazione etnica e religiosa.

La campagna contro l’intesa tra ACEA e Mekorot, che ha trovato un convinto sostegno nei movimenti per l’acqua pubblica impegnati nella lotta contro la minacciata completa privatizzazione di ACEA, si svilupperà nelle prossime settimane con iniziative di pressione sul Comune di Rome e sull’ACEA perché non dia seguito al memorandum di intesa con la società israeliana.

PER INFO:
Comitato No Accordo Acea – Mekorot
Cell: 333.831.2194
fuorimekorotdallacea@gmail.com

[1] Jad Isaac & Jane Hilal (2011): Palestinian landscape and the Israeli––Palestinian conflict, International Journal of Environmental Studies, 68:4, 413-429 - http://dx.doi.org/10.1080/00207233.2011.582700
[2] Amnesty International, Troubled Waters: Palestinians Denied Fair Access to Water (2009)
OCHA, How Disposession Happens (2012)
Human Rights Watch, Separate and Unequal: Israel’s Discriminatory Treatment of Palestinians in the Occupied Palestinian Territories (2010)
Al Haq, Water For one People only: Discriminatory Access and ‘Water-Apartheid’ in the OPT (2013)
Who Profits, Il coinvolgimento della Mekorot nell'occupazione israeliana (2013)
B'Tselem, The Water Crisis (2011)

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lunedì 3 febbraio 2014

Yarmuk, La Palestina ha abbandonato la Palestina?


(di Elias Khury, al Quds al arabi. Traduzione dall’arabo di Camilla Matarazzo).
Non mi dilungherò a descrivere la tragedia di Yarmuk. Il campo profughi nei sobborghi di Damasco sta affrontando la peggiore operazione criminale che si possa immaginare. Gli assassini, non paghi dei bombardamenti che ne hanno distrutto le abitazioni costringendo alla fuga gran parte degli abitanti, hanno cominciato ad affamarli stringendoli in uno spietato assedio. Anziani e bambini che muoiono di fame, corpi divenuti terrificanti scheletri, invocazioni d’aiuto che non trovano eco.

Sono circa ventimila le persone rimaste all’interno del campo profughi e che oggi, sotto i bombardamenti, vittime dei cecchini e della fame, vanno incontro alla morte.

Non so che cosa provino i burocrati palestinesi che abitano nelle ville di Ramallah, né come Ahmad Jibril [leader del Fronte popolare di liberazione della Palestina - Comando Generale n.d.t.] possa permettere ai membri della sua organizzazione palestinese di prendere parte all’assedio. Né tantomeno so dire quale sia la posizione di Hezbollah e della brigata Abu Fadl Abbas, disseminati nel quartiere di Sayyida Zaynab, nei pressi del campo. Lo slogan “Zaynab, mai più prigioniera”, sventolato dai sostenitori di Hezbollah per le strade di Beirut, sottintende forse la partecipazione allo sterminio dei palestinesi nel campo di Yarmuk oppure il silenzio su ciò che accade?

“Sono sbalordito!”, come recitava il poeta Salah Jahin in uno dei suoi versi. Sbalordito dall’incoscienza di questo tempo, in cui i palestinesi vengono sterminati in nome del dissenso e della resistenza, fino a una fine che fine non ha nel vocabolario del sangue e della repressione.

La storia del campo di Yarmuk va inquadrata nel contesto della guerra che divampa in Siria. Come accade in altre zone della capitale, nella Ghuta occidentale e orientale, il campo profughi sta affrontando un’operazione di sterminio portata avanti tramite l’assedio, i massacri e la fame. I palestinesi di Siria pagano oggi il caro prezzo imposto ai siriani per la causa della libertà. Il comune destino dei due popoli, battezzato con il sangue di decine di migliaia di vittime, conferma ancora una volta che la liberazione della Palestina è parte della battaglia per la libertà della Siria e che l’unione tra libertà e liberazione è diventata il segno distintivo della nuova fase nella quale è entrata, a ritmo di sangue, la regione dei Bilad al Sham.

La tragedia del campo profughi rientra in quella più ampia vissuta oggi dai siriani, e la circolazione incontrollata di armi al suo interno è da ricollegarsi all’incapacità dell’opposizione siriana di costruire una piattaforma rivoluzionaria e democratica nel Paese. Tuttavia, ciò non dovrebbe far passare in secondo piano il fatto che la leadership palestinese è direttamente responsabile di quanto accade ai propri connazionali nell’esilio libanese e siriano.

Diciamo le cose come stanno. Durante la guerra civile libanese, i palestinesi, nonostante tutto, si rifiutarono di lasciare i campi profughi. A venir sgomberati furono Tall al Zaatar e Jisr al Basha, i cui abitanti non solo furono massacrati, ma ne vennero anche cacciati fuori con la forza. Quanto al campo di Shatila, che subì due furiosi massacri – il primo nel 1982 per mano degli israeliani e dei loro accoliti e il secondo perpetrato dal regime siriano e dai suoi seguaci libanesi durante la Guerra dei campi [1985-87 n.d.t.] – ancor oggi resta saldo sulle sue macerie. È vero che molti dei suoi abitanti se ne sono andati, ma al suo interno c’è chi persevera nel voler restare ad ogni costo.

