venerdì 24 febbraio 2012

Palestina, Khader Adnan: "Questa lunga notte di tirannia e disumanità dovrà finire

Palestina, Khader Adnan: "Questa lunga notte di tirannia e disumanità dovrà finire"

Randa Musa, moglie di Khader Adnan, scrive una lettera aperta al Guardian per spiegare le ragioni del lungo sciopero della fame del marito. E per ringraziare quanti nel mondo hanno sostenuto la sua battaglia.







di Randa Musa - traduzione a cura di Cecilia Dalla Negra*



Il nome di mio marito, Khadar Adnan, è diventato noto in tutto il mondo. Quattro mesi fa era sconosciuto al di fuori della nostra terra, la Palestina. Il suo sciopero della fame lungo 66 giorni lo ha trasformato in una figura globale e in un simbolo della lotta del mio popolo.

La nostra vita è cambiata quando, il 17 dicembre 2011, truppe israeliane hanno fatto un raid nella nostra casa nel villaggio di Arabya, a sud di Jenin, nella Cisgiordania occupata.

Erano circa le 3 del mattino quando hanno buttato giù la porta e hanno fatto irruzione in casa. La devastazione che hanno causato resterà impressa per sempre nella mente delle nostre due figlie. Ma’ali ha 4 anni, Baysan solo un anno e mezzo.

Non sarei sorpresa se ne risentisse anche il bambino che porto in grembo, non ancora nato. È questo il trauma che portano con sé i raid israeliani.

Khadar è stato uno studente e un attivista per molti anni. Non è una figura oscura, ma un leader locale contro l’occupazione israeliana. È molto conosciuto sia dalle autorità dell’occupazione sia dall’Autorità Palestinese a Ramallah. Entrambi lo hanno arrestato diverse volte senza accuse.

Queste continue vessazioni hanno rallentato Khadar nel completamento della sua laurea in Economia.

Ma noi siamo rimasti una coppia normale, con il desiderio di dare la stabilità necessaria e la libertà di crescere ai nostri figli; di dare loro la felicità che spetta ad ogni bambino.

Con la mia laurea, non ho mai avuto dubbi che come genitori saremmo stati in grado di realizzare le nostre ambizioni. Ma la vita sotto l’occupazione militare ha trasformato i nostri sogni in incubi.

Non è la prima volta che Khadar utilizza lo strumento dello sciopero della fame: questa potente forma di protesta pacifica che ha ottimi effetti. Quando l’Autorità Palestinese lo ha arrestato nel 2010 è stato in sciopero della fame per 12 giorni consecutivi, costringendo le autorità di Ramallah a rilasciarlo.

Allo stesso modo, ha condotto diversi scioperi della fame nei campi di detenzione dell’occupazione. L’ultimo è stato condotto nel 2005, e gli ha causato una condanna a 9 giorni di isolamento.

Cosa porta mio marito a perseguire questa difficile e pericolosa forma di resistenza? Non ho dubbi che sia la natura ingiusta della “detenzione amministrativa” e i famosi metodi di tortura e umiliazione israeliani.

Dal momento in cui è stato messo a bordo di quel veicolo militare, a dicembre, gli sono stati rivolti insulti e minacce. Hanno anche cercato di indebolirlo psicologicamente, accusandomi di essergli stata infedele, un’accusa viziosa che ha respinto con disprezzo.

Conosco molto bene mio marito: lo amo, e gli resterò per sempre fedele. Lui lo sa, ed è per questo che ha respinto le insinuazioni gratuite dei suoi aguzzini.

Khadar non è mai stato motivato da ferite o disagi personali. Lui, come migliaia di altri giovani palestinesi, è determinato a vedere la fine dell’occupazione. È mosso da una logica più grande: mostrare al mondo le condizioni dei prigionieri palestinesi.

Dal 1967, oltre 650 mila palestinesi hanno vissuto l’esperienza delle carceri israeliane, molti di loro in detenzione amministrativa: una media di una persona su quattro nei Territori Occupati.

La detenzione amministrativa è una misura nebulosa e vendicativa utilizzata dal sistema di occupazione contro i nostri giovani, uomini e donne. È una delle crudeli eredità che ci ha lasciato il Mandato Britannico sulla Palestina.

Oggi, in assenza di ogni deterrente o condanna da parte della Comunità Internazionale, Israele usa questa formula con frequenza sempre maggiore, contro studenti universitari, giovani professionisti e anche parlamentari regolarmente eletti. Circa 300 di loro sono ancora detenuti.

È solo una faccia della politica immorale utilizzata da Israele per mantenere i palestinesi in uno stato di povertà costante e sottosviluppo.

Quando un comandante militare rilascia un ordine di detenzione amministrativa, non sono prodotte prove. Non sono formulate accuse specifiche contro le vittime, e l’Occupazione non ha l’obbligo di dare una motivazione per l’arresto.

Non si tratta affatto di un meccanismo giuridico: è semplicemente una misura arbitraria e draconiana usata per colpire fisicamente e psicologicamente le sue vittime. Quando sono abbastanza fortunate da essere condotte davanti a un giudice, egli può decidere di detenerli per un periodo che da sei mesi può essere esteso indefinitamente. La questione dei prigionieri è talmente centrale oggi per i palestinesi, che hanno dovuto creare per questo uno speciale ministero.

So che mio marito non è un egoista. Ecco perché l’ho sostenuto in ogni passo sulla sua strada. E come ogni moglie devota, ho il dovere di aiutarlo a sopportare il peso del nostro popolo oppresso. I nostri parenti ci hanno sostenuti con uguale vigore.

Inoltre, non credo di mentire se sostengo che tutti i palestinesi nel mondo, di tutti gli schieramenti politici, insieme a milioni di amanti della libertà nel mondo sono stati anch’essi dalla nostra parte.

L’occupazione ha deciso, sotto pressione, di liberare mio marito in aprile, ma centinaia ancora continuano a soffrire in celle sporche, sotto lo stesso sistema illegale e disumano.

Khadar, ad ogni modo, ha consegnato il suo messaggio: che questa lunga notte di tirannia e disumanità dovrà finire.

Sappiamo bene che gli israeliani tenteranno di rinnegare l’accordo di questa settimana – così come hanno fatto nel recente scambio di prigionieri – ri-arrestando i prigionieri liberati. Ma per ogni caso ci sarà una risposta, e sono sicura che mio marito non esiterà a riprendere la sua lotta con ancora maggiore forza e determinazione.

Per me, la parte più difficile di questo calvario è stata la consapevolezza che in ogni momento avrei potuto ricevere una telefonata, che mi avrebbe annunciato la morte di mio marito.

Ma questo è il prezzo da pagare per la nostra libertà. Questo è il sacrificio necessario affinché i nostri figli possano un giorno godere di una vita libera e dignitosa.

Al mondo libero, ai milioni che hanno ascoltato Khadar e lo hanno sostenuto chiedendone il rilascio, mando i miei ringraziamenti di cuore e il mio apprezzamento.

23 febbraio 2012







* Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano The Guardian

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