di Giulietto Chiesa - ANTIMAFIADuemila N°65
Israele è pronta ad attaccare l’Iran. Una crisi annunciata della quale Washington, contrariamente a quanto vorrebbe far credere, non è affatto all’oscuro.
Anche la Russia e la Cina, a sorpresa, sembrano dare il via libera all’attacco in fede a inediti e non meglio precisati “scambi di favori”. Accettando un rischio di proporzioni non ancora prevedibili.
C’è da chiedersi: perché lo fanno?
Se siamo a 5 minuti, a 5 giorni, a 5 mesi, non possiamo saperlo. Ma che siamo a 5 anni possiamo escluderlo. Da dove? Dal momento in cui Israele attaccherà militarmente l’Iran e darà avvio a una crisi militare di così vaste proporzioni da modificare per una lunga fase i già precari equilibri mondiali restanti.
Questa crisi - annunciatissima ma che quasi nessuno vuole vedere - si aggiungerà, aggravandole drammaticamente, a tutte le altre crisi già in atto. Israele vi si accinge, incoraggiata da potenti circoli internazionali che sono interessati a un grande incendio: l’unico nel quale potranno essere bruciati tutti i libri contabili degli organizzatori della fine di un’epoca intera della storia umana.
Inutile rispondere alle obiezioni che di solito promanano da ogni sorta di anime belle: hanno tutte lo stesso difetto originario, consistente nell’applicare le regole del politically correct a Israele.
Quelle regole non sono usate da Israele essendo esse state inventate per i paesi normali, mentre Israele è un paese eletto. La sostanza di questo pensiero è che Dio sta dalla sua parte, è “con Israele”. E, quindi, ogni forma di analisi politically correct del comportamento di Israele appare insensata, essendo Dio estraneo a criteri del genere.
Quindi, invece di prevenire le obiezioni politically corrected mi limiterò ad elencare i fatti. Che sono molto più vasti, con le loro implicazioni, dei confini di Israele e conducono tutti, inequivocabilmente, ad un esito, dove Israele svolgerà un ruolo principale: quello detto all’inizio. Se poi quell’esito sembrerà dimostrare che Dio è con loro, non potremo che invocare quel Dio chiedendogli che “ce la mandi buona”.
Vediamo dunque i fatti. A cominciare dall’assalto al convoglio di navi pacifiste che, alla fine di maggio, intendeva rompere il blocco di Gaza. Sappiamo – fu chiaro fin dal primo momento della tragedia – che non è stato un malaugurato errore, ma una sanguinosa provocazione ideata a freddo per aprire uno scandalo internazionale di enormi proporzioni. Lo scopo era quello di punire la Turchia. Un segnale dunque.
Alle anime belle che si sono affannate a scrivere che l’attacco dei commandos israeliani ha provocato gravi danni alla causa israeliana, isolando ulteriormente quel paese perfino da molti dei suoi amici europei, si dovrà suggerire di guardare la faccenda da un altro angolo visuale. Israele non ha bisogno di alleati terreni, salvo uno, che è terreno solo in un senso particolare, sentendosi investito, da circa 100 anni a questa parte, di una missione divina anch’esso: gli Stati Uniti d’America.
E questo alleato non lo ha perduto e non lo perderà mai.
Si capirà meglio così che la violenza contro i pacifisti non è stata un incidente ma è stata organizzata proprio per spaccare la comunità occidentale e per costringere tutti a scoprire le loro carte. Del resto - secondo fatto da elencare – Ankara e Brasilia (new entry, quest’ultima, a sorpresa in questa partita planetaria) dovevano essere punite (il Brasile si aspetti il suo turno) per avere rotto il fronte dell’Occidente mandando i rispettivi presidenti a trattare con Ahmadi Nejad una soluzione che consentisse all’Iran di procedere senza essere disturbato con il suo programma nucleare civile.
Dunque occorre non perdere d’occhio il cospicuo movimento tettonico di cui è protagonista la Turchia. Esso procede con scosse di assestamento sempre più potenti e si ripete, il 9 giugno (una decina di giorni dopo la crisi della flottiglia pacifista) con il voto contrario (di nuovo la Turchia e il Brasile agiscono di concerto) alle sanzioni decise dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro l’Iran. Sanzioni, come sappiamo, promosse dagli Stati Uniti e accolte da Russia e Cina: ecco due novità di vaste implicazioni, piene di interrogativi come funesti vasi di Pandora.
Tra i fatti da tenere presenti, perché senza queste pennellate altrimenti il quadro non sarebbe completo, c’è la circostanza che, fino a ieri, gli aerei israeliani che sarebbero destinati ad attaccare l’Iran, come prima onda d’urto, si trovavano in una base Nato in territorio turco. Lo scopo era chiaro: disporre di una traiettoria di volo breve. Non mi stupirei adesso che quella traiettoria breve, senza rifornimenti in volo, non sia più disponibile e che quei caccia bombardieri siano già stati trasferiti, o siano in via di trasferimento in qualche altra base segreta, sicuramente non più in Turchia.
Per scoprire quale essa sia basta fare un piccolo esercizio di Risiko, carta alla mano, e elenco dei paesi Nato nell’area, senza trascurare qualche paese, più piccolo e ben piazzato, che è amico degli Stati Uniti e di Israele e che si trova nelle vicinanze dell’Iran. Altra buona ragione per punire Erdogan.
Ma altri fatti si accavallano in rapida successione. Il 7 giugno, due giorni prima del voto Onu, The International Herald Tribune, nella sua pagina di opinioni editoriali, pubblica un articolo di Richard V. Allen, che fu consigliere per la Sicurezza nazionale di Ronald Reagan nel biennio 1981-82. Allen, dopo avere esordito con queste parole (“con le notizie controverse che circolano a proposito di un attacco israeliano”), ricostruisce l’altro attacco israeliano di 29 anni fa contro l’impianto nucleare iracheno di Osirak, ancora in costruzione in quel momento. Curiosamente l’intero articolo sembra concepito per dimostrare che Washington non sapeva nulla di nulla di ciò che Tel Aviv aveva organizzato.
Lo stesso Reagan, apparentemente cadendo dal pero, chiede infatti a Allen: “Perché secondo te l’hanno fatto?”. Verrebbe da dire: beata ingenuità.
Il giorno dopo, nella Sala Ovale, si terrà una accesa riunione, mentre le polemiche dilagano nel mondo a proposito delle rovine ancora fumanti di Osirak. Rovine dell’allora alleato degli Stati Uniti Saddam Hussein. In quella riunione il vice-presidente di allora George H.W.Bush, George Baker, capo dello staff presidenziale, Michael Deaver, aiutante del presidente, si schierano per punire Israele, mentre il generale Alexander Haig, segretario di stato, e il capo della Cia William J.Casey sono per appoggiare Israele.
