lunedì 13 febbraio 2012

Contributo sulla questione siriana

di Antonino Salerno



La mia, più che un’analisi vuol essere una semplice testimonianza, nella speranza di offrire un piccolo contributo di buon senso al dibattito.

Le cosiddetta rivolta popolare al regime di Assad, in nome della libertà, è iniziata la scorsa primavera, proprio mentre ero a Damasco a trovare il figlio della mia compagna che studiava arabo in quella Università.

In Italia arrivavano notizie di molti morti fra la popolazione e di grandi manifestazioni anche nella capitale, una di addirittura 50.000 persone, impossibile da non vedere. Eppure a Damasco, fra gli stranieri residenti, americani, europei, arabi, nessuno ne sapeva niente, neppure all’Università, mentre l’ambasciata italiana continuava a tranquillizzare i cittadini italiani, fra i quali una ventina di studenti.

Un’altra notizia riguardava la sanguinosa repressione di una grande manifestazione avvenuta nel centro storico, all’uscita della preghiera del venerdì dalla moschea degli Omayyadi, a pochi passi dalla residenza del figlio della mia compagna, rimasto a Damasco fino allo scorso 15 dicembre. Anche in questo caso la notizia era palesemente falsa perché lui era per combinazione proprio lì, quando avrebbe dovuto esserci l’episodio sanguinoso, ma non ha visto niente. I media occidentali, senza eccezioni, riportavano le notizie false senza battere ciglio. Questo mi ha insospettito. Memore degli eccidi, delle fosse comuni e degli orrori inventati di sana pianta per screditare altri regimi invisi all’Occidente, oltre i veri orrori che non mancavano ma che evidentemente non erano ritenuti sufficienti a indignare l’opinione pubblica, mi sono fatto due conti arrivando alla conclusione che dietro gli avvenimenti siriani non può mancare lo zampino dei servizi statunitensi e israeliani, attivissimi in quell’area.

Le tecniche di regime change, quelle miranti ad un cambio di regime in uno stato considerato ostile, non sono molto cambiate dal dopoguerra ad oggi. A parte un uso più professionale della propaganda e della comunicazione, oggi affidate in qualche caso (vedi la Serbia di Milosevic) a grandi agenzie pubblicitarie, gli ingredienti sono sempre gli stessi e vanno dal finanziamento di un’opposizione interna di stretta osservanza occidentale, all’incitamento alla rivolta di particolari categorie che per motivi sociali, etnici o religiosi sono ostili al governo, dalla propaganda volta a screditare il regime anche orchestrando notizie di atrocità, all’addestramento di commando e milizie che penetrano entro i confini più per fare vittime civili da imputare alle forze governative che per scontrarsi contro forze comunque superiori. Tutta la storia dei molti regime change orchestrati dagli Stati Uniti in America Latina, il suo cortile di casa, segue meticolosamente questo copione, in Cile, in Nicaragua, in Brasile, nell’Argentina di Videla, in Salvador, ecc.. Niente di nuovo sotto il sole.

A mio parere, quanto accade in Siria rappresenta la seconda puntata, dopo la Libia, della risposta occidentale alle inaspettate insurrezioni tunisine e egiziane che hanno destabilizzato gli equilibri regionali. Per chi crede ancora agli artifici retorici della propaganda del mondo “libero”, consiglio di confrontarsi con l’emblematico caso del Bahrein, dove la rivolta popolare è stata soffocata nel sangue lo scorso aprile con la complicità saudita e nel silenzio assoluto dell’ONU e dei paladini delle libertà, politici e media del mondo intero, gli stessi che ora, da Parigi e da Washington tuonano indignati contro le atrocità del regime siriano. Si vede che i civili trucidati dall’emiro sono più brutti di quelli siriani.

E già! Qui entrano in ballo la geopolitica e gli interessi occidentali.

Nel Bahrein la rivolta rischiava di portare al potere la fazione sciita, proprio ai confini dell’Arabia Saudita sunnita, maggior alleato dell’Occidente e acerrimo nemico dell’Iran sciita. Invece la Siria, anch’essa governata dagli alawiti, una fazione sciita, nonostante abbia dimostrato buona volontà nell’adeguare la sua economia ai diktat neoliberisti del Fondo monetario, a causa dei legami con Teheran, del reiterato sostegno alla causa palestinese ed al movimento libanese Hezbollah, continua a rappresentare una spina nel fianco di cui Israele vuole liberarsi al più presto per avere mano libera nei suoi obiettivi di espansione coloniale nei Territori palestinesi occupati e di intervento armato anti-iraniano.

