giovedì 13 gennaio 2011

GAZA: SHABAN KARMUT, LA MORTE DI UN CONTADINO

Il 10 gennaio Shaban Karmut e' andato nei campi ma non è tornato a casa. I soldati israeliani gli hanno sparato. È morto nella sua terra, coltivandola come faceva da 35 anni.

DI SILVIA TODESCHINI

Gaza, 12 gennaio 2011, Nena News - Shaban Karmut, aveva 46 anni e 12 figli. Di mestiere aveva fatto il contadino per 35 anni. Un tempo sulla sua terra a Beit Hanoun crescevano olivi, palme e limoni, poi una notte sono arrivati i carri armati israeliani e li hanno sradicati. Hanno aperto un varco su un muro della sua casa, hanno demolito la casa dei vicini davanti ai suoi occhi. Nonostante quello che gli era successo aveva piantato nuove verdure ed alberi e si recava a coltivare la sua terra tutti i giorni, arrivava al campo alle sei e mezzo del mattino e tornava a casa alle quattro e mezzo del pomeriggio. Anche il 10 gennaio ci è andato ma quel giorno non è tornato a casa perché gli hanno sparato: un colpo al collo, uno al petto ed uno all’addome. C’era l’intento di uccidere da parte di chi sparava, e Shaban Karmut è morto sul colpo. È morto nella sua terra, coltivandola come faceva da 35 anni. Le forze di occupazione non sono riuscite ad incatenarlo con la paura degli spari e delle incursioni, e per impedirgli di coltivare hanno dovuto sparargli.

Il 4 gennaio quattro bulldozer israeliani erano entrati nell’area vicina al confine nei pressi di Khuza’a, al sud della Striscia, protetti da nove carri armati, due elicotteri Apache, due F16 e diversi droni. Hanno distrutto 50 dunam di terreno e almeno 13 famiglie hanno dovuto temporaneamente abbandonare le proprie abitazioni. Però dopo sono tornate alle loro case, nonostante i buchi dei proiettili su alcuni muri. “Fanno queste incursioni e per spaventarci e mandarci via da casa nostra – spiega Shatha Abu Rjela – Vogliono convincerci che ci sarà un’altra guerra e ci vogliono allontanare dalle nostre case in modo da poter fare ciò che vogliono senza ostacoli e senza testimoni. Ma noi non lasceremo le nostre case, questa è la nostra terra e noi rimarremo qui fino a che potremo”. Questa nuova guerra, però, sembra tristemente vicina: i due episodi sopra descritti sono solo un esempio di come sia evidente un’escalation nelle violenze israeliane. In dicembre, il primo ministro israeliano Silvan Shalom ha dichiarato che Tel Aviv dovrà “rispondere e rispondere con tutta la nostra forza” nel caso in cui i combattenti palestinesi non smettessero di lanciare i loro missili fatti in casa.

Secondo Ilan Pappe, noto storico ed intellettuale di origini israeliane emigrato in Inghilterra: “C’è l’intenzione di abbattere la Striscia e la sua popolazione ancora una volta, ma con più brutalità e per un lasso di tempo più breve. […] Lo scenario per il prossimo *round *si sta schiudendo davanti ai nostri occhi e somiglia in modo deprimente alla stessa situazione in via di deterioramento che ha preceduto il massacro di Gaza due anni fa: bombardamenti quotidiani sulla Striscia e una politica che tenta di provocare Hamas così da giustificare un maggior numero di attacchi. […] È ora per tutti quelli che hanno fatto sentire la loro voce con forza e vigore dopo il massacro di Gaza due anni fa, di farla sentire adesso, e cercare di prevenire il prossimo.”

Ogni giorno a Khuza’a si sentono spari provenienti dalla torretta di controllo, ed ogni giorno o quasi i soldati israeliani sparano a contadini e pastori vicino al confine, causando gravi ferite quando non la morte del lavoratore. Diverse volte al giorno i droni, gli aerei F16 e gli elicotteri Apache volano in cielo, e questi, quando non scaricano bombe, portano con sé un carico di oscuri ricordi e paura. La vita stessa di questi uomini, donne e bambini, è resistenza. È un grido che non vuole sottostare al giogo dell’occupazione. È un esempio di straordinaria forza. Ed è il momento, per coloro che dichiarano di amare la libertà, di compromettersi. Per prevenire la prossima guerra, ma prima ancora per supportare queste persone nella loro quotidiana resistenza.

Tutto ciò ha a che fare con la libertà e non con la ricchezza. Non è un problema di elemosina, il punto non è che questa gente ha bisogno di aiuti materiali. Il problema è politico. Rivediamo gli occhi fermi, decisi, quasi severi di Taragi, madre di cinque ragazze, con il marito in carcere e la casa ad un chilometro dal confine: “L’esercito israeliano ha invaso le terre che coltivavamo e le ha rese aride, ma non vogliamo aiuti economici per questo. Non vogliamo assistenza psicologica per i traumi causati dai soldati israeliani, dai loro bulldozer, dai loro proiettili, dai loro carri armati, dai loro Apaches, F16 e droni. Non vogliamo ne’ soldi ne’ psicologi. Noi, vogliamo che i soldati israeliani se ne vadano. Vogliamo non avere paura dei loro spari. Vogliamo vivere nella nostra terra. Vogliamo essere libere”. Nena News

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