Se crediamo alla versione di Allen, il presidente Reagan fece il pesce in barile e rimase, in sostanza, ad ascoltare la disputa. Ma il finale è noto: alla fine di quell’anno gli Stati Uniti e Israele firmarono un accordo di cooperazione strategica.
Allora Dio era con loro, senza dubbio alcuno. Ma la domanda è questa (e spiega bene perché l’autorevole quotidiano americano abbia pubblicato proprio quell’articolo e proprio in quei giorni): 29 anni dopo sarebbe ancora possibile (anche se prendessimo per buono il racconto di Richard V. Allen) un attacco israeliano contro l’Iran senza che il Pentagono, la Cia e gli altri servizi segreti statunitensi ne sappiano nulla? Ovvio che Washington non è affatto all’oscuro di ciò che è già stato preparato. Neanche se lo volesse potrebbe ignorarlo. Perché i primi a non fare mistero delle loro intenzioni sono proprio i capi israeliani.
Lo stesso 9 giugno (che è poi il giorno delle sanzioni del Consiglio di Sicurezza), lo stesso International Herald Tribune rivela, in prima pagina, con un articolo da Gerusalemme di Andrew Jacobs, che una delegazione israeliana è andata a Pechino per far sapere ai cinesi, “senza melensaggini diplomatiche”, che Israele intende attaccare militarmente l’Iran.
L’esplicito proposito della visita, scrive Jacobs, era di “spiegare con precisi dettagli l’impatto economico che la Cina subirebbe nel caso di un colpo israeliano contro l’Iran”. Ipotesi che Israele “considera probabile quando dovesse ritenere che l’Iran potrebbe riuscire a mettere insieme un’arma nucleare”.
Si noti la formulazione: l’attacco avverrà quando Israele pensa che l’Iran “potrebbe riuscire...” non quando ci sarà riuscito. Cioè prima ancora che il pericolo si delinei e molto prima che esso sia attuabile, poiché una bomba che non può essere portata sul bersaglio non costituisce un pericolo reale e l’Iran non dispone di vettori per la bisogna e, ove si avvicinasse a questo obiettivo, non potrebbe tenerlo nascosto alle osservazioni dall’esterno e dall’interno cui è sottoposto incessantemente da tutti i servizi segreti occidentali e orientali.
Non viene detto come i cinesi abbiano reagito ai chiarimenti israeliani. Si sa solo che hanno votato le sanzioni, seppure mantenendo, come ha fatto Mosca, alcuni distinguo. Ma – ecco un altro fatto - tre giorni dopo l’articolo citato, tre giorni dopo il voto all’Onu, ecco la notizia che la Russia non onorerà più il contratto che aveva già firmato con l’Iran per la fornitura di 300 missili terra-aria. La perdita della commessa – rivela Russia Today quel giorno – vale oltre un miliardo e 200 milioni di dollari: un colpo per Rosvooruzhenie, eppure il Cremlino non muove un ciglio e getta via il tesoro.
Si tratta di armi cruciali per la difesa contro un attacco aereo e mediante missili di crociera. Anche qui il significato è inequivocabile: Mosca concede il via libera. Lo stesso giorno 12 giugno le agenzie riferiscono che l’Arabia Saudita, dopo avere informato il governo di Washington, concede il proprio spazio aereo al passaggio dei bombardieri israeliani. Negli stessi giorni fonti iraniane rendono noto che tre sommergibili israeliani, con missili da crociera a bordo, sono entrati nel Golfo Persico, sicuramente non all’insaputa del comando strategico degli Stati Uniti.
E, segnale apparentemente soltanto tangenziale rispetto a questo scenario, sempre lo stesso giorno a Bruxelles il ministro degli esteri russo, Lavrov, insieme ai suoi colleghi di Kazakhstan e Uzbekistan, annuncia la decisione di aprire la strada per il transito dei convogli della Nato (non più soltanto di quelli americani) che trasportino armi, uomini e logistica verso l’Afghanistan.
Quale sia l’interesse russo in questo “affaire” non è chiaro. Ovvio che stiamo assistendo a un grande “scambio” di favori, ma non ne conosciamo i termini. Mosca e Pechino accettano il rischio.
Perchè lo fanno? Né l’una né l’altra hanno qualche cosa da temere dall’Iran e, a prima vista, entrambe hanno qualche cosa da perdere. La Russia, per esempio, corre il rischio di vedere affacciarsi sulle rive del Mar Caspio un altro governo filo americano. Sicuramente in caso di una grande crisi militare – se l’Iran riuscirà a resistere e a infliggere colpi a sua volta – il prezzo del petrolio potrebbe balzare in alto. E, se questo sarebbe un bel regalo per Mosca, sarebbe invece un brutto colpo per la Cina.
Certo Mosca potrebbe guardare con sospetto non minore di quello americano, al sorgere di una alleanza Turchia- Iran. Ma può essere anche che Cina e Russia ritengano che l’avventura iraniana si risolverà strategicamente in un nuovo disastro per gli Stati Uniti: la classica immagine di chi sta seduto sulla riva del fiume per aspettare il passaggio del cadavere del nemico. Per giunta avendo ricevuto dal nemico agonizzante qualche regalo. Ma dev’essere stato un grande regalo davvero.
Certo è che l’operazione Teheran comporta un grande scenario preparatorio. Grande quanto il fuoco che ci si prepara ad accendere. E non dopo, ma durante, la presidenza del premio Nobel per la pace Barack Obama.
Tratto da: ANTIMAFIADuemila N°65
lunedì 5 luglio 2010
sabato 3 luglio 2010
UN APPELLO DA FIRMARE SUBITO
ROMA CITTA’ APERTA, PALESTINA LIBERA
Giovedi 1 luglio è stato operato alla mandibola il giovane palestinese di Gaza rimasto ferito – insieme ad altri per fortuna meno gravi - nell’aggressione di una settimana fa sulla scalinata del Campidoglio.
Che un palestinese sfuggito all’inferno di Gaza venga ferito nella capitale del nostro paese da parte di un gruppo paramilitare, appartenente ad una minoranza oltranzista della comunità ebraica romana, suscita in noi un sentimento di vergogna ed indignazione, ma non quello della rassegnazione. Al contrario.
