mercoledì 20 luglio 2011

Questione palestinese: i sauditi si preparano a intervenire

14/07/2011

Original Version: The Saudis prepare to step up

Il piano palestinese di dichiarare un proprio Stato alle Nazioni Unite, sempre più minacciato da Israele e dagli Stati Uniti, potrebbe guadagnarsi nuovo sostegno a livello internazionale; in particolare quello dei sauditi – scrive l’analista ebreo americano MJ Rosenberg

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Fortemente incoraggiato dai finanziatori dell’AIPAC, il Congresso tratta i palestinesi come guerrafondai anche quando perseguono la pace, e gli israeliani come amanti della pace anche quando la rifiutano. Questo è cinico. E le persone che esigono che il Congresso si comporti in questo modo sono solo degli sciovinisti che tifano per la propria squadra, come se si trattasse di una partita di baseball e non di un conflitto che uccide.

Alla fine di giugno il Senato ha approvato all’unanimità una risoluzione redatta dall’AIPAC con lo scopo di mettere in guardia i palestinesi contro le terribili conseguenze che dovranno affrontare se si rivolgeranno alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento del loro Stato.

Il disegno di legge è pieno zeppo del solito linguaggio dell’AIPAC, concentrato su Hamas e sul terrorismo, mentre appoggia entusiasticamente i tentativi di Israele di raggiungere la pace attraverso i negoziati.

L’unica cosa nuova, che dimostra un reale senso dell’umorismo, è il riferimento ai 550 milioni di dollari che gli Stati Uniti offrono ai palestinesi ogni anno, denotando implicitamente che mezzo miliardo di dollari in aiuti dovrebbero essere sufficienti per convincere i palestinesi ad esaudire i nostri desideri.

Gli israeliani, ovviamente, ricevono sei volte tanto, e hanno essenzialmente augurato al presidente Obama di crepare ogni volta che ha loro chiesto un congelamento temporaneo degli insediamenti per aiutarlo a progredire nei negoziati.

Ma la risoluzione si concentra solo su quei 550 milioni di dollari. Il Senato, sollecitato dall’AIPAC, praticamente dice che se i palestinesi andranno alle Nazioni Unite, possono scordarsi di ricevere qualsiasi aiuto.

L’opposizione degli Stati Uniti al fatto che i palestinesi si rivolgano alle Nazioni Unite è assurda.

Che alternativa hanno i palestinesi? Secondo i termini dell’accordo di Oslo del 1993 (l’accordo di mutuo riconoscimento firmato da Yasser Arafat e Yitzhak Rabin), i palestinesi avrebbero dovuto vedere il loro Stato già nel 2000, al più tardi.

Ma in 18 anni gli israeliani non hanno ceduto un solo centimetro di territorio. (Hanno ritirato le loro truppe da Gaza, ma ne controllano lo spazio aereo, terrestre e marittimo, e tengono Gaza sotto assedio). Il numero dei coloni in Cisgiordania (il luogo del futuro Stato) è triplicato, da 100.000 a oltre 300.000. E, come detto sopra, Israele ha ripetutamente rifiutato la richiesta del presidente Obama di congelare l’attività di colonizzazione per tre mesi al fine di facilitare i negoziati.

Tuttavia, la risoluzione dell’AIPAC e del Senato richiede che i palestinesi tornino a “negoziati diretti” con Israele senza precondizioni, e che stiano lontani dalle Nazioni Unite. Per quanto riguarda le colonie, la risoluzione dice che i palestinesi dovrebbero negoziare sul futuro del territorio, mentre Israele lo sta riempendo di insediamenti sempre più grandi e di un numero sempre maggiore di coloni.

La risposta palestinese: ci abbiamo già provato, non è servito a nulla.

Come gli israeliani fecero nel 1947, i palestinesi dovrebbero andare alle Nazioni Unite per ottenere il riconoscimento. In seguito, lo Stato di Israele dovrebbe negoziare un accordo definitivo con lo Stato della Palestina.