Nel 2007, invece, in seguito all’invasione di un gruppo fondamentalista dai connotati oscuri chiamato Fath al Islam, venne aperto il fuoco nel campo profughi di Nahr al Bared. Durante gli scontri tra questa organizzazione e l’esercito libanese, da parte palestinese si assistette a un evento senza precedenti, ovvero l’esodo di tutti gli abitanti del campo, che si erano trovati tra due fuochi nemici. La tragedia di Nahr al Bared svelò fino a che punto si erano logorate le strutture politiche palestinesi e in quale esigua misura l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) svolgesse il suo ruolo di rappresentante del popolo palestinese e responsabile della sua sicurezza e incolumità.

Logoramento e assenza che non si possono spiegare semplicemente con l’ascesa delle correnti islamiste. Al contrario, si può ipotizzare che quest’ascesa sia il risultato di uno sfaldamento politico palestinese i cui tratti avevano cominciato a delinearsi con gli accordi di Oslo e che dopo la disfatta delle seconda Intifada è andato esacerbandosi.

La leadership palestinese di Ramallah si è dispensata da ogni responsabilità nei confronti del proprio popolo. Sembra addirittura che la dirigenza dell’Olp si comporti come se il popolo palestinese sia soltanto quello che vive in Cisgiordania e a Gaza. Illusa che la risoluzione avrebbe portato con sé uno stato palestinese, non ha più tenuto conto dei palestinesi della diaspora. Un’illusione che ha prodotto un infiacchimento generalizzato, che ha trasformato i vecchi combattenti in burocrati in attesa degli stati donatori per riscuotere lo stipendio a fine mese.

Questa rinuncia ha portato in Libano alla tragedia di Nahr al Bared e al mutismo politico palestinese. In Siria, invece, conduce alla catastrofe. E qui non si parla solo di Yarmuk ma anche della distruzione della maggior parte dei campi profughi in Siria, cui è seguito il sovraffollamento di quelli libanesi, con migliaia di sfollati palestinesi in fuga dall’inferno siriano.

È chiaro che le due forze che controllano la sfera politica palestinese – ovvero l’Olp e Hamas – non possiedono alcuna strategia rispetto alla posizione e al ruolo dei palestinesi della diaspora, nonostante questi ultimi rappresentino la maggioranza del popolo palestinese. E questo senza parlare dell’assenza di una qualunque visione nei confronti dei palestinesi del ’48, che si autodefiniscono “arabi d’Israele”!

Questa carenza ha condotto a politiche ambigue nei confronti della brutalità dimostrata dal regime siriano verso i campi e ha significato una sola cosa: i profughi sono stati abbandonati al loro destino facendoli sentire orfani.

La rinuncia ai palestinesi della diaspora e dei campi profughi è il primo passo verso la rinuncia alla Palestina tutta. Coloro che credono di poter mantener salda la propria autorità sotto l’occupazione facendo i furbi con i negoziati, si illudono, per non dire che sono complici.

La relazione semirecisa tra la dirigenza palestinese e la diaspora determina l’effettiva rinuncia al diritto al ritorno, mentre rinunciare al legame con i palestinesi del ’48 sottintende un tacito riconoscimento dell’ebraicità dello stato. Allora, di cosa si discuterà al tavolo dei negoziati, della terra erosa dagli insediamenti? O forse della ebraizzazione di Gerusalemme?

Negozieranno? O cercheranno soltanto di assicurarsi la sopravvivenza in un’autorità che autorità non ha? Oppure sono semplicemente un’altra faccia di una sconfitta annunciata che si prende gioco dell’incapacità rincarandone la dose?

Che la Palestina esista con tutto il suo popolo o che non esista affatto!

Yarmuk è diventato sinonimo di Palestina. Allora perché si ritrova da solo? La Palestina ha abbandonato la Palestina?

***

La sera di mercoledì 15 gennaio una sessantina di persone si sono riunite davanti alla sede dell’Escwa a Beirut per manifestare la propria solidarietà al campo di Yarmuk.

Un bambino di cinque anni sventolava la bandiera palestinese. Mi sono avvicinato a chiedergli come si chiamasse e sul suo volto raggiante ho ritrovato i volti di tutti i bambini libanesi, palestinesi e siriani. Stavo per rivolgergli la parola, ma poi ho desistito. Il bambino giocherellava con la bandiera e saltellava al ritmo della canzone. Guardava lontano, là dove i suoi occhi custodivano un mondo immaginario in cui non c’era posto per la brutalità degli assassini.

Ho provato imbarazzo di fronte ai suoi begli occhi, ho provato imbarazzo per la vergogna che abbiamo lasciato in eredità a lui e ai bambini della sua generazione. Ho provato imbarazzo per la sua immagine, che oggi a Yarmuk rappresenta quella di bambini che muoiono di fame nel mezzo del nostro silenzio, della nostra impotenza e delle nostre parole mute.