Riteniamo che su quanto avvenuto non sia accettabile che scenda una comoda cortina di silenzio o una colpevole rimozione, né che si affermi una sorta di impunità per gli aggressori.
Sono state fatte le dovute denunce in sede penale, è stato richiesto un incontro al Prefetto e al Sindaco di Roma, ma la questione non presenta solo problemi di carattere giuridico e penale.
Con questo appello, intendiamo denunciare con forza le responsabilità e le connivenze con gruppi squadristici che da anni aggrediscono e intimidiscono attivisti, esponenti politici e della società civile impegnati nella solidarietà e nell’informazione sulla situazione palestinese. I numerosi e ripetuti episodi di aggressione sono stati ricostruiti e denunciati, anche recentemente.
L’agibilità democratica delle piazze e del dibattito politico sulla situazione in Medio Oriente non può essere messa in discussione da gruppi ultrasionisti che importano nel nostro paese una logica di scontro militare e che ritengono applicabile anche nel nostro paese l’ impunità consentita – purtroppo - alle azioni del governo israeliano.
In questo senso, se non condividiamo sul piano politico la subalternità del governo italiano alla politica delle autorità israeliane (il voto negativo dell’Italia sul Rapporto Goldstone e sulla commissione internazionale di inchiesta sul massacro della nave Navi Marmara sono indicativi), ci preoccupa altrettanto la subalternità delle istituzioni locali alle scelte israeliane.
Due esempi aiutano a comprendere quanto intendiamo denunciare con questo appello.
Il Sindaco di Roma Alemanno ha affermato che la foto del soldato Shalit tiene lontano i sostenitori della causa palestinese dal Campidoglio (e mezz’ora dopo un gruppo di picchiatori appartenenti alla minoranza più aggressiva della comunità ebraica ha reso coerente questa affermazione sulle scale del Campidoglio).
La Regione Lazio ha avviato iniziative per l’acquisto di tecnologia di una azienda israeliana nel trattamento rifiuti che impiega tecnologie già esistenti e prodotte da aziende italiane con costi e ricadute occupazionali ovviamente molto diversi.
Riteniamo innanzitutto che la piazza del Campidoglio sia di tutti i cittadini e non solo di alcuni e che criteri di opportunità politica nelle relazioni con un altro paese non possano sostituirsi a quelli del vantaggio per l’economia delle istituzioni pubbliche.
L’aggressione squadrista avvenuta giovedì 24 giugno sulle scale del Campidoglio è solo l’ultimo di una serie di episodi che urgono essere affrontati nel merito e che il silenzio, l’inerzia, la connivenza delle istituzioni locali e nazionali rischiano di aggravare pesantemente, sia nelle relazioni interne alla nostra società, sia nelle relazioni internazionali.
Con questo appello vogliamo impedire la rimozione su quanto avvenuto, sia sul piano politico sia sul piano legale e siamo determinati a tornare in piazza al fianco del popolo palestinese, pretendendo dalle istituzioni la garanzia della piena agibilità democratica nella nostra città.
Luglio 2010
Per adesioni collettive (associazioni, reti, comitati, partiti) o individuali scrivere a:
romaperlapalestina@libero.it
Giovedi 1 luglio è stato operato alla mandibola il giovane palestinese di Gaza rimasto ferito – insieme ad altri per fortuna meno gravi - nell’aggressione di una settimana fa sulla scalinata del Campidoglio.
Che un palestinese sfuggito all’inferno di Gaza venga ferito nella capitale del nostro paese da parte di un gruppo paramilitare, appartenente ad una minoranza oltranzista della comunità ebraica romana, suscita in noi un sentimento di vergogna ed indignazione, ma non quello della rassegnazione. Al contrario.
Riteniamo che su quanto avvenuto non sia accettabile che scenda una comoda cortina di silenzio o una colpevole rimozione, né che si affermi una sorta di impunità per gli aggressori.
Sono state fatte le dovute denunce in sede penale, è stato richiesto un incontro al Prefetto e al Sindaco di Roma, ma la questione non presenta solo problemi di carattere giuridico e penale.
Con questo appello, intendiamo denunciare con forza le responsabilità e le connivenze con gruppi squadristici che da anni aggrediscono e intimidiscono attivisti, esponenti politici e della società civile impegnati nella solidarietà e nell’informazione sulla situazione palestinese. I numerosi e ripetuti episodi di aggressione sono stati ricostruiti e denunciati, anche recentemente.
L’agibilità democratica delle piazze e del dibattito politico sulla situazione in Medio Oriente non può essere messa in discussione da gruppi ultrasionisti che importano nel nostro paese una logica di scontro militare e che ritengono applicabile anche nel nostro paese l’ impunità consentita – purtroppo - alle azioni del governo israeliano.
In questo senso, se non condividiamo sul piano politico la subalternità del governo italiano alla politica delle autorità israeliane (il voto negativo dell’Italia sul Rapporto Goldstone e sulla commissione internazionale di inchiesta sul massacro della nave Navi Marmara sono indicativi), ci preoccupa altrettanto la subalternità delle istituzioni locali alle scelte israeliane.
Due esempi aiutano a comprendere quanto intendiamo denunciare con questo appello.
Il Sindaco di Roma Alemanno ha affermato che la foto del soldato Shalit tiene lontano i sostenitori della causa palestinese dal Campidoglio (e mezz’ora dopo un gruppo di picchiatori appartenenti alla minoranza più aggressiva della comunità ebraica ha reso coerente questa affermazione sulle scale del Campidoglio).
La Regione Lazio ha avviato iniziative per l’acquisto di tecnologia di una azienda israeliana nel trattamento rifiuti che impiega tecnologie già esistenti e prodotte da aziende italiane con costi e ricadute occupazionali ovviamente molto diversi.
Riteniamo innanzitutto che la piazza del Campidoglio sia di tutti i cittadini e non solo di alcuni e che criteri di opportunità politica nelle relazioni con un altro paese non possano sostituirsi a quelli del vantaggio per l’economia delle istituzioni pubbliche.
L’aggressione squadrista avvenuta giovedì 24 giugno sulle scale del Campidoglio è solo l’ultimo di una serie di episodi che urgono essere affrontati nel merito e che il silenzio, l’inerzia, la connivenza delle istituzioni locali e nazionali rischiano di aggravare pesantemente, sia nelle relazioni interne alla nostra società, sia nelle relazioni internazionali.
Con questo appello vogliamo impedire la rimozione su quanto avvenuto, sia sul piano politico sia sul piano legale e siamo determinati a tornare in piazza al fianco del popolo palestinese, pretendendo dalle istituzioni la garanzia della piena agibilità democratica nella nostra città.
