venerdì 5 novembre 2010

PRIGIONIERI

ISRAELE: DETENUTI ALL’OMBRA DEI SERVIZI SEGRETI
Due Ong per i diritti umani denunciano: torture e abusi nel carcere di massima sicurezza di Petach Tikva

DI BARBARA ANTONELLI

Gerusalemme 2 Novembre 2010 (foto www.sulekha.org) Nena News – Petach-Tikva, dieci chilometri a est di Tel Aviv, è sede della seconda area industriale più grande in Israele, dopo Haifa. In ebraico, il nome significa “prospettiva di speranza”. Ironicamente è anche il luogo, dove si trova il centro di detenzione usato dagli agenti della ISA (o GSS), i servizi di sicurezza israeliani, noti anche come Shin Bet (abbreviazione del nome ebraico) o Shabak (acronimo), per interrogare e rinchiudere ogni anno centinaia di palestinesi. Detenuti in molti casi, solo perché collegati ad attività politiche all’interno delle università o di altri luoghi della Cisgiordania, o perché membri di organizzazioni quali Hamas o il Fronte Popolare di Liberazione Nazionale. E’ a Petach-Tikva, che è rinchiuso da mesi Ameer Makhoul, cittadino arabo israeliano e leader della ONG Ittijah, accusato di essere una spia per Hezbollah.

A Petach-Tikva, le violazioni dei diritti umani iniziano dal momento dell’arresto e vanno avanti nel corso degli interrogatori e durante tutto il periodo di detenzione. Nel 9% dei casi, si tratta di veri e propri abusi fisici. Una metodologia che è da anni consuetudine e che ha il pieno appoggio dello Stato di Israele: dal 2001 a oggi, 265 denunce sono state presentate al Ministero di Giustizia riguardanti casi di maltrattamenti subiti da palestinesi interrogati dagli agenti ISA; non è mai seguita alcuna indagine.

Un nuovo documento redatto dalle due ONG israeliane HaMoked e B’Tselem, presentato oggi alla stampa, ha raccolto le testimonianze di 121 palestinesi detenuti a Petah-Tikva nel corso del 2009: interviste rilasciate personalmente agli avvocati e ai ricercatori delle due ONG durate e dopo la detenzione. Che documentano ripetute e metodiche violazioni dei diritti umani; anche due attivisti di estrema destra israeliani, recentemente interrogati dai servizi di sicurezza a Petach-Tikva, hanno confermato di essere stati vittime di abusi: si tratta di Haim Perlman, interrogato perché sospettato di aver assassinato, per motivi ideologici, diversi arabi, che ha raccontato di essere rimasto legato per ore ad una sedia, e lo stesso vale per Dand Sitbon, che avrebbe collaborato con Perlman.

L’indagine sui misteri di Petach-Tikva ha inizio il 31 marzo 2009: in seguito ad un incidente avvenuto nel centro, due ufficiali del Ministero della Giustizia esaminano il carcere; entrano laddove nemmeno lo Stato di Israele ha accesso facile; attraverso una visita coordinata con la sicurezza, i due ufficiali visitano il centro, sorvegliati dagli agenti ISA, che nelle conversazioni con i detenuti, fanno anche da interpreti: ne esce furori un rapporto, redatto dal procuratore Naama Feuchtwanger mai reso pubblico, ma fatto arrivare nelle mani della ONG HaMoked. Un rapporto che fa scattare un campanello d’allarme. Da lì iniziano le ricerche dei due gruppi israeliani.

I 121 testimoni ascoltati da HaMoked e B’Tselem vengono tutti dalla Cisgiordania, 117 uomini, 4 donne, e 18 minorenni: rappresentano tutti “una minaccia per la sicurezza nazionale”. Significativa la provenienza geografica, 108 sono residenti in città e villaggi nel nord della Cisgiordania occupata.

Una routine che per quasi tutti è simile. Gli arresti avvengono a notte fonda o all’ alba, trascinati via senza la possibilità di prendere con sé alcun effetto personale né di salutare i propri familiari. Legati e a volto coperto vengono portati a Petach-Tivka: il 30% riferisce di aver subito violenza già durante il trasporto verso il centro, in veicoli militari dove raccontano di essere stati tenuti distesi sul pavimento, piuttosto che sui sedili, in alcuni casi alla presenza di cani. Ammanettati in modo così stretto, che polsi e mani diventano viola dal gonfiore. Nell’aprile del 2010, in seguito alla denuncia presentata dal Comitato pubblico contro la Tortura in Israele (PACTI), lo Stato ha attivato una nuova procedura, attualmente in vigore, per evitare manette dolorose; ma secondo le informazioni raccolte da HaMoked e B’Tselem, nulla è di fatto cambiato.

