lunedì 24 febbraio 2014

“Non c’è posto al mondo più militarista e razzista di Israele”



14 febbraio 2014

Marco Santopadre



A denunciarlo sono la refusenik Sahar Vardi e l’ex soldato di Tsahal Micha Kurz (nella foto). Entrambi, israeliani, si scagliano contro la ‘politica del terrore’ con la quale il paese in guerra permanente educa e condiziona tutta la società.

Anche loro, fin da piccoli, hanno respirato la cultura colonialista e militarista alla quale però ad un certo punto hanno detto no. A prezzo di enormi sacrifici. Sahar Vardi ha pagato carissima la sua scelta di rifiutarsi di entrare nell’esercito israeliano per prestare il servizio militare. La ragazza di Gerusalemme è passata per le prigioni militari per ben 3 volte, nonostante la giovane età, trattata dallo Stato e dalla società nel suo complesso come una traditrice. Alla fine è scampata alla persecuzione della magistratura solo perché definita ‘malata di mente’ e quindi esentata dal prestare servizio nell’esercito.
Micha Kurz, anche lui di Gerusalemme, ha combattuto nelle truppe con la Stella di David, più che altro durante la Seconda Intifada, contro palestinesi inermi e spesso giovanissimi. Poi però gli si è accesa una lampadina ed ha abbracciato la causa della resistenza Palestinese all’occupazione e della denuncia delle discriminazioni israeliane.

A parlare di loro è oggi un lungo articolo del quotidiano spagnolo Publico, che dà voce ai due israeliani dissidenti in questi giorni a Madrid per tenere delle conferenze sulla situazione in Israele e in Medio Oriente. Spiegano al giornalista che li intervista come la stragrande maggioranza degli israeliani vivano la loro intera vita senza conoscere – e senza preoccuparsi di conoscere – le reali implicazioni dell’occupazione dei territori palestinesi. E’ una conseguenza di quella che chiamano ‘politica della paura’ inculcata ai cittadini ebrei dello stato dalla culla alla morte. “Siamo cresciuti all’epoca della Seconda Intifada. Ci raccontavano che il mondo intero voleva la nostra morte, che ci avrebbero ucciso per strada” dice Vardi, che ha incontrato per la prima volta un palestinese a 12 anni, in un villaggio palestinese distante appena 15 minuti da casa sua. Kurz, invece, ricord di non aver mai interagito con un palestinese in vita sua finché non li ha cominciati a ‘frequentare’ ma da soldato, da occupante, da aguzzino. “Sono cresciuto senza conoscere un solo palestinese, senza aver mai visto uno dei loro quartieri, senza aver visto mai neanche un colono ebreo, senza sapere cos’era una colonia e cosa significava. La prima volta che ho avuto a che fare con l’occupazione è stato quando ho messo la divisa” ricorda il giovane dissidente. Che poi spiega: “Gli israeliani vivono terrorizzati, un esempio è una canzone che si canta durante la Pasqua ebraica un verso della quale recita ‘in ogni generazione c’è qualcuno che vuole sterminarci’”. Kurz punta il dito con un’educazione basata sulla militarizzazione a sua volta giustificata da elementi del linguaggio biblico. “Sei circondato da simboli militari fin da quando stai in un asilo nido” aggiunge Vardi secondo il quale l’ideologia ufficiale israeliana impone il messaggio secondo il quale “occorre sopravvivere attaccando per primi”.
Entrambi affermano che la critica all’interno della società israeliana è debole e minoritaria e che l’unico modo di sostenerla è esercitando pressioni internazionali su Israele, anche attraverso il rafforzamento delle campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) che può mettere in discussione l’equilibrio precario sul quale si poggia il cosiddetto ‘stato ebraico’.





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