martedì 22 maggio 2012

APPELLO A FAVORE DEL POPOLO PALESTINESE CONTRO TEATRO FESTIVAL A NAPOLI CHE HA COME OSPITE ISRAELE

Quest’anno,  per la sua 5 edizione, il Napoli Teatro Festival avrà una sezione dedicata ad Israele, che si aprirà con il concerto di inaugurazione al San Carlo della nota cantante Noa  per poi proseguire con una serie di spettacoli di compagnie di danza israeliane. Da sempre certi intellettuali, artisti, enti ed istituzioni sono implicati nel processo di costruzione e di accurata propaganda di un'immagine dello stato d'Israele come di una democrazia modello, pluralista, accogliente, tollerante. La cosiddetta cultura "neutra", o “equidistante”, è il perno attraverso cui ruota l'elaborazione di una narrazione ideologica che si adopera alla messa a punto di termini che rendano accettabile, normalizzato, uno stato di cose palesemente eccezionale: i palestinesi vivono sulla loro pelle un'occupazione militare che dura oramai da 64 anni, politiche di apartheid, espulsione, pulizia etnica. Strumentalizzando la cultura lo Stato di Israele cerca quindi di “ripulirsi la faccia” e nascondere con la retorica di un’apparente tolleranza e pluralismo la realtà delle politiche messe in atto quotidianamente che non lasciano spazio invece a chi realmente prova nella discussione e nella pratica politica a mettere in discussione l’operato del governo di Tel Aviv. Iniziamo col prendere in esempio il caso emblematico della cantante Noa, il cui impegno in musica, si legge sul sito del San Carlo, “ha gettato le solide basi per la diffusione di un messaggio di pace capace di superare i confini geografici e far dialogare diverse culture.” mentre, in realtà, Noa ha sempre giustificato e appoggiato le azioni militari dello Stato di Israele.  Dopo l’Operazione Piombo Fuso a cavallo tra il 2008 e il 2009, che ha visto l’uccisione di circa 1400 palestinesi e più di 5000 feriti, con l’utilizzo illegale da parte di Israele del fosforo bianco in una delle aree più densamente popolate al mondo, Noa scrisse una lettera aperta al popolo palestinese, in cui diceva: “Io so che nel profondo del vostro cuore DESIDERATE (il maiuscolo è nel testo, n.d.t.) la morte di questa bestia chiamata Hamas che vi ha terrorizzato e massacrato, che ha trasformato Gaza in un cumulo di spazzatura fatto di povertà, malattia e miseria”. “Posso soltanto augurarvi che Israele faccia il lavoro che tutti noi sappiamo deve esser fatto, e VI LIBERI definitivamente da questo cancro, questo virus, questo mostro chiamato fanatismo, oggi chiamato Hamas. E che questi assassini scoprano quanta poca compassione possa esistere nei loro cuori e CESSINO di usare voi e i vostri bambini come scudi umani per la loro vigliaccheria e i loro crimini”. Dopo queste dichiarazioni, Noa,  incurante, continuò a suonare e cantare in eventi per la “pace”, per il “dialogo” e quant’altro di retorico ci fosse in programma. In ogni caso partì già dall’interno di Israele una campagna di boicottaggio nei suoi confronti sostenuta, tra gli altri, da Udi Aloni, regista e scrittore israeliano e Juliano Mer Khamis, figlio di madre ebrea israeliana e padre palestinese, attore, regista e fondatore del Freedom Theatre nel campo profughi di Jenin che rappresenta tutt’altra esperienza di teatro rispetto a quella che andrà in scena al San Carlo e in altri teatri napoletani. Proprio Juliano, che credeva nella cultura come forma di resistenza e strumento per stimolare l’analisi e la comprensione dell’Altro, rispose a Noa con queste parole: “Non c’è limite alla tua ipocrisia, Noa. Hai supportato la guerra che ha reso orfani questi bambini e ora vuoi giocare a “Madre Teresa” e aiutarli? Quanto puoi essere cinica? Migliaia di bambini sono stati mutilati fisicamente e psicologicamente per il resto delle loro vite in una guerra che non solo tu non hai ostacolato, ma hai pubblicamente giustificato. Forse puoi aumentare la tua popolarità e cercare di lavare le tue mani insanguinate creando titoli di testa sulle spalle di questi bambini, ma non sarai capace di pulire la tua ormai sporca coscienza. Non finchè non riconoscerai che un occupante non ha alcun diritto morale di dire alla popolazione occupata cosa fare, incluso quale leadership può o non può democraticamente eleggere. Non prima che tu riconosca  che il reale “virus” o “cancro”, per usare le tue malevoli parole, il “mostro” è la continua occupazione e l’oppressione che ne risulta. I veri fanatici qui, Noa, sono le persone che pensano di avere il diritto di infliggere così tanto dolore e danno a una popolazione assediata.” Inoltre, per quanto riguarda invece le compagnie di danza, che si esibiranno dal 19 al 24 giugno in vari teatri napoletani, nessuna di queste, né singoli artisti, sembrano risultare tra i 150 firmatari israeliani dell’appello al boicottaggio del  Complesso Teatrale di Ariel (una delle più grandi colonie israeliane in Cisgiordania) che nell’estate 2010 