mercoledì 25 maggio 2016

Strategia del golpe globale


L’arte della guerra

Strategia del golpe globale

Manlio Dinucci


Quale colIegamento c’è tra società geograficamente, storicamente e culturalmente distanti, dal Kosovo alla Libia e alla Siria, dall’Iraq all’Afghanistan, dall’Ucraina al Brasile e al Venezuela? Quello di essere coinvolte nella strategia globale degli Stati uniti, esemplificata dalla «geografia» del Pentagono.

Il mondo intero viene diviso in «aree di responsabilità», ciascuna affidata a uno dei sei «comandi combattenti unificati» degli Stati uniti: il Comando Nord copre il Nordamerica, il Comando Sud il Sudamerica, il Comando Europeo la regione comprendente Europa e Russia, il Comando Africa il continente africano, il Comando Centrale Medioriente e Asia Centrale, il Comando Pacifico la regione Asia/Pacifico.

Ai 6 comandi geografici se ne aggiungono 3 operativi su scala globale: il Comando strategico (responsabile delle forze nucleari), il Comando per le operazioni speciali, il Comando per il trasporto.

A capo del Comando Europeo c’è un generale o ammiraglio nominato dal presidente degli Stati uniti, che assume automaticamente la carica di Comandante supremo alleato in Europa. La Nato è quindi inserita nella catena di comando del Pentagono, opera cioè fondamentalmente in funzione della strategia statunitense.

Essa consiste nell’eliminare qualsiasi Stato o movimento politico/sociale minacci gli interessi politici, economici e militari degli Stati uniti che, pur essendo ancora la maggiore potenza mondiale, stanno perdendo terreno di fronte all’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali.

Gli strumenti di tale strategia sono molteplici: dalla guerra aperta – vedi gli attacchi aeronavali e terrestri in Iugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia – alle operazioni coperte condotte sia in questi che in altri paesi, ultimamente in Siria e Ucraina.

Per tali operazioni il Pentagono dispone delle forze speciali, circa 70000 specialisti che «ogni giorno operano in oltre 80 paesi su scala mondiale». Dispone inoltre di un esercito ombra di contractors (mercenari): in Afghanistan, documenta Foreign Policy, i mercenari del Pentagono sono circa 29000, ossia tre per ogni soldato Usa; in Iraq circa 8000, due per ogni soldato Usa.

Ai mercenari del Pentagono si aggiungono quelli della tentacolare Comunità di intelligence comprendente, oltre la Cia, altre 15 agenzie federali. I mercenari sono doppiamente utili: possono assassinare e torturare, senza che ciò sia attribuito agli Usa, e quando sono uccisi i loro nomi non compaiono nella lista dei caduti.

Inoltre il Pentagono e i servizi segreti dispongono dei gruppi che essi armano e addestrano, tipo quelli islamici usati per attaccare dall’interno la Libia e la Siria, e quelli neonazisti usati per il colpo di stato in Ucraina.

Altro strumento della stessa strategia sono quelle «organizzazioni non-governative» che, dotate di ingenti mezzi, vengono usate dalla Cia e dal Dipartimento di stato per azioni di destabilizzazione interna in nome della «difesa dei diritti dei cittadini».

Nello stesso quadro rientra l’azione del gruppo Bilderberg – che il magistrato Ferdinando Imposimato denuncia come «uno dei responsabili della strategia della tensione e delle stragi» in Italia – e quella della Open Society dell’«investitore e filantropo George Soros», artefice delle «rivoluzioni colorate».

Nel mirino della strategia golpista di Washington vi sono oggi il Brasile, per minare dall’interno i Brics, e il Venezuela per minare l’Alleanza Bolivariana per le Americhe. Per destabiizzare il Venezuela – indica il Comando Sud in un documento venuto alla luce – si deve provocare «uno scenario di tensione che permetta di combinare azioni di strada con l'impiego dosato della violenza armata».

(il manifesto, 24 maggio 2016)

Le radici del conflitto:la Nakba palestinese come parte della più vasta “catastrofe” araba





16 maggio, 2016, Maan News

di Ramzy Baroud

Negli ultimi 68 anni, ogni 15 maggio, i palestinesi commemorano il loro esilio collettivo dalla Palestina . La pulizia etnica della Palestina per fare spazio a una ‘patria ebraica’ è avvenuta a prezzo di una implacabile violenza e di una continua sofferenza. I palestinesi fanno riferimento a questa esperienza che dura tuttora come”Nakba” o “Catastrofe”.

