domenica 19 febbraio 2012

Gaza Parkour. Il sogno di saltare oltre il muro dell'occupazione Palestina

Quattro giovani palestinesi escono per la prima volta nella loro vita dalla Striscia di Gaza e arrivano in Italia per incontrare altri atleti impegnati come loro nella pratica del Parkour, l’arte di superare ostacoli architettonici mettendo a dura prova un fisico allenato. Una disciplina - di movimento e di vita - che nasce nelle periferie metropolitane del mondo e che a Gaza si trasforma nell’arte di sopravvivere all'occupazione.







di Cecilia Dalla Negra



Il mondo esterno, fino ad oggi, l’hanno guardato attraverso la rete. Quella fisica, che separa la Striscia di Gaza dalla realtà, e quella virtuale, da cui hanno osservato, studiato e imparato anche l’arte del Parkour.

Mohammed, Abdallah, Ibrahim e Jehad hanno vent’anni, e fino ad oggi non erano mai usciti dalla Striscia di Gaza.

Per farlo hanno percorso un viaggio che ha coperto “distanze lunghissime: ci siamo accorti per la prima volta di quante cose ci sono fuori”.

I volti stupiti, lo sguardo imbarazzato, nell’iniziativa romana che inaugura il loro tour in Italia sono spaesati ma felici, mentre cercano di spiegare a chi li ascolta che anche solo praticare uno sport, a Gaza, è un’impresa complicata.

Tanto più se scegli di cimentarti nel Parkour, disciplina amata in Europa ma difficilmente compresa e accettata, perché complessa è la filosofia che ne sta alla base.

Per diventare “traceurs”, atleti impegnati in questo metodo a suo modo rivoluzionario, il percorso è lungo e l’allenamento sfiancante.

Molto più di uno sport, il Parkour è una vera e propria disciplina di movimento, che affonda le sue radici lontano nel tempo e si sviluppa, a partire dagli anni Ottanta, nelle periferie metropolitane dei grandi agglomerati urbani.

Luoghi degradati, abbandonati a se stessi, che grazie alla messa in atto di quest’arte del movimento tornano a nuova vita. Una sfida umana contro ostacoli e barriere, che utilizza il cemento, lo sfrutta nello slancio, cerca di sconfiggerlo.

E se nelle periferie delle città europee è una forma di allenamento fisico che si fa filosofia di vita, a Gaza assume un significato ancora più grande, diventando sfida contro l’occupazione, l’assedio, le macerie della guerra, che diventano teatro e palestra per torsioni, salti, voli acrobatici realizzati con il corpo.

E un grido, insieme, lanciato a quel mondo che di Gaza e del suo popolo ha una visione distorta: “Attraverso questa disciplina – raccontano – cerchiamo di mostrare un’immagine diversa di Gaza. Vogliamo riuscire a far capire che esistono giovani, con le loro pratiche e la loro cultura, che anche in condizioni difficilissime riescono comunque a vivere e sono capaci di sperare”.

Cercano, allenandosi, di far sapere che esistono. “Il Parkour non è solo uno sport che ci permette di vincere ostacoli e barriere, ma soprattutto una mentalità: ci aiuta a superare i problemi e le difficoltà quotidiane che viviamo nella nostra situazione”.

Perché è proprio la speranza nel futuro che l’assedio sta negando ai più giovani che “dal primo momento in cui vengono messi al mondo sanno che dovranno vivere in condizioni disumane, tra mille difficoltà”.

Ecco allora che anche la pratica di una disciplina sportiva diventa una forma di resistenza mentale alle dure condizioni quotidiane imposte dall’assedio: “E’ un modo per dimostrare – spiega Jehad – che Israele può occuparci, chiuderci a Gaza e assediarci. Ma non può toglierci la libertà di sognare”.

A Gaza la loro crew è l’unica a praticare il Parkour. Sono i primi nel mondo palestinese ad essersi cimentati in questa disciplina. E nonostante l’interesse che sono stati capaci di attrarre intorno a sé tra i giovanissimi, sognando un giorno di poter aprire per loro una scuola, all’inizio non è stato facile farsi capire.

“Ci scambiavano per ladri perché eravamo capaci di arrampicarci sui muri”, raccontano.

Problemi che si riscontrano anche in Europa, dove troppo spesso l’allenamento di questi giovani è considerato a rischio, accostato ad una sorta di teppismo metropolitano, quando il fine ultimo è invece nobile, e punta all’ottenimento di un corpo allenato, perché utile a se stessi e agli altri.

E se alla base di questa disciplina affascinante c’è la sfida del corpo umano contro l’ostacolo, ecco che a Gaza assume un significato ancora più grande. Quello di andare oltre il muro dell’assedio, di saltare oltre quella barriera – fisica e militarizzata – che tiene la Striscia separata dal resto del mondo; e di superare quella mentale, mantenendo viva la capacità di sognare.



18 febbraio 2012

* Il loro tour è stato finanziato dalla Provincia di Roma e organizzato dalle associazioni Eureka, Un ponte per…, Assopace, Jalla Onlus e ACS nell’ambito di un progetto di sostegno alle attività sportive di Gaza. Dopo l’arrivo a Roma proseguirà nei prossimi giorni toccando Bologna, Milano, Bergamo e Palermo.

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