Riconoscimento

C’è chi afferma che i palestinesi non avranno successo alle Nazioni Unite, che gli Stati Uniti eseguiranno gli ordini di Israele e bloccheranno la nascita di uno Stato utilizzando il loro potere di veto al Consiglio di Sicurezza.

Questo è probabilmente vero. Tuttavia, la posizione palestinese sarà incommensurabilmente rafforzata dalla dimostrazione di un ampio sostegno a livello internazionale. La prova migliore di ciò è quanto duramente Israele stia lavorando per evitare un voto alle Nazioni Unite. Se le azioni delle Nazioni Unite fossero così insignificanti, né Israele né la sua lobby qui negli Stati Uniti si ingegnerebbero con tutte le loro forze (come è accaduto con questa risoluzione del Senato) per spaventare i palestinesi in modo da non farli andare alle Nazioni Unite.

Tuttavia minacciare di sospendere gli aiuti significa darsi la zappa sui piedi. Il solo potere di influenza che abbiamo sui palestinesi proviene da tali aiuti. Se li sospendiamo, i palestinesi si rivolgeranno a qualcun altro.

Questo “qualcun altro” è l’Arabia Saudita.

In un editoriale apparso sul Washington Post il mese scorso, il principe Turki al-Faisal, che fu capo dei servizi segreti sauditi tra il 1977 e il 2001 e ambasciatore negli Stati Uniti dal 2004 al 2006, ha scritto che “è giunto il momento che i palestinesi bypassino gli Stati Uniti e Israele, e cerchino l’appoggio diretto della comunità internazionale al loro Stato presso le Nazioni Unite”. Egli ha anche detto che gli Stati Uniti pagheranno un caro prezzo se bloccheranno le aspirazioni a un futuro Stato:

“Nel mese di settembre il regno saudita potrebbe usare il suo considerevole potere diplomatico per sostenere i palestinesi nella loro ricerca di un riconoscimento internazionale. I leader americani hanno da tempo definito Israele un alleato ‘indispensabile’. Presto impareranno che ci sono altri attori nella regione – non ultima la piazza araba – che sono ugualmente ‘indispensabili’, se non di più. Il favoritismo nei confronti di Israele non è stato un atteggiamento saggio per Washington, e presto diverrà ancora più chiaro come esso sia una follia”.

La sua conclusione è sorprendente:

“Noi arabi eravamo soliti dire no alla pace, e ricevemmo la nostra giusta punizione nel 1967. Nel 2002 il re Abdullah offrì quella che diventò l’Iniziativa di Pace Araba. Basata sulla risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, essa chiede di porre fine al conflitto sulla base del concetto “terra in cambio di pace”. Gli israeliani si ritirano da tutti i territori occupati, compresa Gerusalemme Est, raggiungono una soluzione concordata per i rifugiati palestinesi e riconoscono lo Stato palestinese. In cambio, otterranno il pieno riconoscimento diplomatico del mondo arabo e di tutti gli Stati musulmani, la fine delle ostilità, e normali relazioni con tutti questi Stati”.

“Ora, sono gli israeliani a dire di no. Non vorrei esserci il giorno in cui si troveranno ad affrontare la loro giusta punizione”.

Quella “giusta punizione” è inevitabile a meno che Israele non si ravveda, eleggendo un nuovo governo e ignorando i consigli degli sciovinisti qui negli Stati Uniti, che sono sempre disposti a combattere fino alla fine. Non so se il principe Turki davvero “non vorrebbe esserci” quando Israele sarà costretta a pagare il prezzo della stupida arroganza del suo attuale governo. Ma io sicuramente non vorrei.

M. J. Rosenberg è senior fellow per la politica estera presso il Media Matters Action Network; in precedenza è stato direttore delle politiche dell’Israel Policy Forum
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