giovedì 30 settembre 2010

Appunti di viaggio incontro con N.Hammad e l'Unione Generale delle Donne Palestinesi

Per mezzogiorno abbiamo appuntamento con Nemer Hammad il consigliere di Abu Mazen che ci fa trovare anche un buffet, molto apprezzato specie per i dolci. La cucina palestinese, che già conoscevo per le molte cene organizzate durante le varie iniziative, mi piace molto ed essendo parecchio calorica, rischia di farmi acquistare qualche chilo specie se continuo a mangiare a quattro palmenti.
Nemer Hammad non ha bisogno di traduzione, parla in italiano perché in Italia ha vissuto per 30 anni con la carica di rappresentante dell’OLP. Fa un discorso abbastanza pragmatico - non bisogna puntare a raggiungere obiettivi impossibili, ma restare sul terreno pratico di ciò che si può fare -. Riguardo alla svolta di Oslo sostiene che ci fu un cambiamento rispetto al rifiuto di un riconoscimento reciproco. Quindi non lo considera un errore (questa è invece la mia convinzione) . Ritiene che il problema principale che ha complicato il processo di pace siano stati gli insediamenti e la politica israeliana delle “concessioni” per esempio per quanto riguarda i prigionieri. Sull’Intifada dice che è stata dannosa sia per il numero degli attentati, sia perché ha scatenato il campo estremista in Israele, cosa assolutamente vera, ma l’Intifada scoppiò appunto per il fallimento e le conseguenze degli accordi di Oslo.
Poi parla delle difficoltà rispetto a possibili negoziati. “Questo governo (israeliano) non ha accettato né la road map, né altro, Obama prima ha detto di voler fermare gli insediamenti e dopo che non sapeva quante difficoltà comportasse. In seguito la nuova formula americana è stata avvicinare le posizioni tramite un mediatore, abbiamo già avuto 16 incontri senza ottenere nessuna risposta. Abbiamo preparato un documento su tutte le questioni: acqua, frontiere, sicurezza, confini. Nessuna risposta da Israele. Gli americani hanno detto - giacchè la mediazione non è servita, tornate a negoziare direttamente con Israele - ma Netanjau dice che Gerusalemme è ebraica, se andiamo oggi a negoziare accettiamo questa posizione”.
Questo mi trova totalmente d’accordo. Poi parla dell’incontro avuto con Berlusconi e Blayr e della loro garanzia di mediazione: “Noi non ne siamo sicuri” dice e lo credo bene! Infine passa a parlare di Gaza” la situazione di Gaza ci mette in difficoltà, la divisione dà forza agli israeliani. Si sente la mancanza del ruolo internazionale. Ma non voglio usare un linguaggio di disperazione, vogliamo educare i giovani alla coesistenza e alla pace, l’importante è che il nostro popolo rimanga sulla sua terra”
Blanca chiede “come viene posto il problema del diritto al ritorno dei profughi nel processo di pace?”
Ancora una volta Nemer Hammad si dimostra pragmatico “Non possono tornare cinque milioni di profughi, è una fantasia. Secondo un punto dell’iniziativa araba si può trovare una soluzione negoziale con Israele per far tornare 50-70mila persone come riunificazione delle famiglie.”
Patrizia domanda se Fatah ha preso in considerazione l’ipotesi di un governo unico binazionale. La risposta:
“Siamo ancora per la posizione dei due stati, ma non come lo vedono gli israeliani. Lo stato palestinese deve nascere in tutta la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, ci deve essere un’area di rispetto, occorre impedire qualunque violenza sia nella società palestinese che dentro Israele. Se gli israeliani non accetteranno questa soluzione entro 10 anni allora vedremo, siamo per due stati ma non escludiamo in futuro l’ipotesi di uno stato unico”.
Dopo il pranzo, le foto di rito e i saluti torniamo alla MLR, abbiamo qualche ora libera prima delle 18 quando verranno a incontrarci due rappresentanti dell’”Unione Generale delle Donne Palestinesi”.
