lunedì 20 febbraio 2012

Siria: punto di non ritorno del Medio Oriente

Siria: punto di non ritorno del Medio Oriente
di Nassar Ibrahim


La lotta in Siria non riguarda solo la Siria: è una lotta per un Medio Oriente libero e democratico che vive ora sotto il giogo dell’egemonia statunitense e israeliana.


Il conflitto siriano ha raggiunto il suo punto di non ritorno. A questo livello non è più accettabile né ragionevole continuare a giocare nella zona grigia nel nome della diplomazia, perché la lotta in Siria ha un significato cruciale per diverse ragioni strategiche.


L’importanza della questione siriana va ricercata nel ruolo chiave che il Paese svolge nel contesto geostrategico regionale. La sua posizione è strettamente interdipendente ai cambiamenti a cui assisteremo nel mondo arabo nel prossimo decennio e i cui risultati saranno fortemente subordinati a quando accadrà in Siria. Per essere chiari, i movimenti di cui siamo testimoni in questo periodo influenzeranno il destino degli equilibri regionali e globali su più di un’asse.

Dal momento in cui la Lega Araba ha deciso di sospendere la membership della Siria, assumendo una serie di sanzioni contro il popolo siriano, gli scontri scoppiati in Siria si sono spostati ad un altro livello. Ciò è diventato ancora più chiaro con la seconda risoluzione proposta dalle Nazioni Unite – che chiedeva una transizione democratica e la caduta di Bashar Al Assad – ma fermata dal veto di Russia e Cina per la seconda volta in quattro mesi. Sono stati due i tentativi di preparare il terreno per un intervento militare, voluto da Stati Uniti, Paesi europei e arabi e per cui hanno votato 13 dei 15 membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Un simile ardore ricorda il clima internazionale prima della guerra contro l’Iraq scoppiata nel 2003.

Con i recenti sviluppi, la facciata è crollata mostrando i veri obiettivi nascosti dietro le maschere e rivelando che gli slogan per la libertà, la democrazia e i diritti umani sono stati usati come testa di ariete da chi vuole un intervento concreto per distruggere la Siria. Lo scopo appare chiaro: deprivare il Paese del suo ruolo e il popolo siriano della sua volontà. Va ricordato che la Siria ha sempre avuto una posizione rilevante nella storia araba, esempio di una civilizzazione lunga un secolo e di strutture statali solide e punto di riferimento per l’intero mondo arabo, non solo per la sua posizione geografica, ma anche per il suo spirito anticoloniale e la sua storica resistenza allo Stato di Israele, longa manus dei poteri coloniali occidentali in Medio Oriente.

Tali elementi, che hanno determinato la natura dei sentimenti nazionali popolari, sono completamente ignorati dagli avvocati dei “diritti umani, la democrazia e la libertà” (in particolare dai regimi reazionari del Golfo, dalla Turchia, dal movimento Hariri libanese e dai gruppi islamici siriani), assunti dall’alleanza USA-Francia-Qatar. Ironicamente, le nazioni che hanno preso il nome della famiglia dominante (l’Arabia Saudita) o i cui leader sono saliti al potere con un colpo di stato mentre i padri erano all’estero (Sheikh Hamad bin Kalifa in Qatar) implorano oggi per un intervento della NATO chiedendo la distruzione della Siria dietro lo scudo dei diritti umani e della democrazia. All’apice della loro frustrazione – essendo incapaci di produrre un cambiamento di regime per dieci mesi nonostante i loro sforzi mediatici, finanziari e militari – il capo dell’opposizione Burhan Ghalioun ha già annunciato la sua intenzione di aprire la Siria ad alleanze con l’Occidente, di porre fine alle relazioni con l’Iran e con le resistenze libanese e palestinese e infine di stabilire buoni rapporti con Israele, se il suo progetto avrà successo. Questo cambiamento verso una più forte inclusione nell’economia di mercato e una penetrazione delle forze coloniali priverebbe la Siria del suo storico ruolo e certamente non rappresenterebbe gli interessi del popolo siriano.

L’obiettivo occidentale per la Siria e il Medio Oriente in genere è quello di consolidare progressivamente il controllo sulla regione. La cosiddetta “guerra al terrore” cominciata dopo l’11 settembre è espressione della volontà di cooptare il Medio Oriente, così come avvenuto con l’occupazione in Afghanistan, la caduta di Baghdad nel 2003, la guerra di Israele al Libano nel 2006 e infine con l’attacco israeliano a Gaza tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Gli Stati Uniti, tuttavia, si sono trovati di fronte movimenti di resistenza e opposizione.

Washington è rimasto sorpreso dalla caduta di Zine El Abidine Ben Ali in Tunisia, il crollo del regime di Hosni Mubarak in Egitto e lo scoppio dei movimenti di protesta in tanti Paesi arabi. Il gioco, che fino ad allora era apparso chiaro, si è distorto e l’equazione si è modificata. Tali rovesciamenti hanno costretto l’Occidente a riformulare strategie e politiche al fine di contenere e controllare il cambiamento sociale. Ciò è diventato ancora più importante alla luce della sconfitta subita dagli USA in Iraq dopo nove anni di guerra sotto la pressione della resistenza irachena, di cinquemila morti e una spesa militare stimata di tremila miliardi di dollari.

