martedì 7 dicembre 2010

Per difendersi dalle "bufale" imparare a guardare meglio

PALESTINA,LA DIFFERENZA TRA FALSO E INGANNEVOLE
Dalla varieta' di bufale che circolano nella narrazione sul conflitto israelo-palestinese e’ possibile descrivere le caratteristiche che ci spiegano come anche i "progressisti" possano aderire "senza se e senza ma" a posizioni quanto meno ambigue.

ANALISI DI NUNZIO CORONA

Gerusalemme, 07 dicembre 2010, Nena News - Non pochi sono rimasti sorpresi per l’entusiasta e incondizionata adesione di esponenti della politica, della cultura e della societa’ civile, come Roberto Saviano, Walter Veltroni e Umberto Veronesi, all’appello pro-Israele lanciato alcune settimane fa dalla deputata e colona (dell’insediamento illegale di Gilo, Gerusalemme Est) Fiamma Nirenstein. Chi si e’ sorpreso e’ convinto che qualsiasi persona raziocinante con sufficiente informazione bi-partizan su storia e contesto del conflitto israelo-palestinese non possa non riconoscere la profonda ingiustizia inflitta al popolo palestinese. Per potere continuare a sperare di mantenere in vita la democrazia in cui viviamo, dobbiamo assolutamente imparare a riconoscere la differenza tra fatti e menzogne, tra notizie vere e notizie false o ingannevoli, tra realta’ e “bufale”. Pur essendo consapevoli di appartenere a un mondo non perfetto, infatti, ci si aspetta di potere distinguere il buono dal cattivo, il giusto dallo sbagliato.

Quando si tratta della questione israelo-palestinese, tuttavia, sembra avere il sopravvento un’attitudine mentale diversa, molto resistente a prove storiche e alla comune logica. La percezione della maggioranza e’ che Israele e’ “buono” e i palestinesi, soprattutto se musulmani, sono “cattivi”. Da notare la contrapposizione, insita in tale mentalita’, tra Israele come nazione e palestinesi come popolazione. Fatti, ragioni e prove sono offuscati all’ombra di questa filastrocca. Non e’ sufficiente elencare tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite che condannano le innumerevoli violazioni della legislazione internazionale e dei diritti umani compiute da Israele. Ne’ bastano i nuovi storici israeliani a provare la pulizia etnica che dal 1948 continua ad essere perpetrata nei confronti dei palestinesi. O le ultime, tragiche campagne di violenza indiscriminata che hanno portato a migliaia di morti palestinesi. O la striscia di Gaza trasformata nel piu’ grande campo di concentramento della storia. La cantilena continua a ripetere che “Israele e’ buono e i Palestinesi sono cattivi”, anzi tutti terroristi.

In un libro della fine degli anni ’60, due pedagoghi sostenevano [1] che la migliore cosa che la scuola puo’ fare per i giovani e’ di aiutarli ad imparare a riconoscere le informazioni utili dalle ‘stronzate’ (‘crap’ in inglese). Ogni giorno infatti siamo esposti nei modi piu’ diversi ad una tale quantita’ di panzane che supera la nostra capacita’ fisiologica di assorbimento. Semplicemente essere in grado di riconoscere e accettare questo fatto puo’ aiutarci a capire meglio il mondo, a cominciare dalla questione palestinese. Della grande varieta’ di bufale che circolano nella narrazione sul conflitto israelo-palestinese e’ possibile descrivere alcune caratteristiche particolarmente significative che ci spiegano come anche personaggi autorevoli della intellighenzia progressista possano rimanere ammaliati in una adesione “senza se e senza ma” a posizioni quanto meno ambigue.

Una prima prerogativa delle bufale che dominano il dibattito sulla questione palestinese e’ la pomposita’ del linguaggio che mira ad attribuire a certe espressioni significati superiori alla effettiva realta’. Tipico esempio e’ l’uso dell’altisonante termine “Processo di pace” per definire cio’ che ha fatto seguito agli accordi di Oslo del 1993. Da notare che tali accordi furono definiti da uno dei suoi artefici, l’allora primo ministro israeliano Itzhak Rabin, come una vera e propria “esternalizzazione dell’occupazione” da parte delle forze israeliane all’Autorita’ Palestinese. Quest’ultima, infatti, ha sostanzialmente accettato di svolgere un ruolo di contenimento delle aspirazioni della popolazione palestinese per conto di Israele senza le limitazioni all’uso (e abuso) del potere che il sistema legale israeliano imporrebbe alla potenza occupante. Altro esempio di ampollosa e fuorviante espressione e’ l’appellativo di “unica democrazia del Medio Oriente” affibbiato ad uno Stato che apertamente e dichiaratamente discrimina i suoi cittadini in base alla razza e alla religione.[2]