Tuttavia, la ‘Nakba’ non è semplicemente un caso palestinese, ma è anche una ferita araba che continua a sanguinare.

La “Nakba” araba è stata precisamente l’accordo Sykes-Picot del 1916, che ha suddiviso gran parte del mondo arabo tra le potenze occidentali in competizione tra loro. Un anno dopo, la Palestina è stata rimossa del tutto dalla questione araba e “promessa” al movimento sionista in Europa, dando luogo ad uno dei conflitti più duraturi della storia moderna.

Come è potuto accadere?

Quando il diplomatico britannico, Mark Sykes, all’età di 39 anni è deceduto a causa dell’epidemia di spagnola, nel 1919, un altro diplomatico, Harold Nicolson, ha descritto la sua influenza sulla regione mediorientale in questo modo:

“E’stato a causa del suo indefesso impulso e della sua perseveranza, del suo entusiasmo e della sua fede, che il nazionalismo arabo e il sionismo sono diventati due delle nostre cause di guerra di maggior successo.

“Retrospettivamente sappiamo che Nicolson ha parlato troppo presto. La caratteristica del”nazionalismo arabo” cui si riferiva nel 1919 era fondamentalmente diversa dai movimenti nazionalisti che hanno fatto presa in diversi paesi arabi negli anni ’50 e ’60. Lo slogan del nazionalismo arabo negli anni successivi fu la liberazione e l’indipendenza dal colonialismo occidentale e dai suoi alleati locali.

Il contributo di Sykes all’avvento del sionismo non ha nemmeno prodotto una maggiore stabilità. Dal 1948, il sionismo e il nazionalismo arabo sono stati in costante conflitto, provocando deprecabili guerre ed altrettanto continui spargimenti di sangue.

Tuttavia, il contributo duraturo di Sykes per la regione araba è stato il suo ruolo di primo piano nella firma dell’accordo Sykes – Picot noto anche come l’ accordo dell’Asia Minore, un centinaio di anni fa. Quel trattato infame tra la Gran Bretagna e la Francia, che è stato negoziato con il consenso della Russia, ha plasmato la geopolitica del Medio Oriente per un intero secolo.

Nel corso degli anni, le sfide allo status quo imposto dall’ [accordo] Sykes -Picot non sono riuscite a modificare radicalmente i confini arbitrariamente disegnati che dividevano gli arabi in “sfere di influenza” amministrate e controllate dalle potenze occidentali.

Eppure, la persistente eredità [dell’accordo] Sykes – Picot potrebbe eventualmente essere messa in dubbio sotto la pressione delle nuove violente circostanze, con il recente avvento di’Daesh’ e la creazione di una sua propria versione di confini altrettanto arbitrari che comprendono ampie zone della Siria e dell’Iraq, come nel 2014, in concomitanza con l’attuale discussione sulla divisione della Siria in una federazione.

Perché l’accordo Sykes Picot?

L’accordo Sykes-Pycot è stato firmato in conseguenza dei violenti avvenimenti che coinvolsero in quegli anni la maggior parte dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e del Medio Oriente.

Tutto è iniziato quando, nel mese di luglio del 1914, è scoppiata la prima guerra mondiale. L’Impero Ottomano immediatamente ha preso parte alla guerra, schierandosi con la Germania, in parte perché era consapevole del fatto che gli alleati – costituiti principalmente dalla Gran Bretagna, Francia e Russia – avevano l’ambizione di prendere il controllo di tutti i territori ottomani, che includevano anche le regioni arabe della Siria, della Mesopotamia, dell’Arabia, dell’Egitto e del Nord Africa.

Nel novembre del 1915 la Gran Bretagna e la Francia hanno avviato seriamente i negoziati, con lo scopo di dividere l’eredità territoriale dell’Impero ottomano nell’eventualità di una conclusione a loro favore della guerra.

Così, una mappa, disegnata con delle linee rette usando una matita Chinagraph, ha condizionato in gran parte il destino degli arabi, dividendoli in base alle varie ipotesi di appartenenze tribali e di confessioni religiose prese a casaccio.