Luglio 2010
Per adesioni collettive (associazioni, reti, comitati, partiti) o individuali scrivere a:
romaperlapalestina@libero.it
venerdì 2 luglio 2010
Estonia e Israele
L'Estonia onora criminali nazisti (in quanto antirussi (!)). Il presidente dell'Estonia va in visita ufficiale in Israele, residenza ufficiale di Peres compresa, e nessuno - non il direttore di Yad Vashem, non Lieberman, non Peres - trova alcunché da obiettare. Ultimi due paragrafi di http://www.haaretz.com/print-edition/opinion/the-holocaust-distorter-from-estonia-1.299613
(e quindi la leadership israeliana non solo è stata capace per decenni di negare lo sterminio armeno, onde aver buoni rapporti con la Turchia - è pure capace, oggi, di ascoltare chi equipara i criminali nazisti e le loro vittime. No comment)
Quanto sopra dimostra da solo quanto è strumentale l'accusa di antisemitismo che i filoisraeliani lanciano contro chi si oppone loro. Circa il comportamento della leadership israeliana di fronte al presidente dell'Estonia il commento migliore secondo me è
li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando starai seduto in casa tua, camminando per via, coricandoti e alzandoti (Dt 6,7. Nonché nello Shemà Israel)
(e quindi la leadership israeliana non solo è stata capace per decenni di negare lo sterminio armeno, onde aver buoni rapporti con la Turchia - è pure capace, oggi, di ascoltare chi equipara i criminali nazisti e le loro vittime. No comment)
Quanto sopra dimostra da solo quanto è strumentale l'accusa di antisemitismo che i filoisraeliani lanciano contro chi si oppone loro. Circa il comportamento della leadership israeliana di fronte al presidente dell'Estonia il commento migliore secondo me è
li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando starai seduto in casa tua, camminando per via, coricandoti e alzandoti (Dt 6,7. Nonché nello Shemà Israel)
ARRESTATATO PERICOLOSO TERRORISTA DI 7 ANNI
VOICES FROM THE OCCUPATION, THE ARREST OF A 7 YEARS OLD BOY
SPECIAL REPORT BY DCI - DEFENCE FOR CHILDREN INTERNATIONAL
At around 2:45am, on the morning of 10 June 2010, Israeli soldiers deliver a summons to the family of a 7-year-old boy from Beit Ummar, near Hebron, in the Occupied Palestinian Territory.
„We woke up to banging on the front door of our house accompanied by people shouting in Hebrew: “open the door, it‟s the IDF,”‟ recalls ‘Alia, the mother of 7-year-old M. „My husband answered the door and three Israeli soldiers stormed the house. One of the soldiers asked my husband, in mixed Arabic and Hebrew, for our son M, our youngest child.
‘Alia’s husband informed the soldier that M was seven years old, and showed the soldier his birth certificate. „The officer read the date of birth, which is on 17 September 2002, and laughed, but still handed him the summons „inviting‟ my son to Etzion Interrogation and Detention Centre the next morning because he is “wanted for interview,”‟ recalls ‘Alia.
The document handed to ‘Alia’s husband is a standard form document printed in Hebrew and Arabic with specific details filled in handwritten Hebrew. The unsigned document appears to have been issued by the Israeli District Coordination Office on behalf of the ‘Israeli Defense Forces’ at Etzion. The document is an ‘invitation’ for M ‘to attend to meet Captain Tamir at ‘Etzion Centre’ at 2:00pm, later on the same day. Etzion Centre is a place well known to the local residents as an Israeli Interrogation and Detention Centre, located inside the settlement of Gush Etzion, halfway between Hebron and Bethlehem, in the Occupied Palestinian Territory.
Seven year old M slept through the night time raid by the Israeli army, but was told what had happened the next morning by his mother. „My siblings and my mother were shocked to know that the soldiers wanted me to go to Etzion Centre because I am very young,‟ recalls M, „I am still in the second grade and after the summer break I‟ll be in the third grade. I don‟t want my father to take me to the Centre because I know, and hear people saying, that it is a prison, and if I go there, they will take me away from my family.‟
M’s father had to visit a relative in hospital later that day and did not take his son to the interrogation centre as requested. „I still don‟t know if my father will take me there or not,‟ worries M, „my family doesn‟t know whether the soldiers will come back to the house and ask me why I haven‟t gone. Israeli soldiers often come to our town. Six months ago they came and took my uncle, and he‟s still in prison. They also took my cousin, and he‟s still in prison. Prison has rooms surrounded with bars and its doors are always closed so that prisoners can‟t leave the rooms and so stay trapped inside.‟
The Israeli army routinely arrests and serves documentation written in Hebrew on the families of Palestinian children during the night. In 2009, children were arrested between midnight and 4am in 65 percent of cases handled by DCI-Palestine. Night time raids conducted by the Israeli army into Palestinian villages in occupied territory, creates fear and uncertainty within the local population, and especially among the children. It transpires that the summons was not intended for 7-year-old M, and the name on the document, written in Hebrew, is that of another person. It appears the Israeli army delivered the summons to the wrong house, in the wrong village. The family has not received an explanation or apology from the Israeli authorities. END
(
SPECIAL REPORT BY DCI - DEFENCE FOR CHILDREN INTERNATIONAL
At around 2:45am, on the morning of 10 June 2010, Israeli soldiers deliver a summons to the family of a 7-year-old boy from Beit Ummar, near Hebron, in the Occupied Palestinian Territory.
„We woke up to banging on the front door of our house accompanied by people shouting in Hebrew: “open the door, it‟s the IDF,”‟ recalls ‘Alia, the mother of 7-year-old M. „My husband answered the door and three Israeli soldiers stormed the house. One of the soldiers asked my husband, in mixed Arabic and Hebrew, for our son M, our youngest child.
‘Alia’s husband informed the soldier that M was seven years old, and showed the soldier his birth certificate. „The officer read the date of birth, which is on 17 September 2002, and laughed, but still handed him the summons „inviting‟ my son to Etzion Interrogation and Detention Centre the next morning because he is “wanted for interview,”‟ recalls ‘Alia.
The document handed to ‘Alia’s husband is a standard form document printed in Hebrew and Arabic with specific details filled in handwritten Hebrew. The unsigned document appears to have been issued by the Israeli District Coordination Office on behalf of the ‘Israeli Defense Forces’ at Etzion. The document is an ‘invitation’ for M ‘to attend to meet Captain Tamir at ‘Etzion Centre’ at 2:00pm, later on the same day. Etzion Centre is a place well known to the local residents as an Israeli Interrogation and Detention Centre, located inside the settlement of Gush Etzion, halfway between Hebron and Bethlehem, in the Occupied Palestinian Territory.