Ai detenuti vengono date celle anguste, giusto lo spazio per un materasso, senza finestre, con la luce artificiale tenuta accesa anche durante le ore notturne, soffitti bassissimi, materassi e lenzuola luride, condizioni igieniche raccapriccianti. Impianti di ventilazione con aria troppo fredda o troppo calda. Il 35% racconta di essere rimasto senza un cambio di biancheria per lunghi periodi, il 27% senza la possibilità di una doccia, con il risultato che molti detenuti soffrono di infezioni al derma. In alcuni casi, l’unico cambio di biancheria i detenuti lo hanno avuto dopo aver incontrato il rappresentante della Croce Rossa. Qaysar Diq, ventiquattrenne del villaggio di a-Diq, è rimasto con gli stessi pantaloni e la stessa maglietta per 65 giorni. Marwan N’irat arrestato al ponte di Allenby, è stato anche insultato dal suo interrogatore, perché “puzzava”. Il 78% denuncia di essere stato in cella di isolamento, in alcuni casi fino a due mesi.

E si arriva al momento dell’interrogatorio. La stanza dell’interrogatorio al contrario delle celle, possiede finestre, il detenuto può percepire se è giorno o notte: ma la limitazione del movimento è ancora più ferrea rispetto alle celle. Seduti per ore, su sedie di metallo o plastica ancorate al pavimento, mani legate allo schienale. Un posizione che provoca dolore a schiena, collo, braccia, bacino, e causa le emorroidi.

13 detenuti hanno raccontato di essere stati forzatamente privati del sonno, per oltre 24 ore. Il 36% sono stati vittime di insulti verbali, rivolti all’Islam o più spesso ai propri familiari; il 56% di minacce, anche sessuali. Nel 36%, la famiglia è stata usata come mezzo intimidatorio; in un caso una vedova di 63 anni, Rabe’ah Sa’id, è stata arrestata e interrogata nel centro solo perché i suoi figli, Ali e Baqer Sa’id, entrambi detenuti, potessero vederla insultata e degradata; la donna fu rilasciata due giorni dopo, senza alcuna accusa. Molti testimoni raccontano di confessioni estorte in cambio della possibilità di telefonare alle loro famiglie.

Nel 10% si parla di abusi fisici; negli anni ’90 l’uso diretto di violenza fisica da parte degli agenti ISA, era pratica comune; tra i metodi formalmente consentiti c’era lo “shaking” (scosse violente che potevano provocare anche la morte), proibito insieme ad altre pratiche nel 1999 dall’Alta Corte di Giustizia. Nel precedente report del 2007, HaMoked aveva già documentato 6 metodi di violenza fisica, usati negli interrogatori, tre delle quali sono attualmente ancora in uso.

Si tratta di una metodologia sistematica che persegue l’obiettivo di fiaccare, innescando meccanismi di paura e shock, il detenuto, distaccandolo dalle proprie abitudini quotidiane, deprivandolo di qualsiasi stimolo sensoriale, del movimento fisico, del contatto umano. L’indebolimento fisico avviene attraverso la ripetuta privazione del sonno, la riduzione dell’apporto di cibo. Lo scopo è la regressione psicologica del carcerato: che diventa “un niente” nelle mani dell’aguzzino. Metodi che rivelano una logica interna, fa notare HaMoked “simile a quella descritta in due manuali della CIA, rispettivamente del 1963 e del 1983, usati per condurre interrogatori in America Latina.”

Eliminare ogni stimolo sensoriale era l’obiettivo della CIA, ed è anche – scrivono i ricercatori nel documento – “una delle principali componenti dei metodi per condurre un interrogatorio” a Petach-Tikva. Al detenuto viene negata anche la possibilità di “tenersi occupato”, con attività semplici, come la lettura. Durante l’interrogatorio non può nemmeno toccare il proprio corpo. Allontanato da tutto ciò che può ricordargli la propria identità, gli effetti personali, la routine quotidiana, l’igiene personale, il carcerato perde il contatto con il tempo e lo spazio.

Le denunce riguardanti la condotta degli agenti ISA, vengono presentate attraverso gli avvocati dei detenuti o le associazioni in difesa dei diritti umani ed esaminate in prima istanza da ispettori interni a ISA, le cui note vengono inviate all’Ufficio del Procuratore governativo o alla Procura generale, l’unica in grado di avviare un’indagine criminale. Dal 2001 al 2009 gli ispettori ISA hanno esaminato 645 denunce, nessuna delle quali ha ricevuto alcun seguito. In alcuni casi, e solo dal 2000 al 2005, sono stati presi provvedimenti disciplinari contro gli agenti.

Nel 1999 l’Alta Corte di giustizia ha decretato che gli agenti ISA non sono autorizzati a “oltrepassare” i normali metodi usati dalla polizia israeliana ordinaria, per interrogare i sospettati. Da allora la sicurezza israeliana si è adeguata, ma il principio secondo il quale gli agenti sono o dovrebbero essere soggetti alle stesse regole dei poliziotti ordinari, è rimasto lettera morta. Infine sottolinea HaMoked, “le violazioni e gli abusi sui detenuti palestinesi in Israele devono essere analizzati in stretta relazione con il contesto dell’occupazione e quindi con l’identità nazionale dei detenuti, quella palestinese”. Vale a dire che i maltrattamenti sono possibili e giustificati a livello dell’opinione pubblica isrealiana perché esiste un processo di disumanizzazione dei palestinesi, che consente allo Stato di sospendere qualsiasi giudizio morale, a fronte della sicurezza nazionale e della lotta al terrorismo. Nena News

Per leggere il documento completo:http://www.btselem.org/English/Publications/Summaries/201010_Kept_in_the_Dark.asp

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