domenica 6 ottobre 2013

UN RACCONTO PER NON DIMENTICARE

-QUATTRO FRATELLI

Suleyman non sapeva come si era ritrovato sulla sabbia umida. Era come se il ricordo della traversata si fosse cancellato nella sua memoria lasciando solo quel buio e quell’umido. Lo sciacquio delle onde sulla battigia era un canto funebre lugubre e solenne.
Erano venti, forse trenta uomini, avrebbero potuto fuggire prima dell’arrivo della guardia costiera o della polizia. Ne avrebbero avuto il tempo. Però nessuno si era mosso. La morte li aveva sfiorati con la sua fredda lama e ne erano ancora agghiacciati.
Tutti fissavano i dieci corpi distesi sulla battigia, uno accanto all’altro nella pace della morte. Dieci corpi di giovani dai sedici ai vent’anni. Avrebbero riempito nuove fosse che i becchini dell’isola continuavano e continuavano a scavare, quando il mare non tratteneva i morti, stretti nel suo abbraccio, ma li restituiva sputandoli sulla riva.
Gli uomini erano quasi tutti giovani, ma qualcuno c’era, più anziano. Un uomo i cui capelli tendevano al bianco si era coperto il volto con le mani. Dagli spazi vuoti tra le dita cadevano come lacrime smozzicate parole. Tutti guardavano il loro futuro annegato.
Li portarono via allucinati e muti, nessuno tentò la minima resistenza. Nell’amaro tragitto Suleyman non riusciva a smettere di pensare:
-E’ per questo che sono partito?-
Adel, il secondo fratello, arrivò di giorno. Non c’era l’acqua nera, il cielo nero, non c’erano morti sulla riva. Il sole splendeva alto come un inno alla vita, si sentiva il profumo del mare e un leggero vento di brezza sulla pelle. I giovani non ebbero esitazioni, si sparpagliarono in ogni direzione con grande velocità.
Presto Adel sentì la macchina della polizia che lo inseguiva mentre correva tra i campi. L’ansia cresceva metro per metro, no, non doveva farsi prendere. Era come se il tempo si fosse fermato assieme al respiro nella gola, era ancora libero, voleva restare libero più di quanto volesse restare vivo ma le gambe diventavano sempre più legnose, più dolenti. Adel non aveva neppure il vantaggio della velocità che ha la lepre sui predatori, restò libero ancora per pochi metri.
Anìs, il terzo fratello, sbarcò anch’egli con la luce del mattino. Quel giorno non c’era nessuno a spiare gli sventurati che venivano dal mare. Anis era bello e i suoi vestiti non erano stazzonati. Respirò l’aria fresca e si avviò con calma. Si mescolò ai bagnanti che scorazzavano per la strada. Voleva godersi la giornata senza pensare a niente per il momento. Entrò in un bar e fece colazione. Al barista che lo aveva squadrato con sospetto si era rivolto in francese.
–Sono un turista francese –
aveva detto tranquillamente.
Qualcuno però aveva notato il giovane.
-Francese? Semmai sarà un algerino!- E mise mano al cellulare. Un albergatore, in quei giorni di sbarchi, aveva promesso un lauto compenso a chi avesse scoperto e denunciato un clandestino. Anìs non sapeva che sul suo capo pendesse una taglia.
Quando giunse al CPT, Adel ne stava partendo. Non s’incontrarono. Non seppero nulla l’uno dell’altro.
Appena ebbe oltrepassato il cancello che si chiuse alle sue spalle, si sentì mancare. Un vuoto allo stomaco, un senso di vertigine, che diavolo aveva fatto perché lo portassero in un posto simile? Era in trappola.
Intanto Suleyman, trasferito da tempo in un altro centro, era andato fuori di sé quando aveva saputo che volevano rimpatriarlo con un volo charter. Aveva paura di volare. Non avrebbe sopportato un altro naufragio, non avrebbe sopportato di naufragare in cielo, perciò cominciò a gridare fino a diventare cianotico ed anche a sferrare calci quando cercarono di afferrarlo. Suleyman però non era portatore di alcun diritto umano e nessuno si curò di capire cosa stava urlando. Non capivano la sua lingua né importava loro di capirla e lo legarono stretto alla sua paura e lo caricarono a forza sul velivolo.
I suoi compagni di sventura camminavano in fila scortati dalla polizia. Tutti avevano la testa bassa e i polsi stretti nelle manette. Il triste corteo dei deportati sarebbe stato caricato sull’aereo e ognuno saldamente assicurato con doppie cinghie ai sedili senza che le manette venissero loro tolte.