Seven year old M slept through the night time raid by the Israeli army, but was told what had happened the next morning by his mother. „My siblings and my mother were shocked to know that the soldiers wanted me to go to Etzion Centre because I am very young,‟ recalls M, „I am still in the second grade and after the summer break I‟ll be in the third grade. I don‟t want my father to take me to the Centre because I know, and hear people saying, that it is a prison, and if I go there, they will take me away from my family.‟
M’s father had to visit a relative in hospital later that day and did not take his son to the interrogation centre as requested. „I still don‟t know if my father will take me there or not,‟ worries M, „my family doesn‟t know whether the soldiers will come back to the house and ask me why I haven‟t gone. Israeli soldiers often come to our town. Six months ago they came and took my uncle, and he‟s still in prison. They also took my cousin, and he‟s still in prison. Prison has rooms surrounded with bars and its doors are always closed so that prisoners can‟t leave the rooms and so stay trapped inside.‟
The Israeli army routinely arrests and serves documentation written in Hebrew on the families of Palestinian children during the night. In 2009, children were arrested between midnight and 4am in 65 percent of cases handled by DCI-Palestine. Night time raids conducted by the Israeli army into Palestinian villages in occupied territory, creates fear and uncertainty within the local population, and especially among the children. It transpires that the summons was not intended for 7-year-old M, and the name on the document, written in Hebrew, is that of another person. It appears the Israeli army delivered the summons to the wrong house, in the wrong village. The family has not received an explanation or apology from the Israeli authorities. END
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VELENO E DEVASTAZIONE AMBIENTALE
IL VELENO DELLE COLONIE STRISCIA SOTTOTERRA
Le acque reflue prodotte dai coloni in Cisgiordania si riversano nelle terre palestinesi, distruggendo i campi, inquinando le sorgenti, danneggiando la terra e il paesaggio.
REPORTAGE DI BARBARA ANTONELLI E NICOLAS HELM-GROVAS, Gerusalemme, 1 luglio 2010, Nena News (foto da www.palestinemonitor.org)- Le acque reflue prodotte in Cisgiordania, sia dalle colonie israeliane che dalle comunita’ palestinesi, ammontano a circa 91 milioni di metri cubi ogni anno: l’equivalente dell’acqua contenuta in 36.400 piscine olimpiche. La maggior parte di queste acque di scarico non riceve alcun trattamento di depurazione. Gli agenti contaminanti -sia organici che inorganici- si riversano direttamente in Cisgiordania, con conseguenze devastanti per l’inquinamento sia del territorio che del Massiccio Acquifero, la piu’ importante risorsa di approvvigionamento idrico per israeliani e palestinesi. In 43 anni di occupazione le autorita’ israeliane non si sono curate minimamente di installare impianti per il trattamento delle acque di scarico nelle 121 colonie sparse in tutta la Cisgiordania: le colonie soltanto producono 17,5 metri cubi all’anno di acque impure. Secondo un dettagliato report dell’organizzazione israeliana Bt’selem del 2009, su 121 colonie solo 81 sono dotate di impianti per il trattamento delle acque reflue. Alcuni dei quali usano metodologie superate, non seguono gli standard adottati in Israele o sono inadatti a coprire le necessita’ di colonie, la cui popolazione ha subito in pochi anni un boom demografico impressionante.
Altre strutture non funzionano a pieno regime o sono state parzialmente o del tutto disattivate, con la conseguenza che 5,5 milioni di metri cubi di acque reflue prodotte dalle colonie non ricevono alcun trattamento, riversandosi nelle vallate palestinesi. Le leggi a tutela dell’ambiente, in vigore in Israele, vengono ignorate nelle colonie. Cosi capita che le abitazioni degli insediamenti siano occupate da intere famiglie prima che i sistemi di depurazione e fognari siano completamente funzionanti o che industrie costruite su territorio occupato, inizino a funzionare a pieno regime, senza che siano dotate di sistemi di smaltimento a norma per le sostanze tossiche e i rifiuti. E’ indicativo che il Ministero israeliano per la tutela dell’ambiente abbia seguito – dal 2000 al 2009 – solo 53 casi per il malfunzionamento degli impianti nelle colonie, mentre lo stesso Ministero ha preso in esame 230 casi in Israele, solo nel 2006. Un farwest di leggi selvagge imperversa nelle colonie in Cisgiordania e al Ministero dell’ambiente fa comodo che sia cosi.
Anche il 90% delle acque reflue prodotte dai palestinesi non viene trattato. E anche qui le regole del gioco le decide Israele: l’amministrazione civile negli ultimi 15 anni non ha approvato progetti per gli impianti di depurazione dei liquami urbani, presentati da istituzioni palestinesi, con i fondi europei o internazionali; in altri casi li avrebbe approvati solo con la condizione di poter collegare a quegli stessi impianti anche le colonie.
Sempre Israele ha imposto all’Autorita’ Palestinese di costruire impianti all’avanguardia (non usati nemmeno in Israele) che rispondono a parametri che neanche l’Organizzazione Mondiale della Sanita’ richiede; cosa che fa aumentare i costi di costruzione, operativi e di mantenimento. Con la conseguenza che sia USA che Germania, principali finaziatori di tali impianti, hanno ridotto in modo considerevole i finanziamenti all’ANP per questo tipo di progetti.
Il sistema che rifornisce acqua alle colonie e’ inoltre gestito direttamente da Israele, quindi, che le acque reflue inquinino o meno l’ambiente palestinese circostante, non intacca minimamente la qualita’ dell’acqua potabile destinata ai coloni. Al contrario, villaggi o intere comunita’ palestinesi fanno affidamento sulle risorse idriche naturali; pertanto l’inquinamento delle falde acquifere prodotto dalle colonie, aggrava ulteriormente le gia’ drammatiche condizioni dell’accesso all’acqua potabile per i palestinesi. Con devastanti conseguenze anche per l’agricoltura, dato che le acque reflue inquinano il terreno, contaminano i campi, diminuiscono la fertilita’della terra.
Il problema si aggrava nelle aree industriali israeliane costruite in Cisgiordania. La piu’ estesa, quella di Barkan nel distretto di Nablus, vede almeno 80 industrie operative, che producono alluminio, vetroresina, pesticidi, componenti per l’industria militare. Dal 1982, Israele ha ricollocato le industrie piu’ inquinanti all’interno della Cisgiordania, danneggiando interee aree palestinesi. Un esempio tra tutte, la Geshuri industries, un’industria di pesticidi ricollocata nel 1987 in un’area adiacente a Tulkarem. Industrie che scaricano nelle vallate sottostanti rifiuti chimici non trattati.