A questo punto, l’alleanza tra gli Stati Uniti e i regimi reazionari non poteva più definire l’agenda in modo palese. La strategia è cambiata coinvolgendo l’opinione pubblica e spingendo i regimi arabi a entrare nel conflitto siriano. Un forte impegno è sembrato essere l’unica possibilità di compensare le perdite in Afghanistan e Iran e di proteggere i governi reazionari dalla Primavera Araba.

Così, l’imperialismo e le forze reazionarie – la NATO e i suoi alleati nel Golfo – hanno deciso velocemente di intervenire contro la Siria, optando per due possibili scenari. La prima opzione era cavalcare l’onda delle rivolte arabe, impegnandosi per rovesciare la Siria attraverso una guerra totale, politica, psicologica e mediatica, incluse l’internazionalizzazione della crisi e la richiesta di un intervento esterno (come quello attuato in Libia): l’obiettivo, trasformare un Paese ostile alla NATO in uno Stato satellite simile agli altri regimi arabi reazionari e portarlo nell’orbita del colonialismo occidentale.

Se questo non accadrà, potremmo vedere le forze occidentali affondare la Siria in un pantano di distruzione, esaurire le sue risorse statali e sociali e, così facendo, cancellare i risultati raggiunti dal suo ruolo storico a livello regionale e internazionale. Ciò può essere realizzato alimentando la violenza settaria e armando organizzazioni terroristiche e gruppi estremisti formati per prosciugare le strutture e le istituzioni dello Stato, al fine di distorcere i modelli sociali e religiosi e condannare la Siria a conflitti interni di lungo periodo.

In tale contesto, dobbiamo analizzare le posizioni di potere dei vari attori coinvolti nelle lotte di questi mesi. Sono due i fronti che si oppongono. Il primo comprende gli Stati Uniti, Israele, i Paesi dell’Europa Occidentale, i regimi arabi reazionari rappresentati dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, i segmenti più conservatori delle società del Golfo e la Turchia, che sta cercando di ottenere un ruolo forte nella regione. Il secondo è il popolo siriano che sta chiedendo un cambiamento, lo Stato siriano e le forze di resistenza politica e culturale, specialmente in Libano e Palestina, fino all’Algeria e all’Iran.

Qui c’è un elemento da sottolineare: il regime siriano – e il partito Baath in particolare – va duramente criticato per le sue politiche repressive. La volontà del popolo di cambiamento e riforme deve essere rispettata e sostenuta. Ma il fatto che il regime non sia stato ancora rovesciato mostra che l’equilibrio interno di potere è diverso da quello presentato dai media internazionali. Il ruolo cruciale del partito Baath nella creazione di strutture statali (ad esempio, i sistemi sanitario e scolastico) e nel sostegno ai movimenti di resistenza – in primo luogo quello palestinese – non è stato dimenticato dal popolo siriano. Inoltre, se poteri stranieri stanno chiamando alla distruzione dello Stato e le istituzioni siriane, il regime dovrebbe rispondere alle richieste di riforma del suo popolo. Una transizione è necessaria, ma non dovrebbe realizzarsi al prezzo dello smantellamento della Siria e del diniego del diritto del popolo all’autodeterminazione, conseguenze camuffate da democratizzazione.

Le pressioni interne hanno giù dato prova della capacità di spingere il regime ad aprirsi alle riforme, annunciate nei mesi scorsi e comprendenti la cancellazione della legge di emergenza in vigore dal 1963, riforme costituzionali per le elezioni presidenziali e locali, pluralismo partitico con quattro nuovi partiti legalizzati e altri cinque in via di legalizzazione, riforme economiche che revocano gli accordi di libero commercio che danneggiano gli interessi dei piccoli e medi imprenditori siriani. Ma le riforme hanno bisogno di tempo e di spazio per dare risultati e per dimostrare che la democratizzazione è possibile senza i diktat occidentali.

Quello che sta avvenendo in Siria ora non è un conflitto locale, ma l’espressione dello scontro tra la visione americana e israeliana di un “nuovo Medio Oriente” da una parte e i movimenti di resistenza e le opposizione che combattono per un reale cambiamento sociale e democratico dall’altra.

Il confronto si muove su tre livelli indipendenti:

Il primo livello: il confronto tra i partiti di resistenza e opposizione che combattono per i diritti politici, economici e culturali contro il progetto sionista in tutte le sue dimensioni e i suoi obiettivi.

Le conseguenze del conflitto a questo livello determineranno il futuro della causa palestinese, o con il superamento dell’impasse creata dagli accordi di Oslo o attraverso la dipendenza dai Paesi arabi e il conseguente indebolimento della resistenza palestinese. Significa che il mondo arabo dovrebbe prendere l’iniziativa, spingendo per i diritti nazionali palestinesi e combattendo il progetto sionista come preludio alla sua sconfitta. Altrimenti il confronto porterà alla distruzione del cuore della resistenza e alla vittoria del sionismo, ovvero all’annichilimento dei diritti palestinesi.

