martedì 10 agosto 2010

In memoria di Mahmoud Darwish

“LA POESIA E’ SANGUE DEL MIO CUORE VIVO”

DI BARBARA ANTONELLI - Ramallah, 10 Agosto 2010 Nena News - Il cantore dell’esilio palestinese non aveva idea che – ancora giovanissimo – sarebbe stata la poesia a metterlo nei guai. Quando il direttore della sua scuola, gli chiese di prendere parte alle celebrazioni, in Deir al-Assad (villaggio arabo vicino ad Acri), nel giorno della fondazione dello Stato di Israele, per ricordare la Nakba palestinese, Mahmoud Darwish stette davanti al microfono per la prima volta nella sua vita e lesse i suoi versi : la protesta di un ragazzino arabo contro un ragazzino ebreo. Il giorno dopo fu convocato dalle autorita’ militari (israeliane) che lo insultarono e minacciarono. Lascio’ la stazione di polizia scosso e tremante. “Se scrivi ancora queste poesie, tuo padre perdera’ il lavoro nella cava.” Darwish non ha mai smesso, la poesia ha vinto su tutto. “La poesia e’ sangue del mio cuore vivo, sale del mio pane, luce dei miei occhi. Sara’ scritta con le unghie, lo sguardo e il ferro, la cantero’ nella cella mia priogione, al bagno, nella stalla, sotto la sferza, tra i ceppi nello spasimo delle catene.”

Resistere la violenza imposta dall’occupante e la disperazione, attraverso la poesia. Questo l’inno del poeta palestinese, testimone di ogni singolo episodio della storia della Palestina moderna, dalla pulizia etnica attuata nel 1948, all’esilio in Libano, il rientro in Israele, l’invasione israeliana del Libano nel 1982, un nuovo rientro nel 1995, dopo la firma degli Accordi di Oslo, l’invasione di Ramallah nel 2002, che gli ha ispirato il meraviglioso poema “Stato d’assedio”.

Ieri ricorrevano due anni dalla sua morte, il 9 agosto 2008, nel letto di un ospedale di Houston in Texas. “Se il nostro mondo fosse un po’ più sensibile e intelligente, più attento alla grandezza quasi sublime di alcune delle vite che lo attraversano, il suo nome sarebbe oggi conosciuto e ammirato come, per esempio, lo fu in vita quello di Pablo Neruda”, scrisse Saramago l’anno scorso.

Darwish naque nel 1942 nel villaggio palestinese di al-Baweh, cacciato nel 1948 come tanti altri palestinesi diventati profughi. La sua famiglia scappo’ nella foresta, mentre le pallottole fischiavano sulle loro teste: la notte che mise fine alla sua infanzia. “Non capivo come fosse accaduto che il mio intero mondo fosse sparito, ne’ chi fossero quelli che lo avevano annientato.” Approdo’ in Libano, per poi rientrare in Galilea, a Deir al Assad. La condizione di esule diventa nei suoi versi “un cambio di indirizzo, da un paese all’altro. Profugo prima in Libano, ora nel mio stesso paese” cosi disse in un’intervista al giornale Zo Hederekh nel 1969.

Una frase, metafora dell’esilio, ma anche espressione del doloroso iter burocratico di chi e’ costretto a elemosinare il diritto di cittadinanza in casa propria. E’ del 1964 la poesia “Bitaqat Hawiyyah”, Carta di identita’, sul formulario israeliano che i palestinesi erano obbligati a compilare. Perche’ i palestinesi non conteggiati nel primo censimento fatto da Israele furono condiderati “infiltrati” e quindi non aventi diritto ad una carta di identita’. Cosi accadde anche a Darwish, profugo in Libano durante il censimento, quando rientro’, ottenne la carta di identita’ solo in seguito grazie ad un’escamotage usato dai suoi genitori che dichiararono che era stato nel nord del paese insieme ad alcune tribu’ beduine.

La condizione folle e dolorosa dell’esilio e’ il tema centrale di molte delle sue opere. Ma anche la battaglia per la liberta’ e l’indipendenza: “non chiedo la carita’ alle vostre porte, ne’ mi umilio ai gradini della vostra camera”. Fu Darwish a redigere nel 1988 il testo della Dichiarazione di Indipendenza dello Stato palestinese.

Aggrappate alle sue pagine scorrono le sofferenze e le speranze di tutto un popolo: le sue immagini simboliche sono il rifugio di ogni palestinese, ma e’ proprio il suo simbolismo a farsi vita vera, reale, perche’ le immagini di Darwish oltre a farsi racconto, spiegano. Solo cosi il suo linguaggio di visioni personali ha funzionato in questi anni da forza aggregante per tutto il popolo palestinese. Nelle sue righe, non e’ racchiusa una sola vita, ma tante vite. Darwish voleva per il popolo palestinese, “un cuore buono che non sia pieno di fucili e un giorno intero di sole”. Nel suo messaggio umanista e universale, pur difendendo l’indipendenza e la liberta’ del suo popolo, pero’ non vi e’ traccia di nazionalismo.

Nel marzo del 2002 un ministro isrealiano, Yossi Sarid, propose di inserire due poemi nei programmi scolastici della scuola secondaria israeliana, proposta rifiutata da Ehud Barak: “Israele non e’ pronto” disse Barak. E quando lo sara’?

Quella di Darwish e’ stata una visione profetica, che non ha mai perso “la speranza, almeno per le generazioni future”, ma che ha intravisto “fantasmi venire da lontano”. A due anni dalla sua morte, mentre lunedi sera il video con il suo viso torvo veniva proiettato su una quasi deserta Al manara, la piazza centrale di Ramallah, dove e’ sepolto, quei fantasmi sono diventati la traccia visibile di una Palestina smarrita e frammentata. (Nena-News)

”Hanno diritto su questa terra alla vita:

il dubbio d’aprile, il profumo del pane all’alba, le idee di una donna sugli uomini,

le opere di Eschilo, il dischiudersi dell’amore, un’erba su una pietra,

madri in piedi sul filo del flauto, la paura di ricordare negli invasori. /

Hanno diritto su questa terra alla vita:

la fine di settembre, una signora quasi quarantenne in tutto il suo fulgore,

l’ora di sole in prigione, nuvole che imitano uno stormo di creature,

le acclamazioni di un popolo a coloro che sorridono alla morte,

la paura dei canti negli oppressori. / Su questa terra ha diritto alla vita,

su questa terra, signora alla terra, la madre dei princìpi, la madre delle fini.

Si chiamava Palestina si chiamava Palestina. Mia signora ho diritto,

che sei mia signora, ho diritto alla vita”.

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