mercoledì 25 gennaio 2012

Lettera al Manifesto a proposito dell'intervista a Gitai

“La meravigliosa arte della vita”


Vorrei brevemente commentare un'intervista ad Amos Gitai condotta da Cristina Piccino apparsa di recente sul Manifesto. Noto nell'articolo alcuni passaggi che risuonano a me, ebrea di una certa età che conosce la storia, fastidiosi e partigiani fino al filosionismo.

Abbiamo qui la storia di una giovane nata in Israele nel 1909. Poichè viene definita una “sabra” si capisce che la sua famiglia non appartiene alla comunità ebraica presente da sempre in Palestina, ma a quegli ebrei che hanno compiuto le prime alyhot, ben prima della guerra e della tragedia della Shoah. E' vero che dopo il 1903 vi fu un'ondata di pogrom che spinsero alcuni a trasferirsi in Palestina, è altrettanto vero che in quell'epoca chi vi si trasferiva erano soprattutto convinti sionisti e spesso selezionati dai dirigenti sionisti. Del resto lei stessa coltiva un sogno pionieristico che è un eufemismo per descrivere il primo tentativo di colonizzare la Palestina che potè pienamente realizzarsi solo grazie e dopo la tragedia della Shoah abilmente strumentalizzata politicamente dal sionismo. La “terra senza ombra e senza acqua” suppongo sia la Palestina che però all'occorrenza era anche la “terra del latte e del miele”. Spesso il sionismo di sinistra (non diverso negli intenti e obiettivi da quello di destra, la diversità era nel metodo ma non nel merito) ha gettato fumo negli occhi con la conduzione socialisteggiante dei kibbuz, che però sono sempre stati spazi esclusivamente ebraici e vietati rigorosamente ai palestinesi che furono da subito privati anche della possibilità di lavorare come di risiedere nei paraggi. L'intervista continua affermando che “il suo percorso si snoda dall'Europa alla terra promessa”. Promessa a chi? Ai colonizzatori sionisti? Apprendiamo che la giovane e suo marito lavorano insieme alla costruzione di una nuova realtà. Quale? Nel 37' non era ancora scoppiata la guerra, ma l'occupazione della Palestina, appoggiata dagli inglesi del mandato britannico aveva già fatto molta strada e solo nel 39 i sionisti ebbero i primi problemi con gli inglesi. A questo si dedica la nostra eroina, è una donna colta che scopre l'Europa ma non il Medio oriente dove vive. E' intrisa di romantico orientalismo (vedi Edward Said). Quale paese voleva costruire la madre di Gitai? Il paese esisteva già, si chiamava Palestina ed era il paese più colto e sviluppato del Medio Oriente (vedi Eli Aminov). “La Palestina è la salvezza, poi ci sarà Israele...” La salvezza non certo per i palestinesi che avrebbero, come già avevano fatto, accolto volentieri dei profughi in pericolo, ma non dei colonizzatori che li hanno trasformati in un popolo di profughi (6 milioni) che tra l'altro non sono mai potuti rientrare in patria neppure dopo la guerra, mentre come si sa Israele istituì immediatamente la legge del “diritto al ritorno” per gli ebrei di tutto il mondo. Ritorno in che senso? Si trattava di persone che non erano mai vissute prima in Palestina. Il “mondo diverso tutto da inventare” era l'occupazione di un territorio altrui che era ben altro che “una terra senza popolo”. Leggiamo oltre “Una storia viva, emozionante che riflette il nostro passato e ci permette di interrogare i conflitti del presente”. Una simile descrizione non solo non ci permette affatto di interrogare i conflitti del presente ma al contrario li falsa e li riduce alla visione sionista della storia. La madre di Gitai “racconta il progetto di Israele prima che questo esistesse” ma in questo progetto che parte avevano i palestinesi? Lo sappiamo bene: quello di togliersi dai piedi e andarsene in Giordania o altrove mentre i nostri eroici pionieri si appropriavano della loro terra e la trasformavano in un pezzo di Europa e/o di America nel cuore spezzato e ferito del Medio Oriente. Compare nel testo continuamente la relazione tra Israele e Europa nell'esperienza dei due coniugi, è evidente che la loro visione della storia è quella europea, sebbene la donna sia nata in Palestina in realtà non c'entra niente con la Palestina se non all'interno di quel famoso progetto coloniale secondo cui gli europei si sentivano in diritto di sottomettere le popolazioni non europee (orientali) perchè umanità inerte, e rubarne le risorse (ma per il loro bene poiché li civilizzavano) nel caso di Israele anche eliminando la popolazione autoctona (vedi Ilan Pappe “La pulizia etnica della Palestina”). Come sua madre anche Gitai si sente più europeo che mediorientale. Gli israeliani raccontano la storia guardando solo a se stessi, sono autoreferenziali e sebbene abbiano rubato tutto alla Palestina non si sentono palestinesi, ma europei, quindi di razza superiore alle prese con un'umanità inferiore che essi descrivono rozza e terrorista, sebbene i palestinesi siano gente colta e istruita e abbiano una lunga tradizione letteraria. Mai gli israeliani, compresi i romantici membri del kibbuz, si sono interessati alla cultura e letteratura palestinese e araba. Essi erano rivolti all'Europa, all'America, al mondo occidentale e “civilizzato”.

Tutto ciò non mi stupisce, quello che mi stupisce e mi indigna come lettrice di questo giornale è che simili concezioni siano fatte proprie da una vostra giornalista che mai, neppure una volta, ha fatto cenno in tutta l'intervista alle conseguenze che questo sogno romantico pionierista hanno avuto sulla popolazione palestinese.

Cordialmente

Miriam Marino



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