Con l’ associazione israeliana Yesh Din, abbiamo preso in esame tre diversi casi, in tre diverse colonie, indicativi delle problematiche legate al mancato trattamento delle acque reflue, ma anche delle contraddizioni legate a un sistema di occupazione che si e’ ormai cristallizzato.
Elqana
Proprio a nord della statale 5, vicino Qalqilya a nord della Cisgiordania, nella vallata che dalla colonia scende giu’, un tubo di scarico pompa liquami urbani direttamente nelle terre palestinesi e nel piccolo torrente, principale risorsa idrica della vicina Az-Zawiya, a cui appartengono quelle terre.
Sulla collina, due grandi contenitori in allestimento indicano che l’impianto di purificazione dell’acqua della colonia e’ in fase di costruzione. Un’impresa che e’ il frutto della Compagnia per l’Economia dell’amministrazione locale e che dovrebbe mettere un freno al libero rifluire dei liquami nelle terre palestinesi. L’impianto e’ stato costruito illegalmente anche secondo la giurisdizione israeliana, al di fuori del perimetro della colonia, espropriando due ‘dunum’ di terra ai legittimi proprietari palestinesi.
La ONG Yesh Din segue diversi casi, per conto di comunita’ palestinesi, contro le attivita’ di costruzioni illegali anche secondo la legge di Israele, le uniche per le quali ci si puo’ appellare al sistema giuridico israeliano. Un anno fa, in una situazione simile riguardante la colonia di Ofra, vicino Silwad, gli avvocati di Yesh Din sono riusciti a congelare la costruzione di un impianto per il trattamento delle acque, ricorrendo alla Corte. Un impianto costruito senza permesso regolare e su terra espropriata a due famiglie palestinesi, rappresentate da Yesh Din. La Corte ha deciso l’immediato stop dei lavori della struttura, completata quasi al 90%. Dal momento dell’interruzione dei lavori, la colonia continua a riversare i liquami di scarico nelle terre palestinesi circostanti. Un caso che illustra bene il dilemma tra applicazione del diritto e pragmatismo: se le colonie si dotano di strutture per lo smaltimento delle acque reflue, consolidano ancora di più sul terreno il sistema illegale dell’occupazione. Se invece ci si appella al diritto israeliano, qualora possibile, si lascia però che l’inquinamento ambientale sia perpetrato impunemente, a scapito ancora una volta delle comunita’ palestinesi.
Nel caso della colonia di Elqana, il team di Yesh Din ha prima consultato la comunità palestinese, per verificare se fosse intenzionata a intraprendere un procedimento legale. La comunità ha scelto la strada del pragmatismo: consentire la costruzione illegale dell’impianto e rinunciare alla terra espropriata, per fermare il devastante inquinamento del terreno e sperare che la terra rimasta ritorni ad essere fertile. Non certo una vittoria, ma forse il male minore.
Ariel
La situazione di Ariel, a est di Elqana è molto simile. L’impianto per il trattamento delle acque qui è operativo ma non funziona a pieno regime, soprattutto non copre le reali necessita’ della colonia, che ha subito – da quando è stata costruita nei primi anni Novanta – un boom demografico a ritmi serrati, con un aumento della popolazione da 10.000 a oltre 60.000 coloni. In aggiunta, anche gli scarichi di rifiuti tossici e fanghi attivi esausti prodotti dalla vicina area industriale di Barkan, si riversano nella vallata palestinese. Ancora una volta le procedure di smaltimento dei rifiuti industriali in Cisgiordania seguono una legislazione meno ferrea rispetto a quella in vigore in Israele, cosa che ha favorito il trasferimento di molte aziende proprio in territorio occupato.
Sia Ariel che Barkan scaricano i loro rifiuti nella vicina Salfit, palestinese, avvelenando i campi e inquinando l’ambiente. L’area presentava gia’ preoccupanti problematiche per il trattamento delle acque reflue palestinesi, dato che Salfit stessa non è dotata di alcun impianto. Tra i 60 e i 70 milioni di shekel sono stati dati al municipio di Salfit dal governo tedesco per l’installazione di un efficace sistema di smaltimento. L’amministrazione civile israeliana, che ha pieno controllo sull’area C della Cisgiordania, ha richiesto che Ariel potesse essere allacciata allo stesso sistema e quando l’amministrazione di Salfit ha rifiutato, e’ stata costretta a restituire al governo tedesco il denaro gia’versato. Attualmente, sia i liquami di Salfit che di Ariel, si riversano nell’ambiente circostante.
Revava
Revava è un altra colonia con infrastrutture insufficienti per coprire il trattamento di depurazione dei liquami. Le acque di scarico scorrono abbondantemente nella vallata fino a uno o due miglia lontano dalla colonia. All’interno della colonia, un lavoratore palestinese (ironicamente molti lavoratori palestinesi sono costretti a lavorare proprio nelle colonie, non avendo altra scelta) ci ha spiegato che Revava e’ dotata di una cisterna per il raccoglimento delle acque reflue: la cisterna si riempie in tempi brevi perche’ insufficiente a coprire le esigenze di tutti i coloni, tanto che periodicamente le acque si riversano nella vallata. I residenti palestinesi del vicino uliveto hanno rinunciato a venire qui, sia per l’odore nausenate che per la presenza degli insetti.
Quando abbiamo visitato la vallata l’abbiamo trovata asciutta. Ad una più attenta indagine, ci siamo resi conto che, proprio tutto intorno all’insediamento, i coloni hanno scavato profonde voragini, per fare da contenimento alle acque di scarico ed evitare che rifluiscano direttamente nella vallata, in modo da non destare l’attenzione o i reclami dei residenti palestinesi.