Il secondo livello: un confronto tra il tentativo coloniale USA-UE di dominare la regione, con il supporto delle forze reazionarie in Turchia e nei regimi arabi, e l’asse russo-cinese, sostenuto dai poteri emergenti internazionali come Iran, Brasile e India.

Tale confronto determinerà i parametri di nuovi equilibri globali, mirando a superare l’egemonia americana e a ripristinare il ruolo di moderazione di Russia e Cina e portando a rimodellare le relazioni internazionali, compresa la riforma delle Nazioni Unite, sempre più dominate dagli interessi statunitensi negli ultimi vent’anni. Russia e Cina, insieme agli altri Paesi emergenti (India, Sud Africa, Brasile, Venezuela e buona parte dell’America Latina) intendono modificare i rapporti globali sulla base di un equilibrio più giusto piuttosto che su quella della dominazione USA uscita dalla Seconda Guerra Mondiale e rinforzata dal crollo dell’Unione Sovietica.

L’alternativa ad una simile situazione sarebbe l’esecuzione del piano americano di distruggere la Siria, con la possibilità di riorganizzare la regione secondo strategie e interessi statunitensi.

Il terzo livello: Il confronto a livello sociopolitico e ideologico tra le forze religiose reazionarie e i salafiti da un lato e i movimenti progressisti laici dall’altra, con i loro rispettivi attori sociali e politici.

Questo determinerà la natura del cambiamento nella regione e nelle comunità arabe, sia portando l’area in uno stato di declino, sia guidando la creazione di nuovi sistemi di potere reazionari in nome della religione, conseguenza che porrà fine al processo di cambiamento democratico nella sua espressione nazionale progressista. Ciò è quello a cui assisteremo se la NATO interverrà e manipolerà la capacità araba di realizzare un processo di democratizzazione, restaurando ancora una volta la “democrazia” coloniale. In alternativa, la democratizzazione sociopolitica giungerà ad un nuovo livello nelle società arabe, diventando un fenomeno genuino e profondo che potrebbe essere modello per il cambiamento in Siria. Questo illuminerebbe il percorso della nazione araba verso la liberazione dallo stato di dipendenza dall’Occidente, permettendo l’avvio di una fase di progresso e il posizionamento a livello internazionale.

Alla luce di questa analisi e dell’interdipendenza dei tre livelli di confronto, il conflitto in Siria deve essere visto non solo come lotta per punire le posizioni o le politiche repressive del regime di Assad. È un conflitto per determinare il futuro della regione. In tal senso, il confronto trascende letture superficiali. Un successo della Siria va oltre la sopravvivenza dello Stato in resistenza agli interventi esteri coloniali e al tentativo di smantellamento. È importante, ma il vero successo dipende dalla capacità di realizzare un processo riformatore profondo, radicale e totale, focalizzandosi sulle istituzioni siriane, sulla società e gli apparati statali. Obiettivo di una simile democratizzazione dovrebbe essere il coinvolgimento di tutto il potenziale della società siriana, specialmente alla luce dell’alto livello di consapevolezza dimostrato in momenti storici cruciali. Il popolo, che tramite le sue proteste e allo stesso tempo la sua resistenza all’intervento esterno non è caduto nella trappola degli accecanti slogan di democrazia e diritti umani, è stato una grande sorpresa per coloro che avevano scommesso sulla sua sconfitta. Il popolo ha dimostrato al regime di Assad di volere e di essere in grado di realizzare un vero cambiamento democratico, molto di più della mera imitazione di modelli esterni.

La lotta in Siria rivela che gli attuali sviluppi sono stati alimentati dai poteri coloniali. L’obiettivo cercato dagli attori reazionari è di impedire alla Siria di costruire il proprio modello democratico come alternativa al progetto “coloniale democratico” occidentale. La politica occidentale implementata contro il regime di Assad mira alla subordinazione e alla dipendenza della Siria come strategia di contenimento delle rivoluzioni arabe, per controllarle e mantenerle sotto l’ombrello della visione americana, dopo il suo fallimento nel proteggere gli alleati arabi dalle rivolte di massa. L’interesse occidentale a mantenere le redini del cambiamento nel mondo arabo spiega il riposizionamento dei poteri coloniali a favore dell’Islam politico, specialmente i Fratelli Musulmani, saliti al potere in Tunisia, Libia e Egitto.

A loro volta, i movimenti islamici stanno dimostrando di essere meno pericolosi per gli interessi occidentali di quanto i leader, gli analisti e i media li definissero. Guardando all’ostile retorica del passato, vediamo che i movimenti islamisti al potere stanno, di fatto, ripensando la loro attitudine al fine di costruire ponti verso i Paesi occidentali, come preludio alla creazione di nuove alleanze nella regione.

Non c’è più spazio per rimanere neutrali o ambigui in merito ad un simile confronto e il compito della resistenza e di coloro che combattono per un cambiamento democratico in tutto il mondo arabo – attori che non dovrebbero essere dimenticati – è di far evolvere e di proteggere la Siria e l’intero Medio Oriente.

Tradotto in italiano da Emma Mancini (Alternative Information Center)

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