sabato 23 aprile 2011

Risposta al Corriere della Sera

Risposta integrale all'articolo di Pierluigi Battista (Corriere della Sera 16 aprile 2011)
by Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese on Friday, April 22, 2011 at 4:06am

Pierluigi Battista ci ha fatto sapere (Corriere della Sera del 16 aprile) cheArrigoni non era un pacifista bensì un fiero e coraggioso combattente di una guerra per la quale si era generosamente speso con tutto se stesso. Era il combattente di una guerra sbagliata. Comincia così la deriva che porterà qualche mente illuminata a concludere anche per lui che, sì, insomma se l’era cercata.

Battista ci ha lasciati con la curiosità di sapere cosa egli pensi che un pacifista sia. Lo ha taciuto. La questione ovviamente è strettamente legata all’idea che ognuno ha della pace.

Si può intendere per pace l’assenza della guerra e di qualsivoglia conflitto. In tale quadro viene fatto di pensare che il mezzo più sbrigativo e rapido per arrivare alla pace è l’eliminazione delle radici stesse del conflitto, cioè la riduzione dell’avversario all’impotenza o addirittura la sua distruzione. Tacito usò al riguardo una espressione esemplare: hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace. In questa logica i romani dicevano che chi vuole la pace deve prepararsi alla guerra. Infatti l’accumulo della forza o fa da deterrente o permette di eliminare il nemico rapidamente, a meno che non si inneschi la corsa agli armamenti.

Ma della pace si può avere un’altra idea. Non di una idilliaca assenza di ogni conflitto ma del luogo nel quale i conflitti sono gestiti senza la pretesa di distruggere l’avversario. A questo punto, per prevenire l’obiezione che la gestione del conflitto non basta, ma bisogna costruire le condizioni per la pace, mossa per altro da Raniero La Valle durante la commemorazione di Arrigoni nella Sala Di Liegro della Provincia di Roma, occorre spiegare cosa vuol dire gestire il conflitto senza uso di violenza.



Vuol dire anzitutto costruire la prima delle condizioni necessarie per arrivare alla pace: che il conflitto non degeneri in violenza e che quando accada si eviti di rispondere a violenza con altra violenza, per non innescare una spirale in fondo alla quale non c’è che il moltiplicarsi dell’orrore e delle morti. Per farlo bisogna schierarsi, scegliere e rendere noto da quale parte si sta. Se non si sceglie, si resta fuori dal conflitto e quindi nell’impossibilità di gestirlo. La parte che i pacifisti scelgono è sistematicamente la più debole, non solo perché le ragioni del più forte di solito non sono le più nobili, ma perché, quand’anche lo fossero, il forte ha mezzi e capacità per farle valere da solo, non ha bisogno di aiuti. Per cui è vero: il pacifismo è unilaterale, sta sempre dalla stessa parte: con chi è più debole e contro chi è più forte. Ciò non vuol dire ignorarne le ragioni, se ne ha, ma occuparsi si sostenere quelle di chi soccombe. Non può essere altrimenti. L’equidistanza obiettivamente agevola il forte.

Bisogna aggiungere che la gestione del conflitto si svolge a più livelli. Lo esemplifico con riferimento al conflitto israeliano-palestinese.

E’ noto che la politica israeliana tende a costruire uno stato di ebrei e per ebrei sul più ampio territorio possibile della Palestina. Già prima della costituzione dello Stato di Israele il sionismo ha operato per ridurre la presenza di non ebrei sul territorio della Palestina. Il governo israeliano continua a farlo con i più svariati mezzi e modalità. A ciò non si può non reagire. La “gestione del conflitto” la fa con mezzi non violenti.

Quando, ad esempio, in ragione soltanto dell’arbitrio e della propria forza l’esercito israeliano abbatte le case dei palestinesi o i coloni e l’esercito sparano sui contadini che vanno a raccogliere le olive sui propri terreni dichiarati off limits perché li attraversa il famoso muro, quando la marina mitraglia i pescherecci di Gaza che si spingono a pescare oltre le due miglia ma abbondantemente entro i limiti delle acque territoriali, il/la pacifista non aiuta i palestinesi ad attaccare i mezzi dell’esercito e della marina, magari imbarcando missili sui pescherecci per affondare la prima motovedetta che giunga a tiro, ma interpone il proprio corpo tra il buldozzer e la casa palestinese che deve essere abbattuta (come Rachel Corrie) o tra i contadini, i coloni e i soldati israeliani (come fanno decine e decine di volontari/e che arrivano in Palestina da ogni dove, quando maturano le olive) o tra le mitraglie del naviglio israeliano ed i pescherecci palestinesi (come tanti, tra cui Vittorio, hanno fatto e tanti/e altri/e si accingono a rifare) Pur consci dei rischi che corrono, i/le pacifisti/e usano i propri corpi come mezzo di interposizione oltre che per tantissime altre motivazioni per una che li accomuna tutti: la consapevolezza che con la violenza si distrugge e non si costruisce e oltre tutto si perderebbe.

C’è un secondo livello, anch’esso praticato da Vittorio, su cui si svolge la gestione del conflitto: la controinformazione, cioè far conoscere i fatti che i grandi mezzi di informazione non raccontano e denunciare i misfatti dell’occupazione che vengono celati. Svelare il vero volto dell’ è essenziale per avvertire l’opinione pubblica affinché si schieri almeno in parte a sostegno della causa palestinese, che i più ignorano. Un altro livello ancora è quello della Campagna internazione di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, l’unico mezzo di lotta non violenta escogitato sinora per “premere” sul governo israeliano colpendo l’economia del paese, in particolare quella delle illegittime colonie, screditando le aziende non israeliane che fanno affari con Israele, e soprattutto colpendo l’immagine del paese. Non a caso la forma di boicottaggio più avversata dal governo israeliano è quella culturale, cioè quello che mira all’isolamento delle istituzioni culturali e scientifiche (non delle singole persone, a meno che non si tratti di intellettuali che si sono posti a sostegno della politica governativa).

I diversi livelli sono collegati. Più si aiutano i palestinesi a resistere sulla propria terra e a non perdere la propria identità, più si riesce a far conoscere all’opinione pubblica internazionale quali sono le mire del sionismo, più si riesce a smascherare come e quanto Israele ed i suoi alleati abbiano barato nelle finte trattative sinora condotte, più si può sperare che prima o poi il governo israeliano sia costretto ad aprire una trattativa vera per trovare forme e modalità (che le due parti devono decidere) perché palestinesi e israeliani possano coesistere in quel pezzo di mondo, senza spararsi addosso e con pari dignità e libertà.

Naturalmente vi possono essere altri livelli ancora: quelli della diplomazia, degli organismi internazionali, etc., ma sono fuori della portata dei pacifisti che lasciano quindi ai maitre à penser il compito di spiegare cosa dovrebbe fare l’Onu, cosa l’Unione Europea e cosa i governi nazionali, nella speranza che un giorno, che per ora non sta nell’orizzonte,qualcuno finalmente li ascolti.

Intanto è bene che si sappia che nelle ultime ore sono scomparse dal sito http://www.stoptheism.com/ (dove ISM è la sigla del movimento pacifista cui apparteneva Vittorio) i volti ed i nomi degli attivisti sui quali era stata messa una taglia.

Per Vittorio Arrigoni che figurava al primo posto della lista, ovviamente, la taglia non occorre più. Forse è stata pagata.

Nino Lisi della Rete Romana di Solidarietà con il popolo palestinese

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