La divisione del bottino

Mark Sykes è stato il negoziatore per conto della Gran Bretagna e François Georges Picot il rappresentante della Francia. I diplomatici convennero che, una volta che gli ottomani fossero stati sonoramente sconfitti, la Francia avrebbe ricevuto le zone contrassegnate con una (a), che comprendevano la regione del sud- est della Turchia, il nord dell’Iraq, la maggior parte della Siria e il Libano.

L’area ( b) è stata contrassegnata come territori sotto il controllo britannico, che includevano la Giordania, l’Iraq meridionale, Haifa e Acri in Palestina, e la fascia costiera tra il Mare Mediterraneo e il fiume Giordano .

Alla Russia, d’altra parte, sarebbero stati concessi Istanbul, l’Armenia e gli strategici stretti turchi.

L’improvvisata mappa consisteva non solo di linee, ma anche di colori, insieme a un linguaggio attestante il fatto che i due paesi consideravano la regione araba in termini puramente convenzionali, senza prestare la minima attenzione alle possibili ripercussioni del fatto di tagliare a fette intere civiltà aventi una multiforme storia di cooperazione e di conflitto.

L’eredità del tradimento

La prima guerra mondiale terminò l’11 novembre 1918, dopo di che ebbe inizio sul serio la divisione dell’Impero Ottomano .

Gli inglesi e i francesi estesero i [loro] mandati su entità arabe divise, mentre al movimento sionista venne concessa la Palestina, su cui tre decenni più tardi venne formato uno Stato ebraico .

L’accordo, che è stato accuratamente progettato per soddisfare gli interessi coloniali occidentali, ha lasciato dietro di sé un’eredità di divisioni, tensioni e guerre.

Mentre lo status quo ha creato una stabile egemonia dei paesi occidentali sul destino del Medio Oriente, non è riuscito invece a garantire un qualche grado di stabilità politica o a creare un sistema di uguaglianza economica.

L’accordo Sykes – Picot è stato siglato segretamente per un motivo preciso: era completamente in contrasto con le promesse fatte agli arabi durante la Grande Guerra. Alla leadership araba, sotto il comando di Sharif Hussein, era stata promessa, in cambio dell’aiuto agli alleati contro gli ottomani, la completa indipendenza dopo la guerra.

Ai paesi arabi ci sono voluti molti anni e successive ribellioni per ottenere la loro indipendenza. Il conflitto tra gli arabi e le potenze coloniali ha determinato l’ascesa del nazionalismo arabo, che è sorto nel bel mezzo di contesti estremamente violenti e ostili, o più precisamente, come un loro risultato.

Il nazionalismo arabo potrebbe essere riuscito a mantenere una parvenza d’identità araba, ma è fallito nel produrre una risposta valida e unitaria al colonialismo occidentale.

Quando la Palestina – che fu promessa già nel novembre del 1917 [la dichiarazione Balfour, ndt] dalla Gran Bretagna come focolare nazionale per gli ebrei- è diventata Israele, ospitando per lo più coloni europei, il destino della regione araba a est del Mediterraneo è stato marchiato come il territorio del conflitto permanente e dell’antagonismo.

È qui, in particolare, che si percepisce soprattutto la terribile eredità dell’accordo Sykes – Picot in tutta la sua violenza, miopia e spregiudicatezza politica.

Cento anni dopo che due diplomatici, un britannico e un francese, hanno diviso gli arabi in sfere di influenza, l’accordo Sykes – Picot rimane una realtà pugnace ma dominante del Medio Oriente.

Dopo cinque anni che la Siria è in preda a una violenta guerra civile, il marchio Sykes – Picot ancora una volta si fa sentire, in quanto la Francia, la Gran Bretagna, la Russia – e ora gli Stati Uniti – stanno prendendo in considerazione quello che il Segretario di Stato americano, John Kerry, ha recentemente definito il ‘ Piano B ‘ – cioè la divisione della Siria sulla base di linee religiose, probabilmente in accordo con una nuova interpretazione occidentale delle “sfere di influenza”.

La mappa Sykes – Picot può anche essere stata un’ idea rozza disegnata frettolosamente nel corso di una guerra globale, ma, da allora, è diventata il principale quadro di riferimento che l’Occidente usa per ridisegnare il mondo arabo e per “controllarlo come desidera e come ritengono eventualmente opportuno.”

La ‘ Nakba ‘ palestinese, pertanto, deve essere intesa come parte integrante dei vasti disegni occidentali sul Medio Oriente di un secolo fa, quando gli arabi erano (e rimangono) divisi e la Palestina era (e rimane ) conquistata .