suscitò incredibile scalpore in Israele, con il premier Netanyahu che si affrettò a dichiarare che non era possibile finanziare e supportare qualsiasi teatro, compagnia, artista che avesse appoggiato l’appello al boicottaggio. Anzi la Vertigo Dance Company e la Kibbutz Contemporary Dance Company che appaiono nel programma del NapoliTeatroFestival, dichiararono ufficialmente che non avrebbero partecipato al boicottaggio senza entrare nel merito politico della questione. La solita presa di posizione di una cultura che si fa semplice erudizione e non si schiera, che  anzi fugge da quello che dovrebbe essere il ruolo fondamentale della stessa: un processo formativo della personalità dei singoli, ma anche una presa di coscienza, con la consapevolezza di essere parte integrante di una società e che la vita della società è politica, che lo si voglia o no. Purtroppo, chiunque provi, anche all’estero, a criticare le politiche di apartheid del governo di Tel Aviv, magari addirittura partendo dall’ideologia che sottende a tali politiche, il sionismo, viene subito bollato dai media come "antisemita". Eppure essere ebrei non significa essere sionisti, contrastare il sionismo non significa attaccare gli ebrei in nome di un odio razziale antisemita, bensì opporsi ad un’ideologia di colonialismo che ha in sè i termini dell’esclusione etnica che si è tradotta concretamente nella nascita dello stato d’Israele e che per i palestinesi ha significato la Naqba del ‘48, il moltiplicarsi senza tregua degli insediamenti coloniali, migliaia di profughi senza diritto al ritorno, migliaia di prigionieri detenuti illegalmente, la cancellazione sistematica dei diritti più elementari.  Con questo appello vogliamo quindi contrastare la già citata “normalizzazione” propagandata da certi artisti e intellettuali israeliani che, per l’appunto,  rivendicando la “neutralità” della cultura, o addirittura proclamandosi pacifisti e portando avanti posizioni ambigue e ipocrite, continuano a promuovere le loro attività attraverso le stesse istituzioni israeliane. Al contrario, agli israeliani e agli ebrei che realmente mettono in discussione l’occupazione dei Territori Palestinesi, le politiche razziste e di apartheid dello Stato d’Israele, non viene dato spazio e, anzi, subiscono un vero e proprio linciaggio mediatico e di opportunità lavorative. Pensiamo a personalità come Ilan Pappè, storico israeliano, praticamente costretto all’esilio a Londra per le sue prese di posizione politiche, a Noam Chomsky, noto linguista ebreo americano a cui è stato impedito l’ingresso in Israele perchè intendeva partecipare ad una conferenza dell’Università palestinese a Bir Zeit, lo stesso è accaduto al capo della Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite Richard Falk, anch’egli ebreo americano, pensiamo all’attivista israeliano Jonathan Pollack, che ha trascorso tre mesi in carcere per una protesta contro il massacro di Gaza nel 2009, ai giovani israeliani che rifiutano il servizio militare obbligatorio e finiscono in carcere, e a molti altri ancora che vengono marginalizzati e pubblicamente classificati come traditori per aver osato criticare le politiche dello Stato di Israele. In ogni caso, nonostante tutto questo, il progetto di mistificazione sionista continua a trovare potentissimi alleati nei giganti Usa e Ue. Proprio l’Italia è ormai diventata il quarto partner commerciale dello stato Israeliano, e con l’ultima visita del primo ministro Monti è stato suggellato un “salto di qualità” nelle relazioni tra i due stati. Il Napoli Teatro Festival, forse ingenuamente o forse no, ha scelto di dare per l’ennesima volta spazio a questa tipologia di “cultura”, rappresentativa di uno Stato razzista e criminale, che ha violato più di 70 risoluzioni dell’ONU e che si sente impunibile perché gode di solido supporto dalle grandi potenze. Sta come sempre alla società civile, agli intellettuali, alla sensibilità di chi non vuole dimenticare la resistenza palestinese fare qualcosa, non semplicemente proponendo spazi eguali per la Palestina, ma finalmente boicottando iniziative come questa, che avallano l’idea di Israele come di uno Stato “normale” quando in realtà le sue politiche stanno sistematicamente distruggendo ogni aspirazione alla pace in Medio Oriente. Saremmo ben felici di andare ad ascoltare un concerto di Noa o uno spettacolo di danza delle compagnie israeliane, il giorno in cui abbandoneranno finalmente il loro silenzio e la loro ipocrisia per abbracciare realmente la causa di chi lotta per la propria dignità, rifiutando così di organizzare performance passando per le istituzioni Israeliane. Fino a quando questo non avverrà, continueremo a contestare chi organizza Festival del genere, non per chissà quale spirito ostruzionista,  ma per dare voce alla resistenza e al diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

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