venerdì 12 novembre 2010

Perché non credo che i progetti di collaborazione scientifica israelo-palestinesi portino alla riconciliazione e alla pace tra i due popoli

Perché non credo che i progetti di collaborazione scientifica israelo-palestinesi portino alla riconciliazione e alla pace tra i due popoli

Angelo Stefanini, 23 luglio 2010

Un caro amico mi scrive stupito per il comunicato della “Campagna degli Studenti Palestinesi per il Boicottaggio Accademico di Israele” (PSCABI) e dell'“Associazione dei Docenti Universitari Palestinesi” (UTAP)[1] che disapprova il progetto di collaborazione tra l’università La Sapienza di Roma, l’università palestinese Al Quds di Gerusalemme e tre università israeliane. L'iniziativa è patrocinata dalla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Esteri italiano con il sostegno dell'UNESCO.

Mi scrive: “...io avevo visto con favore un tentativo di avvicinamento attraverso gli studi tra studenti palestinesi e israeliani. Naturalmente dipende dagli equilibri numerici e il contenuto dell'insegnamento (la sua obiettività). Pur essendo completamente d'accordo sul boycott verso l'attività governativa (e certa cultura israeliana), io sono convintamente dell'opinione che è attraverso l'educazione delle  future generazioni alla tolleranza, alla convivenza e finalmente alla condivisione che si costruisce la pace. Naturalmente ci sono delle premesse politiche e strutturali che vanno affrontate su altri piani (Gaza, assedio, repressione, muri,  colonie in territorio palestinese, etc..)...”

Questa è la mia risposta:

Sono naturalmente d’accordo sulla necessità di educare i giovani alla tolleranza, alla convivenza e alla mondialità per costruire la pace, anche creando opportunità di incontro e di scambio che superino l'“oggetto della contesa” tra avversari. Sono anche convinto, tuttavia, che per ottenere risultati sia necessario lavorare in territori neutri, equidistanti e simmetrici. Per neutralità non intendo tanto la località geografica o nemmeno il contenuto su cui fare incontrare le parti.

La scienza e la medicina sono spesso utilizzate come terreno e contenuto neutrale utile per fare incontrare i contendenti, nella certezza che esse possano servire da veicolo per scambiare non solo conoscenze e tecnologie, ma anche valori comuni all’intero genere umano destinati a fare scoccare la scintilla della pace. E così nascono progetti come “Health as a Bridge for Peace”, “Science for Peace” e lo sventurato, a mio avviso, e inevitabilmente travagliato “Saving Children - Medicine for Peace” delle regioni Toscana ed Emilia-Romagna con il Peres Centre israeliano.

L’argomento della scienza come ponte per la pace potrebbe essere giustificato, a mio parere, nelle situazioni conflittuali che nascono da uno “scontro di civiltà”, allorquando gruppi umani sono in contrapposizione e vengono alle mani (o alle armi) per ragioni sostanzialmente di incomprensione o perché sono vittime di pregiudizi storici, ma che si trovano tuttavia in una situazione di sostanziale simmetria in termini di potere (politico, economico, militare, mediatico, culturale, ecc.). È soltanto in tali condizioni che può nascere un dialogo genuino che si fondi soltanto sulla forza delle ragioni e in cui le divergenze possano essere superate attraverso una migliore conoscenza reciproca.

Converrai che i casi di autentica equidistanza sono ben rari. E non è certo quello di Israele e Palestina. È proprio qui che invece viene compiuto un errore colpevole, frutto non solo di superficialità e negligenza da parte nostra, ma anche dell’abile strategia di occultamento e mistificazione utilizzata dalla propaganda ufficiale di Israele in tutti questi anni. Uno dei suoi maggiori successi degli ultimi decenni è il quasi totale oscuramento della realtà storica e politica dell’occupazione del territorio palestinese da parte di Israele. Ci sono voluti i cosiddetti “nuovi storici israeliani”, come Benny Morris, Avi Shlaim e Ilan Pappé, per riscrivere criticamente pagine fino ad ora considerate “eroiche” dello Stato di Israele. Giornalisti ebrei israeliani coraggiosi come Amira Hass o Gideon Levy sono tuttora vagamente conosciuti e quasi soltanto dagli attivisti pro-palestinesi in Italia o all’estero.

Un’indagine per le strade di Bologna o di Milano probabilmente rivelerebbe che soltanto una minoranza della popolazione è conscia (nel senso che almeno una volta si è soffermata seriamente a considerare che cosa significa in pratica) del fatto che da 43 anni lo Stato di Israele sta occupando militarmente, e a tutti gli effetti politicamente ed amministrativamente, una terra che la comunità internazionale ha assegnato al popolo palestinese. E tra coloro che ne hanno sentito parlare, quanti veramente conoscono le crudeli conseguenze quotidiane che tale occupazione porta con sé e le politiche coloniali e di discriminazione perseguite da Israele nei confronti dei palestinesi, sia nel territorio occupato che all’interno della “grande democrazia israeliana”, che anche l’ex-presidente Jimmy Carter è giunto a definire apartheid?