Impacchettato come un salame e fornito di pannolone, tante volte gli scappasse di urinare, Suleyman era stretto tra due agenti che gli davano prontamente una botta di manganello ogni volta che riprendeva a urlare. Quando si stufarono gli legarono un bavaglio sulla bocca per non sentirlo più. Solo all’arrivo si accorsero che il prigioniero non era più nei suoi legacci, era morto soffocato. Non era scampato a questo nuovo e più amaro naufragio.
Adel era stato trasferito al “Regina pacis” e presto capì di essere caduto dalla padella alla brace. All’inizio si era lasciato ingannare dalla bellezza del posto. La costa rocciosa, il mare di un azzurro profondo e intenso, la stessa costruzione del CPT, bianca e celeste…ma il cancello era pesante, il muricciolo sormontato da alte inferriate e i militari erano dappertutto.
Due giorni dopo il suo arrivo c’era stata la rivolta. La causa scatenante era stato il suicidio di un giovane cui era stato notificato il respingimento della sua domanda di asilo e il conseguente rimpatrio. La rivolta lo aveva colto di sorpresa perché all’inizio era rimasto molto colpito dalla calma malata dei detenuti, o ospiti, come li chiamava il direttore del lager. Aveva visto giovani della sua età aggirarsi strascicando i piedi, lo sguardo vacuo, assente. Sembravano zombi. Erano gli effetti delle dosi massicce di psicofarmaci che venivano messi nel cibo dei prigionieri per tenerli calmi, che lo volessero o che non lo volessero. Una camicia di forza chimica. Quando però quel ragazzo s’impiccò per la disperazione di dover tornare nelle mani dei torturatori cui aveva tentato di fuggire, non vi furono psicofarmaci bastanti per contenere il dilagare della rabbia, della ribellione a tanta ingiustizia.
Gli “ospiti” si chiedevano per quale ragione dovevano essere reclusi senza aver fatto niente, senza che nessun tribunale li avesse condannati.
Nella confusione Adel e un altro giovane tentarono la fuga. L’altro ragazzo si buttò da un punto troppo alto e si ruppe una gamba ma Adel toccò terra incolume e si mise a correre. Era ancora libero, libero come la volpe inseguita dai cani. Dentro il CPT infuriava la repressione.
Le teste sbattute contro il muro con violenza s’insanguinavano e di sangue erano macchiati muri e pavimenti, un malcapitato giovane era stato arrotolato in una specie di lercio tappeto e i militi si erano accaniti selvaggiamente su di lui pestando a più non posso.
Adel fu riacciuffato ben presto. E pestato a sangue. Era mezzo rintronato dal dolore, col sangue che gli entrava negli occhi, spinto in malo modo da due poliziotti che gli avevano legato le mani dietro la schiena, mentre lo trascinavano di nuovo in prigione quando vide il suo amico Marwan con gli occhi fuori dalla testa afferrato da un aguzzino mentre un altro gli spingeva in gola della carne di maiale cruda, aiutandosi con un manganello.
Dopo, nessuno fu curato, quali che fossero le sue ferite, né portato in ospedale.
Lo stesso giorno che Anìs, assieme ai suoi compagni, uscì dal CPT per essere imbarcato per porto Empedocle, entravano nel porto di Lampedusa due motovedette della guardia costiera e una della guardia di finanza, trascinando un peschereccio con un centinaio di persone a bordo. Un salvataggio a undici miglia dalla costa.
Sul molo turisti e gente del posto erano venuti a vedere lo sbarco. I migranti arrivarono, facce sconvolte, qualcuno crollò a terra, dal molo si sentì urlare:
-Devono andare a casa di Berlusconi o in Vaticano!-
Un albergatore si lamentava delle scarse prenotazioni a causa di tutti quegli sbarchi, con un elegante signora.
Un uomo domandò a una ragazza in pareo:
non ha paura di tutti questi morti in mare?-
Lei rispose:
-veramente, neppure ci penso…-
Intanto Anìs e gli altri erano arrivati al porto. Li imbarcarono e li confinarono tutti sotto coperta.
Sul ponte pieno di turisti, risate e schiamazzi. Senza un pensiero al mondo gli allegri vacanzieri cantavano in coro qualche stupida canzone.