Certo che dato l’esito disastroso della seconda guerra all’Irak, che ha diviso il paese e l’ha riportato indietro di quarant’anni insediando al potere la fazione sciita, Israele non deve essere molto felice dell’irresponsabile gestione americana di tutta la vicenda. Non bisogna dimenticare che negli anni ’80 l’Irak laico di Saddam si impegnò in una guerra decennale per contenere l’Iran komeinista e fortemente antiisraeliano, dietro mandato statunitense.

L’Hitler con l’arma nucleare Saddam lanciò i suoi scalcinati Scud su Israele solo dopo che per ringraziamento fu attaccato da Bush senior nella prima guerra del Golfo, scatenata con la scusa di difendere il Kwait, un paese medievale proprietà privata di una famiglia, al cui confronto la Siria è un paese liberale, laico e perfino un po’ democratico.

Ora che l’Irak, quel paese cuscinetto, praticamente non esiste più come potenza locale, l’Iran si è naturalmente rafforzato nell’area e Israele chiede agli USA, in cambio del fallimento del loro progetto di Grande Medio Oriente, semaforo verde per ridimensionarlo.

Questo grosso modo lo scenario geopolitico possibile. Per tornare alla Siria.

E’ la stessa dinamica della repressione, come ci viene raccontata, a non convincere. Ci viene presentato un quadro in cui l’esercito bombarda e cannoneggia quartieri civili o intere città. A quale scopo? Per perdere il consenso anche di quella parte della popolazione, probabilmente maggioritaria, che ancora lo sostiene? Ci sono eccidi che saltano fuori a orologeria proprio nel momento in cui all’ONU si discute la questione siriana. I dirigenti siriani devono essere autolesionisti o fuori di testa per fare una politica del genere. Anche il cecchinaggio nel corso di manifestazioni di protesta che viene imputato ai governativi lascia perplessi.

Un regime come quello siriano non ha certo bisogno di questi pretesti per varare leggi eccezionali e dare un giro di vite, è invece l’opposizione che ha tutto l’interesse a queste azioni per dimostrare alla popolazione che il regime non è più in grado di garantire la sicurezza e all’esterno per portare nuove prove dell’efferatezza di Assad.

Se le forze lealiste vengono attaccate da insorgenti in armi cosa dovrebbero fare? Invitare al dialogo? Se in Italia ci fossero commando armati che entrano dalla Francia e dalla Svizzera per attaccare le caserme dei carabinieri cosa succederebbe? E già, ma noi siamo una democrazia, il popolo vota, quindi ci siamo scelti i nostri rappresentanti e il nostro governo (?).

Le manifestazioni popolari di protesta in Siria sicuramente ci sono, ma paradossalmente nascono soprattutto a causa dell’impoverimento della popolazione a seguito delle liberalizzazioni degli ultimi 4/5 anni, volute da Assad proprio per riavvicinarsi all’Occidente. Mal gliene incolse.

A distanza di quasi un anno, uno dei pochi articoli in cui sulla stampa italiana si esprime qualche dubbio su quanto ci viene raccontato a proposito della Siria e sulla contabilità delle vittime è di Marinella Correggia, per il Manifesto del 5 febbraio. Lì si sottolinea l’esistenza di almeno due fazioni di un certo rilievo dell’opposizione, in lotta fra loro, una delle quali legata a filo doppio all’Occidente che reclama tout court l’intervento della NATO, stile Libia, Bosnia e Kosovo. La spaccatura ha interessato anche il londinese Osservatorio siriano per i diritti umani, specializzato nella messa in onda di bambini massacrati e martiri civili nonché fonte principale, se non esclusiva delle notizie riprese dai media internazionali.

L’articolo della Correggia si sofferma poi sul caso dell’eccidio di dodici membri della famiglia di Bahadour nella città di Homs attribuito dai media internazionali a “7 uomini in divisa, lealisti del regime”, mentre il fratello di una delle vittime, Abdel Ghani Bahader, avrebbe detto testualmente a Madre Agnès-Marian de la Croix, superiora del monastero siriano di San Giacomo: “Siamo una famiglia sunnita che lavora per lo stato. Vogliamo essere neutri. Ma gli insorti ci hanno attaccati più volte tanto che mio fratello voleva spostarsi altrove dopo aver rifiutato l’invito ad unirsi all’Esercito siriano libero. Ma non ha fatto in tempo”. Come accadeva in Kosovo a chi non voleva unirsi ai banditi dell’UCK. Madre Agnès-Marian è particolarmente attiva nel denunciare le violenze delle bande armate dell’opposizione. Com’è risaputo i cristiani di Siria, circa il 10% della popolazione, sostengono il regime di Assad che fino ad oggi ha sempre garantito alle minoranze religiose libertà di culto e sicurezza.

Va infine ricordato che gli Usa finanziano dal 2009 Barada TV, una televisione sedicente libera di alcuni oppositori siriani con sede a Londra. Milioni di dollari in nome della libertà di parola?

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