Il successo che Israele ha ottenuto e ancora mantiene nel promuovere la sua narrazione della storia recente e il suo linguaggio come l’unico corretto è frutto anche dell’opera di “normalizzazione” condotta, più o meno intenzionalmente, su diversi fronti e che porta a legittimare lo status quo attuale, a descriverlo come “normale”, appunto, e quindi accettabile per quello che è, o che sembra essere. Ecco allora perché gli studenti palestinesi scrivono che “partecipare in progetti, iniziative o attività locali o internazionali che mirano a mettere insieme, direttamente o indirettamente, giovani palestinesi o arabi con israeliani (sia individui che istituzioni) ma non sono esplicitamente intesi a resistere o denunciare l’occupazione e tutte le forme di discriminazione e oppressione inflitte al popolo palestinese equivale a normalizzare la situazione attuale e va quindi contrastato.”[2]

La triste realtà è invece quella di una potenza occupante e di un popolo oppresso in violazione di svariate risoluzioni delle Nazioni Unite. Un sostanziale aspetto che spesso sfugge di questa realtà è che le istituzioni del potere occupante, comprese le università e i centri di ricerca, fanno parte integrante delle strutture di dominio, di controllo e di “normalizzazione”. Delle reali intenzioni di organizzazioni come il Centro Peres per la Pace, tanto corteggiato dai promotori dei progetti per la pace e la riconciliazione, così scrive Meron Benvenisti, ex vice-sindaco di Gerusalemme: “Nell’attività del Centro Peres per la Pace non c’è nessuno sforzo palese compiuto per un cambiamento dello status quo politico e socioeconomico nei Territori Occupati, ma proprio l’opposto: gli sforzi sono fatti per addestrare la popolazione palestinese ad accettare la sua inferiorità e prepararla a sopravvivere sotto le costrizioni imposte da Israele per garantire la superiorità etnica degli ebrei.” (Ha'aretz, [3])

Credo quindi che sia legittimo denunciare come pericolose e rifiutarsi di partecipare ad iniziative che, se non riconoscono esplicitamente i diritti inalienabili dei palestinesi e non denunciano con forza l’ingiustizia dell’occupazione, della colonizzazione e della discriminazione a cui una delle due parti è soggetta, finiscono per dare una falsa immagine di uguaglianza tra i due contendenti, spalmando di una vernice di legittimità e magnanimità l’immagine pubblica di Israele.

Io stesso rimasi vittima di questa trappola quando nel 2002, allora rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per il Territorio Occupato, mi feci promotore entusiasta di una rivista di sanità pubblica prodotta da medici israeliani e palestinesi. “Bridges”, così si chiamava, avrebbe dovuto appunto gettare “ponti di pace” tra le due società aiutando il dialogo reciproco, a partire dai professionisti sanitari. Ben presto apparve chiaro il divario esistente tra le due parti. Ciò che mi colpì soprattutto fu il rifiuto dei medici e degli accademici israeliani ad affrontare temi “sensibili”, come appunto l’impatto sulla salute di occupazione, discriminazione e colonizzazione, pur utilizzando un approccio evidence-based e fonti bibliografiche ineccepibili. È quello che invece da due anni sta facendo la rivista medica The Lancet.

Era ovvio fin dall’inizio che in conflitti di questo genere non è possibile essere neutrali, che cioè i tuoi valori, la tua visione della vita, il tuo cuore ti costringono inevitabilmente a prendere una posizione: quella del più debole e dell’oppresso. È tuttavia indispensabile essere imparziali, ossia fare in modo che gli stessi standard obiettivi siano applicati nello stesso modo ad entrambe le parti, cercando di condurle entrambe al tavolo dei negoziati. Allora compresi ben presto che i ponti che credevo di gettare erano sbilenchi, che per una delle due parti il percorso era stretto e tutto in salita e per l’altro largo e tutto in discesa; che una ci guadagnava e l’altra ci perdeva.

Negli anni mi sono convinto che queste iniziative, per quanto il più delle volte frutto di buona fede, servono soltanto a promuovere l’immagine falsa di un Israele “democrazia illuminata” oscurando il fatto che essa è una enorme potenza militare e nucleare che giustifica la sua costante violazione della legislazione internazionale umanitaria e sui diritti umani come legittima difesa nei confronti di una nazione, quella palestinese, senza esercito e privata del controllo su beni e mezzi (come territorio, tempo, risorse umane e naturali) essenziali per potersi gestire in modo davvero autonomo e indipendente dall’aiuto esterno.

Resistere a questa subdola opera di normalizzazione e legittimazione di una situazione inaccettabile vuol dire lavorare per l’educazione non solo dell’oppresso, ma anche dell’oppressore. Quest'ultimo, infatti, vede come oppressione su di sé tutto ciò che limita il suo diritto di opprimere poiché non gli permette di “stare in pace”. È necessario che l’ingiustizia perduri affinché possa agire come “generoso”, mettendosi con magnanimità, ma ben conscio della sua superiorità, al tavolo della collaborazione “scientifica” con l’oppresso. Al contrario, la conquista implicita del dialogo è quella del mondo che i due soggetti realizzano insieme. Come diceva Paulo Freire, nessuno si salva da solo ma insieme all'altro.

Troppo spesso la tattica usata da molti di noi per evitare possibili conflittualità è il silenzio e l’inazione (diciamo pure l'ignavia). Come quando si contribuisce a cancellare con il linguaggio l'occupazione israeliana utilizzando il termine “Territori Autonomi Palestinesi” anziché quello ufficiale di “Territorio Palestinese Occupato” (impiegato da Nazioni Unite e Unione Europea).

Scriveva il magistrato Dante Troisi (1920-1989):
“…quando dovrà giudicarci, Dio stesso si troverà a disagio, tanto abile è la commistione di bene e male, così perfetta la nostra tecnica dell’approssimazione all’uno e all’altro estremo. Ogni giorno ci adoperiamo ad intricare il processo che ci aspetta, mescolando ignavia e coraggio, angoscia e superbia e umiltà, sicché l’esistenza diventi un groviglio inestricabile, e soprattutto non sia più di un crepuscolo: se verso la notte o il giorno, toccherà di interpretarlo al Signore. Il quale, certamente, non vorrà degradarsi, competere con noi, giocolieri del compromesso, ed esigere un rendiconto: ci lascerà passare, scrollandosi nelle spalle.”

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