mercoledì 27 aprile 2011

LIBANO: TRA LE ROVINE DI NAHR AL BARED

Il campo profughi palestinese è stato quasi distrutto nel maggio 2007, quando una vera e propria guerra ha visto contrapporsi l'esercito libanese al gruppo Fatah el-Islam. I combattimenti sono durati tre mesi, alla fine il campo era svuotato dei suoi abitanti. E delle sue case.

Racconto di Maria Teresa Patarnello*

Il Libano mi accoglie con una tempesta di vento e pioggia. Nel tragitto da Beirut a Tripoli, mi guardo attorno e mi chiedo se questo piccolo paese affacciato sul mare riuscirà a reggere alla bufera. La pioggia fitta fa da cortina tra l’automobile e il paese: un segnale. Per scoprire il Libano ci vuole tempo, dedizione, pazienza. Un mese non basta. Troppe le implicazioni, troppi gli attori in gioco, troppe le anomalie e le discrepanze tra politica e vita reale. Un universo affascinante, in cui è facile perdersi. Un dedalo di cunicoli scavati nella sabbia, pronti a crollare per poi esser rimessi in piedi. “Il Libano”, mi dicono, “è un’altalena che passa da un periodo in cui il governo è caduto a un altro periodo in cui il governo è in piedi per miracolo.” Adesso siamo nella fase di assenza.

Mentre Ilaria, responsabile del progetto per cui sono stata convocata, nonché eroica “autista” nel folle traffico beirutino, m’introduce ai misteri degli equilibri politici libanesi, la pioggia mi nasconde le indicazioni per Sabra, Shatila, Burj el-Barajneh. Dbayeh. Alcuni dei campi profughi palestinesi presenti nel territorio di Beirut. Non so se avrò tempo di entrarci. Per ora la mia destinazione è un’altra: Tripoli, e nello specifico i due campi di Beddawi e Nahr El Bared. Mi domando quale sarà il loro aspetto. Se nei Territori Occupati sono simili a ghetti e a Damasco son dei veri e propri quartieri, spesso riconoscibili semplicemente dalle immagini di Arafat, qui che “faccia” avranno i campi profughi?

“Speriamo, – dice Ilaria, – che il tuo permesso sia pronto domani.” Questa la “faccia” di Nahr El Bared. Da dopo la guerra, nessuno entra liberamente nel campo. Nemmeno i suoi abitanti. È l’esercito libanese a rilasciare i permessi. Per noi stranieri, il permesso d’ingresso dura un mese. Per gli abitanti del campo, c’è sempre qualcosa da contrattare. Molti hanno rinunciato a ritornare nelle loro case, per non dover dipendere dal rilascio dei visti e per non rischiare di rimanere separati dai parenti che abitano fuori dal campo, ai quali l’ingresso viene concesso con grandi difficoltà. È per questo che Ibrahim, collaboratore del progetto e abitante di Nahr El Bared, mi chiede: “Sei sicura di voler entrare a Guantanamo?” Me lo dice sorridendo. Andiamo insieme a ritirare il mio permesso. La “Ghassan Kanafani Cultural Foundation”, il partner locale del progetto, ha garantito per me. È, fortunatamente, un interlocutore conosciuto e affidabile. È solo per questo motivo che non ho avuto problemi. Adesso ho una carta verde infilata nel passaporto. Ogni volta che vorrò entrare a Nahr El Bared, dovrò mostrare entrambi ai soldati libanesi appostati agli ingressi del campo. Anche Ibrahim deve fare lo stesso, tutte le volte che esce e rientra. Ma per lui è un’umiliazione senza fine.

Il campo è stato quasi completamente distrutto nel maggio del 2007, quando una vera e propria guerra ha visto contrapporsi l’esercito libanese a un gruppo del movimento fondamentalista Fatah el-Islam infiltratosi nel campo. I combattimenti sono andati avanti per tre mesi, alla fine dei quali il campo era svuotato dei suoi abitanti, dei suoi servizi. Delle sue case.

Eppure era bello (helw), questo campo. Prima della guerra. Era ricco. Attivo. Un grande souq, produzione, commerci. “Venivano da fuori, dal Libano, per vendere e comprare qui. Venivano anche dalla Siria”, mi racconta il papà di Ibrahim, quando lo incontro. È un insegnante dell’UNRWA ormai in pensione. “E guarda adesso, come siamo costretti a vivere. In un garage!”. Sorride anche lui, ma l’amarezza è tanta. La loro casa è distrutta, e ancora non si sa se avranno il permesso per ricostruirla.