“L’occupazione crea una realta’ ecologica che non è sostenibile”, dice Dror Etkes diYesh Din. “Non si tratta solo di un outpost o di una colonia da cui fuoriesce acqua inquinata.” E’ evidente che per il singolo residente palestinese o la singola comunita’, la cui terra è stata espropriata o inquinata, anche una minima iniziativa legale assume un significato capitale. “La realta’ pero’ – prosegue Dror Etkes – e’ che la ‘grande architettura’ messa in piedi dall’occupazione, oltre ad essere illegale, non e’ a lungo termine sostenibile.” Le colonie solo in alcuni casi rispondono ad un aumento demografico accelerato: e’ vero che le abitazioni negli insediamenti sono spesso incomplete quando i coloni vi si trasferiscono. Ma come tutto il sistema politico dell’occupazione, la priorità è accelerare la costruzione per creare una realta’ di fatto sul terreno, che difficilmente potra’ essere modificata in seguito. Paradossalmente, Yesh Din è stata accusata dalle organizzazioni di coloni di “non essere interessata anzi di impedire la tutela dell’ambiente”, come nel caso dello stop ai lavori di costruzione dell’impianto di Ofra, “bloccata – a detta dei coloni – a spese dell’ambiente”.
Oggi il cartello (in ebraico) dell’impianto ancora incompleto, ma presto funzionante, di Elqana recita: “l’impianto e’ costruito a vantaggio dei residenti.” Come sempre, il ‘vantaggio’ e’ sempre e solo quello dei coloni. (Nena-news)
Le acque reflue prodotte dai coloni in Cisgiordania si riversano nelle terre palestinesi, distruggendo i campi, inquinando le sorgenti, danneggiando la terra e il paesaggio.
REPORTAGE DI BARBARA ANTONELLI E NICOLAS HELM-GROVAS, Gerusalemme, 1 luglio 2010, Nena News (foto da www.palestinemonitor.org)- Le acque reflue prodotte in Cisgiordania, sia dalle colonie israeliane che dalle comunita’ palestinesi, ammontano a circa 91 milioni di metri cubi ogni anno: l’equivalente dell’acqua contenuta in 36.400 piscine olimpiche. La maggior parte di queste acque di scarico non riceve alcun trattamento di depurazione. Gli agenti contaminanti -sia organici che inorganici- si riversano direttamente in Cisgiordania, con conseguenze devastanti per l’inquinamento sia del territorio che del Massiccio Acquifero, la piu’ importante risorsa di approvvigionamento idrico per israeliani e palestinesi. In 43 anni di occupazione le autorita’ israeliane non si sono curate minimamente di installare impianti per il trattamento delle acque di scarico nelle 121 colonie sparse in tutta la Cisgiordania: le colonie soltanto producono 17,5 metri cubi all’anno di acque impure. Secondo un dettagliato report dell’organizzazione israeliana Bt’selem del 2009, su 121 colonie solo 81 sono dotate di impianti per il trattamento delle acque reflue. Alcuni dei quali usano metodologie superate, non seguono gli standard adottati in Israele o sono inadatti a coprire le necessita’ di colonie, la cui popolazione ha subito in pochi anni un boom demografico impressionante.
Altre strutture non funzionano a pieno regime o sono state parzialmente o del tutto disattivate, con la conseguenza che 5,5 milioni di metri cubi di acque reflue prodotte dalle colonie non ricevono alcun trattamento, riversandosi nelle vallate palestinesi. Le leggi a tutela dell’ambiente, in vigore in Israele, vengono ignorate nelle colonie. Cosi capita che le abitazioni degli insediamenti siano occupate da intere famiglie prima che i sistemi di depurazione e fognari siano completamente funzionanti o che industrie costruite su territorio occupato, inizino a funzionare a pieno regime, senza che siano dotate di sistemi di smaltimento a norma per le sostanze tossiche e i rifiuti. E’ indicativo che il Ministero israeliano per la tutela dell’ambiente abbia seguito – dal 2000 al 2009 – solo 53 casi per il malfunzionamento degli impianti nelle colonie, mentre lo stesso Ministero ha preso in esame 230 casi in Israele, solo nel 2006. Un farwest di leggi selvagge imperversa nelle colonie in Cisgiordania e al Ministero dell’ambiente fa comodo che sia cosi.
Anche il 90% delle acque reflue prodotte dai palestinesi non viene trattato. E anche qui le regole del gioco le decide Israele: l’amministrazione civile negli ultimi 15 anni non ha approvato progetti per gli impianti di depurazione dei liquami urbani, presentati da istituzioni palestinesi, con i fondi europei o internazionali; in altri casi li avrebbe approvati solo con la condizione di poter collegare a quegli stessi impianti anche le colonie.
Sempre Israele ha imposto all’Autorita’ Palestinese di costruire impianti all’avanguardia (non usati nemmeno in Israele) che rispondono a parametri che neanche l’Organizzazione Mondiale della Sanita’ richiede; cosa che fa aumentare i costi di costruzione, operativi e di mantenimento. Con la conseguenza che sia USA che Germania, principali finaziatori di tali impianti, hanno ridotto in modo considerevole i finanziamenti all’ANP per questo tipo di progetti.
Il sistema che rifornisce acqua alle colonie e’ inoltre gestito direttamente da Israele, quindi, che le acque reflue inquinino o meno l’ambiente palestinese circostante, non intacca minimamente la qualita’ dell’acqua potabile destinata ai coloni. Al contrario, villaggi o intere comunita’ palestinesi fanno affidamento sulle risorse idriche naturali; pertanto l’inquinamento delle falde acquifere prodotto dalle colonie, aggrava ulteriormente le gia’ drammatiche condizioni dell’accesso all’acqua potabile per i palestinesi. Con devastanti conseguenze anche per l’agricoltura, dato che le acque reflue inquinano il terreno, contaminano i campi, diminuiscono la fertilita’della terra.
Il problema si aggrava nelle aree industriali israeliane costruite in Cisgiordania. La piu’ estesa, quella di Barkan nel distretto di Nablus, vede almeno 80 industrie operative, che producono alluminio, vetroresina, pesticidi, componenti per l’industria militare. Dal 1982, Israele ha ricollocato le industrie piu’ inquinanti all’interno della Cisgiordania, danneggiando interee aree palestinesi. Un esempio tra tutte, la Geshuri industries, un’industria di pesticidi ricollocata nel 1987 in un’area adiacente a Tulkarem. Industrie che scaricano nelle vallate sottostanti rifiuti chimici non trattati.
Con l’ associazione israeliana Yesh Din, abbiamo preso in esame tre diversi casi, in tre diverse colonie, indicativi delle problematiche legate al mancato trattamento delle acque reflue, ma anche delle contraddizioni legate a un sistema di occupazione che si e’ ormai cristallizzato.
Elqana
Proprio a nord della statale 5, vicino Qalqilya a nord della Cisgiordania, nella vallata che dalla colonia scende giu’, un tubo di scarico pompa liquami urbani direttamente nelle terre palestinesi e nel piccolo torrente, principale risorsa idrica della vicina Az-Zawiya, a cui appartengono quelle terre.