Una seconda caratteristica delle bufale che circolano sul conlitto israelo-palestinese e’ il fanatismo, ossia l’ottusa intolleranza verso qualsiasi dato o informazione che non confermi il proprio punto di vista. Questo fa si’ che le quasi 1400 vittime, in buona parte donne e bambini, e un’assedio che umilia e affama la popolazione di Gaza siano un prezzo giusto da fare pagare indiscriminatamente a un intero popolo per la resistenza offerta ad un blocco militare illegale per la comunita’ internazionale. Un tipo di fanatismo forse meno evidente ma non meno pericoloso e’ quello chiamato eichmanismo o “banalizzazione del male” (dal libro di Hanna Arendt sul processo al criminale nazista Adolf Eichmann). L’orrore dell’eichmanismo sta nel suo conformarsi in modo maniaco alle regole e ad una burocrazia apparentemente innocua e neutrale, ma che non ammette sgarri. E’ la realta’ che si incontra quotidianamente ai checkpoint israeliani dove non esistono eccezioni per vecchi, bambini o ammalati. Tutti devono adeguarsi in modo ordinato e preciso agli ordini militari che impongono meticolosi quanto assurdi controlli a chiunque voglia attraversare. Ognuno e’ considerato un possibile terrorista e la donna incinta o il vecchio zoppicante non possono fare eccezione.

E’ cio’ che la giornalista israeliana Amira Hass descrive come la routine che, pur nascosta alla vista, uccide. E’ la violenza subdola e invisibile ovunque presente nella struttura di controllo creata dalla potenza occupante e ridotta ad un fatto normale, parte integrante di istituzioni consolidate e dell’ordinaria esperienza quotidiana. E’ per questo motivo che la stessa giornalista non accetta il linguaggio della cosiddetta “non-violenza” che finisce per sviare l’attenzione dal fatto che l’occupazione, anche quando non si lanciano bombe, e’ un brutale concentrato di violenza. “Ogni soldato ad un posto di blocco, ogni telecamera sul muro di separazione, ogni ordine militare, il supermercato nella colonia e la fabbrica israeliana di pannolini nel territorio palestinese, fanno tutti parte di una violenza senza fine”.[3]

E’ in questo modo che un fanatismo apparentemente innocuo si traduce in “routinizzazione” dell’occupazione. Nelle conversazioni tra le organizzazioni internazionali che operano nel territorio occupato sembra quasi che le giornaliere interazioni che avvengono con l’occupazione (chiusure, checkpoint, muro, strade proibite, area C, necessita’ di permessi e visti, ecc.) siano diventate talmente “normali” da essere considerate come una banale routine. Non solo, ma le varie difficolta’ vengono affrontate in maniera ad hoc, a seconda della agenzia interessata, e in maniera individuale, una alla volta. Il risultato e’ che ci si accontenta di piccole vittorie (un permesso, qualche camion in piu’ che riesce a entrare a Gaza) piuttosto che rimanere concentrati sul problema nella sua totalita’ (l’illegalita’ del blocco e le sue implicazioni politiche e morali). Un tale atteggiamento ha inoltre la conseguenza di fare perdere di vista l’effetto cumulativo di queste decisioni separate: e’ infatti la somma di tante piccole azioni perverse a fondare l’orrore dell’occupazione.

La routinizzazione dell’occupazione conduce, in modo altrettanto innocente, alla bonifica e alla “sanitarizzazione” del suo linguaggio. Accettare il lessico bonificato dell’occupazione significa rinforzare la legittimita’ dell’occupazione stessa. Le parole che ingentiliscono le azioni (come “incursione” per descrivere l’irruzione militare violenta in un’area palestinese dove civili innocenti vengono minacciati, abusati e magari uccisi) o nascondono un contesto essenziale (come sostituire il termine ufficiale il “territorio palestinese occupato” con “territorio dell’autonomia palestinese”) rinforzano la percezione del “tutto procede normalmente” di cui si nutre la politica israeliana.

Non esistono tecniche speciali per identificare le panzane che circolano nel linguaggio del conflitto israelo-palestinese. Ognuno possiede un proprio “sistema di rilevamento delle bufale” fondato nel mondo di valori in cui e’ cresciuto e su cui ha progressivamente eretto le proprie antenne e senso critico. Per sviluppare l’arte del “crap-detecting” in fondo e’ sufficiente seguire il consiglio di Yogi Berra[4]: “Puoi vedere molte cose soltanto guardando meglio.” Nena News

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