La guerra ha prodotto un grande numero di profughi, molti dei quali si sono rifugiati nel vicino campo di Beddawi, che attualmente deve fare i conti con problemi connessi al sovrappopolamento. I lavori di ricostruzione procedono con una lentezza estenuante e gli aiuti internazionali diretti al campo sono gestiti dal governo libanese. Alcune famiglie sono state sistemate all’interno di case container, altre in “case provvisorie”, fatte di muratura. Se non ci fossero tutti questi bambini vocianti, sarebbe il luogo più tetro del mondo.

La sensazione d’incertezza che attanaglia come morsa gli abitanti di Nahr El Bared si esprime fisicamente nei pezzi di cemento che penzolano dagli spuntoni di ferro, attaccati a scheletri di palazzi. Vite sospese. L’economia un tempo florida del campo è adesso limitata agli aiuti e ai supporti internazionali, o alle rimesse dei “figli del campo” che lavorano fuori. Sono passati quattro anni dalla guerra e il tempo, specialmente nel nucleo più antico del capo (l’old camp), sembra essersi fermato. “Però qui, da quando è finita la guerra, ci si sposa ogni giorno!”, ride Kawthar, direttrice del centro in cui teniamo le nostre lezioni. “Sì, a un certo punto nessuno ha più dovuto fare i conti con la mancanza di una casa, di una macchina, o di denaro sufficiente per prender moglie. Eravamo tutti sulla stessa barca.” Ed ecco, infatti, tra grovigli di fili elettrici sospesi e il polverone sollevatosi dalla strada senza asfalto, una specie di grande recinto, coperto da teli di plastica colorati: è il posto dove si festeggiano i matrimoni.

In questi festeggiamenti c’è tutta la Palestina. Sono un’occasione per riunirsi e per onorare le usanze del proprio paese di origine, rispolverare canti e balli tradizionali, cucinare e condividere cibi cucinati da mani esperte e amorevoli. Questo, almeno, è quello che Milad mi fa vedere in un video “di prima della guerra”. Adesso non ci sono spazi sufficienti. Presidente della locale sede del PCYI (Palestinian Child and Youth Institute – Nahr El Bared), Milad dedica la vita ai suoi ragazzi. Lunghi ricci, kefiyyeh al collo, magliette con l’immagine di Che Guevara, non fa mistero della sua passione politica, non nasconde il suo orgoglio nel presentarci le attività del centro, non ha vergogna della sua nostalgia, per il campo com’era e per la sua Palestina. “Il 20 maggio per noi è la seconda Nakba. La nostra personale. È successo ancora una volta a maggio. Non è un mese fortunato, per noi.” Nel mostrarmi le foto del campo prima della distruzione, Milad racconta spaccati di vita quotidiana, che nel suo tono e nelle sue parole assumono accenti fiabeschi. “La sera noi ragazzi prendevamo gli arakil (narghilè), le braci, e andavamo giù in spiaggia. Lì arrostivamo carne e fumavamo e così si faceva notte. A volte aspettavamo l’alba. La mia casa era proprio sul mare, e adesso non c’è più.” Il suo centro, a quanto pare, non gode delle simpatie dell’esercito libanese e lui ogni anno deve inventarsi qualcosa per far avere i permessi ai volontari internazionali invitati per l’organizzazione dei campi estivi. È una sfida importante per lui, l’occasione per aprire il campo agli stranieri e per accoglierli nel centro, inserendoli pienamente nella vita di ogni giorno e mettendoli in contatto con tutti quei bambini e ragazzi che nel centro sono cresciuti e stanno crescendo e diventando adulti.

Non c’è quasi più il mare, a Nahr el Bared. Non l’hanno portato via, ma hanno vietato l’accesso a gran parte della costa. Il fiume che ci scorre in mezzo, il Fiume Freddo (Nahr el Bared, appunto), ha l’aspetto di una specie di fogna a cielo aperto. I racconti della “verde Palestina” si confondono con quelli di “el-mukhayyam el-adim” (il vecchio campo), in una fitta tela di memorie e di immagini. Ancora di più, in questo campo, il ricordo ha valore di respiro. “Non m’interessa della mia casa, dei miei soldi, Teresa”, dice il mio amico Khalil. “Quel che non riesco a sopportare è che abbiano distrutto i miei ricordi, quelli della mia infanzia, di mio padre. Della Palestina che non ho conosciuto.” Mi piace ascoltare il loro accento, in cui riconosco una cadenza diversa da quella libanese. Li guardo e amo la loro passione, quella di una gioventù ferita. La voglia di riscatto. Li guardo, e vorrei con tutta me stessa che la Palestina cui appartengono e in cui sognano di tornare fosse ancora quella dei ricordi e non una terra stuprata e sventrata, a cui cercano di cancellare la storia.

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