Sulla collina, due grandi contenitori in allestimento indicano che l’impianto di purificazione dell’acqua della colonia e’ in fase di costruzione. Un’impresa che e’ il frutto della Compagnia per l’Economia dell’amministrazione locale e che dovrebbe mettere un freno al libero rifluire dei liquami nelle terre palestinesi. L’impianto e’ stato costruito illegalmente anche secondo la giurisdizione israeliana, al di fuori del perimetro della colonia, espropriando due ‘dunum’ di terra ai legittimi proprietari palestinesi.
La ONG Yesh Din segue diversi casi, per conto di comunita’ palestinesi, contro le attivita’ di costruzioni illegali anche secondo la legge di Israele, le uniche per le quali ci si puo’ appellare al sistema giuridico israeliano. Un anno fa, in una situazione simile riguardante la colonia di Ofra, vicino Silwad, gli avvocati di Yesh Din sono riusciti a congelare la costruzione di un impianto per il trattamento delle acque, ricorrendo alla Corte. Un impianto costruito senza permesso regolare e su terra espropriata a due famiglie palestinesi, rappresentate da Yesh Din. La Corte ha deciso l’immediato stop dei lavori della struttura, completata quasi al 90%. Dal momento dell’interruzione dei lavori, la colonia continua a riversare i liquami di scarico nelle terre palestinesi circostanti. Un caso che illustra bene il dilemma tra applicazione del diritto e pragmatismo: se le colonie si dotano di strutture per lo smaltimento delle acque reflue, consolidano ancora di più sul terreno il sistema illegale dell’occupazione. Se invece ci si appella al diritto israeliano, qualora possibile, si lascia però che l’inquinamento ambientale sia perpetrato impunemente, a scapito ancora una volta delle comunita’ palestinesi.
Nel caso della colonia di Elqana, il team di Yesh Din ha prima consultato la comunità palestinese, per verificare se fosse intenzionata a intraprendere un procedimento legale. La comunità ha scelto la strada del pragmatismo: consentire la costruzione illegale dell’impianto e rinunciare alla terra espropriata, per fermare il devastante inquinamento del terreno e sperare che la terra rimasta ritorni ad essere fertile. Non certo una vittoria, ma forse il male minore.
Ariel
La situazione di Ariel, a est di Elqana è molto simile. L’impianto per il trattamento delle acque qui è operativo ma non funziona a pieno regime, soprattutto non copre le reali necessita’ della colonia, che ha subito – da quando è stata costruita nei primi anni Novanta – un boom demografico a ritmi serrati, con un aumento della popolazione da 10.000 a oltre 60.000 coloni. In aggiunta, anche gli scarichi di rifiuti tossici e fanghi attivi esausti prodotti dalla vicina area industriale di Barkan, si riversano nella vallata palestinese. Ancora una volta le procedure di smaltimento dei rifiuti industriali in Cisgiordania seguono una legislazione meno ferrea rispetto a quella in vigore in Israele, cosa che ha favorito il trasferimento di molte aziende proprio in territorio occupato.
Sia Ariel che Barkan scaricano i loro rifiuti nella vicina Salfit, palestinese, avvelenando i campi e inquinando l’ambiente. L’area presentava gia’ preoccupanti problematiche per il trattamento delle acque reflue palestinesi, dato che Salfit stessa non è dotata di alcun impianto. Tra i 60 e i 70 milioni di shekel sono stati dati al municipio di Salfit dal governo tedesco per l’installazione di un efficace sistema di smaltimento. L’amministrazione civile israeliana, che ha pieno controllo sull’area C della Cisgiordania, ha richiesto che Ariel potesse essere allacciata allo stesso sistema e quando l’amministrazione di Salfit ha rifiutato, e’ stata costretta a restituire al governo tedesco il denaro gia’versato. Attualmente, sia i liquami di Salfit che di Ariel, si riversano nell’ambiente circostante.
Revava
Revava è un altra colonia con infrastrutture insufficienti per coprire il trattamento di depurazione dei liquami. Le acque di scarico scorrono abbondantemente nella vallata fino a uno o due miglia lontano dalla colonia. All’interno della colonia, un lavoratore palestinese (ironicamente molti lavoratori palestinesi sono costretti a lavorare proprio nelle colonie, non avendo altra scelta) ci ha spiegato che Revava e’ dotata di una cisterna per il raccoglimento delle acque reflue: la cisterna si riempie in tempi brevi perche’ insufficiente a coprire le esigenze di tutti i coloni, tanto che periodicamente le acque si riversano nella vallata. I residenti palestinesi del vicino uliveto hanno rinunciato a venire qui, sia per l’odore nausenate che per la presenza degli insetti.
Quando abbiamo visitato la vallata l’abbiamo trovata asciutta. Ad una più attenta indagine, ci siamo resi conto che, proprio tutto intorno all’insediamento, i coloni hanno scavato profonde voragini, per fare da contenimento alle acque di scarico ed evitare che rifluiscano direttamente nella vallata, in modo da non destare l’attenzione o i reclami dei residenti palestinesi.
“L’occupazione crea una realta’ ecologica che non è sostenibile”, dice Dror Etkes diYesh Din. “Non si tratta solo di un outpost o di una colonia da cui fuoriesce acqua inquinata.” E’ evidente che per il singolo residente palestinese o la singola comunita’, la cui terra è stata espropriata o inquinata, anche una minima iniziativa legale assume un significato capitale. “La realta’ pero’ – prosegue Dror Etkes – e’ che la ‘grande architettura’ messa in piedi dall’occupazione, oltre ad essere illegale, non e’ a lungo termine sostenibile.” Le colonie solo in alcuni casi rispondono ad un aumento demografico accelerato: e’ vero che le abitazioni negli insediamenti sono spesso incomplete quando i coloni vi si trasferiscono. Ma come tutto il sistema politico dell’occupazione, la priorità è accelerare la costruzione per creare una realta’ di fatto sul terreno, che difficilmente potra’ essere modificata in seguito. Paradossalmente, Yesh Din è stata accusata dalle organizzazioni di coloni di “non essere interessata anzi di impedire la tutela dell’ambiente”, come nel caso dello stop ai lavori di costruzione dell’impianto di Ofra, “bloccata – a detta dei coloni – a spese dell’ambiente”.
Oggi il cartello (in ebraico) dell’impianto ancora incompleto, ma presto funzionante, di Elqana recita: “l’impianto e’ costruito a vantaggio dei residenti.” Come sempre, il ‘vantaggio’ e’ sempre e solo quello dei coloni. (Nena-news)
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