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza”

martedì 10 maggio 2016

L'ARTE DELLA GUERRA

L’arte della guerra

Israele ed emiri nella Nato

Manlio Dinucci


Il giorno stesso (4 maggio) in cui si è insediato alla Nato il nuovo Comandante Supremo Alleato in Europa – il generale Usa Curtis Scaparrotti, nominato come i suoi 17 predecessori dal Presidente degli Stati Uniti – il Consiglio Nord Atlantico ha annunciato che al quartier generale della Nato a Bruxelles verrà istituita una Missione ufficiale israeliana, capeggiata dall’ambasciatore di Israele presso la Ue.

Israele viene così integrato ancora di più nella Nato, alla quale è già strettamente collegato tramite il «Programma di cooperazione individuale». Ratificato dalla Nato il 2 dicembre 2008, tre settimane prima dell’operazione israeliana «Piombo fuso» a Gaza, esso comprende tra l’altro la collaborazione tra i servizi di intelligence e la connessione delle forze israeliane, comprese quelle nucleari, al sistema elettronico Nato.

Alla Missione ufficiale israeliana presso la Nato si affiancheranno quelle del regno di Giordania e degli emirati del Qatar e del Kuwait, «partner molto attivi» che verranno integrati ancor più nella Nato per meriti acquisiti.

La Giordania ospita basi segrete della Cia nelle quali – documentano il New York Times e Der Spiegel – sono stati addestrati militanti islamici di Al Qaeda e dell’Isis per la guerra coperta in Siria e Iraq.

Il Qatar ha partecipato alla guerra Nato contro la Libia, infiltrando nel 2011 circa 5mila commandos sul suo territorio (come dichiarato a The Guardian dallo stesso capo di stato maggiore qatariano), quindi a quella contro la Siria: lo ammette in una intervista al Financial Times l’ex primo ministro qatariano, Hamad bin Jassim Al Thani, che parla di operazioni qatariane e saudite di «interferenza» in Siria, con il consenso degli Stati uniti.

Il Kuwait, tramite l’«Accordo sul transito», permette alla Nato di creare il suo primo scalo aeroportuale nel Golfo, non solo per l’invio di forze e materiali militari in Afghanistan, ma anche per la «cooperazione pratica della Nato col Kuwait e altri partner, come l’Arabia Saudita». Partner sostenuti dagli Usa nella guerra che fa strage di civili nello Yemen. Vi partecipa, con una quindicina di cacciabombardieri, anche il Kuwait.

A cui l’Italia fornisce ora 28 caccia Eurofighter Typhoon di nuova generazione, costruiti dal consorzio di cui fa parte Finmeccanica insieme a industrie di Gran Bretagna, Germania e Spagna. Un contratto da 8 miliardi di euro, il più grande mai firmato da Finmeccanica, nelle cui casse entra circa la metà. È stato firmato il 5 aprile in Kuwait dal ministro della difesa, Khaled al-Sabah, e dall’amministratore delegato di Finmeccanica, Mauro Moretti.

Madrina dell’evento la ministra Roberta Pinotti, efficiente piazzista di armi (vedi la vendita a Israele di 30 caccia M-346 da addestramento avanzato). Gli Eurofighter Typhoon, che il Kuwait userà per fare stragi nello Yemen e altrove, possono essere armati anche di bombe nucleari: quelle in possesso dell’Arabia Saudita (vedi il manifesto del 23 febbraio). All’addestramento degli equipaggi provvede l’Aeronautica italiana, rafforzando «il fondamentale ruolo di stabilizzazione regionale svolto dal Kuwait».

Un successo della ministra Pinotti che, una settimana dopo aver venduto i cacciabombardieri al Kuwait, è stata insignita dall'Unione Cattolica Stampa Italiana con il Premio «Napoli Città di Pace 2016». Alla cerimonia, il cardinale Crescenzio Sepe ha definito quello della Pinotti «impegno al servizio della politica come forma più alta d’amore, che mette sempre al centro la tutela e la dignità della vita umana», proponendo perciò «il cambio di denominazione del Dicastero della Difesa in quello della Pace».

Che ne pensa Papa Francesco?

(il manifesto, 10 maggio 2016)

Sullo stesso argomento vedi La notizia su Pandora TV http://www.pandoratv.it/?p=7755