Ma che ne era stato del quarto fratello? Fawzi, il più anziano, era partito per primo. Aveva preso la decisione alla nascita di suo figlio Alex. Lo aveva chiamato così perché non si sentisse a disagio con un nome arabo in Europa, dove la gente chiamava gli arabi Mustafà o Mohammed qualunque fosse il loro nome. A Londra Fawzi ci viveva già da dieci anni, non aveva ancora il permesso di soggiorno, ma lavorava regolarmente. Il permesso era solo una questione di tempo, per il resto era tutto a posto. Aveva perso sua moglie durante la traversata, c’erano stati dieci morti, lei era una delle vittime. Alex però era cresciuto a Londra ed era molto inserito. Spesso i suoi compagni di scuola venivano a trovarlo e passavano lunghe ore nella sua camera a navigare in internet con il computer che Fawzi aveva comprato, con gran sacrificio, a suo figlio perché non si sentisse da meno degli altri. Alex non si sentiva da meno. Era bello e intelligente, le sue compagne di scuola lo adoravano, ma piaceva a tutti e a Fawzi si gonfiava il cuore dall’orgoglio.
Di notte parlava con la moglie morta a proposito del loro figlio. A volte lei gli rimproverava di tenere il ragazzo lontano dalla propria cultura, Alex stava rischiando di dimenticare l’arabo. Effettivamente parlava uno strano arabo con accento inglese.
Fawzi era triste. Il suo matrimonio era durato solo tre anni e quando aveva cercato di migliorare la vita della sua famiglia aveva tirato sul suo capo il drappo nero di una disperata solitudine che si attenuava la notte quando il buio apriva una strada verso la porta del mondo di là. Ma la tristezza se ne andava davanti al fresco e spensierato sorriso di Alex. Si sentiva in pace, come un uomo che ha realizzato un compito del destino: suo figlio avrebbe avuta una vita diversa.
Tutto cambiò dopo l’attentato alla metropolitana. L’assordante ripercussione di quel boato arrivò fino alle ultime case in periferia, fino alla casa di Fawzi. Accadde tutto di sera e senza preavviso.
Alex stava facendo i compiti in camera sua, mentre Fawzi preparava la cena. Ancora per qualche minuto durò un’atmosfera di pace familiare, poi il tocco crudele alla porta. Ignaro, Fawzi andò ad aprire e un brivido gelato entrò assieme ai quattro uomini armati.
Alex si precipitò in cucina allarmato e vide quegli uomini che mettevano le manette a suo padre, che cercavano di trascinarlo via. Sul fuoco c’era ancora la pentola con il cus-cus e le verdure. Spaventato a morte il ragazzo corse verso il telefono, sollevò la cornetta gridando:
-Non aver paura papà adesso chiamo la polizia!-
In mezzo a due uomini che lo tenevano per le braccia, Fawzi si voltò e con la faccia stravolta rispose:
-Lascia perdere Alex, sono loro la polizia-.
Arrivarono a notte nel Cpt, faceva freddo. Alex pensava ai suoi dischi, al suo computer, ai compiti lasciati sul tavolo. Pensò all’interrogazione di matematica che aveva il giorno dopo, all’appuntamento con la sua compagna di banco. Non era possibile, ci doveva essere un errore, loro non dovevano trovarsi lì!
Il secondino ordinò agli ultimi arrivati di sedersi sul pavimento. Alex esitò, il pavimento era sudicio e coperto di liquami che fuoriuscivano dai bagni. Guardò incredulo il carceriere che urlava di sedersi
–Ma sta scherzando?- domandò, l’energumeno lo colpì così forte che cadde a terra con il labbro insanguinato, imbrattandosi di residui puzzolenti.
La notte tremando di freddo, sul materasso semisventrato Alex pianse sulla spalla di suo padre:
-come faccio papà, domani ho l’interrogazione…-
Li avrebbero rispediti a casa. A casa dove, dopo dieci anni? A casa da chi? La sua Salwa ormai non c’era più. E cosa avrebbe fatto Alex? Era cresciuto a Londra, sarebbe stato un pesce fuor d’acqua, quale avvenire avrebbe avuto? Era stato dunque tutto inutile? Aveva affrontato quel viaggio infernale per il futuro e ora il passato lo aggrediva alle spalle. Quanto coraggio per affrontare la vita giorno per giorno, quanto lavoro, quanti sforzi, quanti sacrifici vanificati in una manciata di minuti…Fawzi si sentiva tutto bagnato non sapeva se di sudore o di lacrime.
Alex dormiva sopraffatto dalla stanchezza. Per dieci, dei suoi dodici anni, era stato un ragazzino come tanti a Londra e ora tutt’a un tratto veniva preso e strappato dal caldo della sua casa, gettato in un lager con il freddo e la paura, perché suo padre era un arabo e non era nato a Londra, sebbene avesse a Londra spremuto il suo quotidiano sudore per dieci anni. A che serviva essere lì con lui se non poteva proteggere il suo bambino? Si era sentito morire quando il secondino aveva alzato la mano su di lui.
Fawzi vegliava nel buio puzzolente di stantio. Doveva fare qualcosa che cambiasse la situazione. Non poteva permettere che a suo figlio strappassero il futuro, quel futuro per cui aveva tanto lottato.
Sapeva che se Alex fosse stato solo, come minorenne, avrebbe avuto il diritto di rimanere. Ma non era solo, aveva quel padre magro e le spalle già cascanti che non lo sapeva proteggere, che era incapace di difenderlo dai violenti, di dargli un avvenire diverso. Quel padre avrebbe potuto solo trascinarlo con sé nel suo buio destino.
A un tratto Fawzi ebbe un’idea. Ma certo. Questo pover’uomo incapace di cambiare la sua sorte poteva ancora fare molto per quella di suo figlio. Si, era l’unica cosa da fare. Alex avrebbe pianto, avrebbe sofferto, ma poi la sua vita sarebbe tornata quasi come prima. Lo avrebbero tolto da lì, sarebbe tornato a scuola, sarebbe rimasto e poco a poco avrebbe dimenticato tutto quel dolore. Fawzi era quasi contento di se, non si sentiva più uno straccio inutile, ma un uomo pieno d’amore, un padre nel senso più compiuto mentre strappava, piano per non svegliare Alex, la camicia, e farne un nodo scorsoio.

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