Parlando con le due signore scopro che una, Sawsan Saleh, è la madre di Ruba, una mia giovane amica palestinese che vive a Roma, ora ricordo anche che qualche anno fa dietro suggerimento di Ruba le avevo scritto per avere informazioni perché stavo scrivendo un libro sull’attivismo delle donne palestinesi.
L’unione delle donne palestinesi è la più vecchia associazione popolare di massa, è stata fondata ufficialmente nel 1965 un anno dopo l’OLP e ne fa parte. “Non diciamo di rappresentare tutte le donne palestinesi, o le piccole associazioni, ma siamo la parte maggioritaria”dice Rima Nazal direttrice mondiale dell’associazione che è anche una scrittrice. A livello sociale l’associazione ha l’obiettivo di aiutare le donne palestinesi a conquistare i loro diritti. A livello legale sono riuscite a bloccare qualche articolo di legge punitivo rispetto alle donne e a fare applicare la legge che punisce il delitto d’onore. “Abbiamo partecipato alla campagna di boicottaggio dei prodotti delle colonie, appoggiamo la risoluzione 13-25 a favore della partecipazione delle donne nei negoziati internazionali”.
Dopo parla Sawsan Saleh e dice “La vostra partecipazione (anche attraverso il progetto adozioni che aiuta i bambini e le famiglie a resistere) alla nostra sofferenza ci dà speranza, abbiamo ancora bisogno del vostro aiuto per fare in modo che le donne siano presenti nei luoghi importanti dove si decide la politica palestinese. Attualmente abbiamo 5 ministre, 3 provengono dal movimento popolare. Come movimento delle donne abbiamo temuto di subire la sorte delle donne algerine. (Le donne algerine parteciparono in prima linea alla lotta di liberazione, ma una volta conquistata l’indipendenza furono “rimandate a casa”.) Lavoriamo in condizioni difficili.” Ci parla poi di come è articolata l’associazione sul territorio. Sono presenti oltre che in Palestina nelle città, villaggi e campi profughi, anche all’estero in Canada, Inghilterra e USA e c’è una forte partecipazione in Siria, Libano e Egitto. Attualmente però sono concentrate sulla Cisgiordania e Gaza. A Gaza Hamas ha chiuso le loro sezioni. “Un obiettivo importante è che la nostra associazione abbia un ruolo nella lotta di liberazione nazionale, per noi è importante conservare ciò che abbiamo ottenuto in passato” Prosegue Sawsan.
L’associazione ha dato molta importanza fin dall’inizio alle relazioni internazionali, sono rappresentate nell’”Unione Donne Arabe” e nella “Federazione Democratica Mondiale delle donne”, dove un’attivista dell’associazione è vice-presidente. “Vogliamo far conoscere la situazione delle donne palestinesi a tutto il mondo - afferma Sawsan - “scambiarci esperienze con donne di altri paesi e realtà”. Resto delusa quando rispondendo a una domanda dice che non hanno nessun rapporto con le donne israeliane, nemmeno con Bat-Shalom e Jerusalem-link un’associazione di donne palestinesi e israeliane. Li hanno con israeliani individualmente non come organizzazioni.
I rapporti tra le donne palestinesi e israeliane sono diventati difficili dopo “Piombo fuso”, come era avvenuto dopo la seconda Intifada.
“Lavoriamo per il libero pensiero” dice Rima, si lamenta degli effetti negativi portati dalla religione nella società palestinese grazie ad Hamas. Delle proibizioni di questi ultimi, come l’obbligo del velo per le bambine e la divisione tra maschi e femmine negli asili nido o la proibizione per le donne di andare al mare, pur se vestite. In seguito leggerò che ha proibito alle donne anche di fumare il narghilè in pubblico, cosa che è sempre stata nella tradizione, ma pare che queste non lo abbiano preso in considerazione e continuano a fumare tranquillamente. Non bastasse l’occupazione, l’impoverimento, la chiusura, l’assedio ci mancava la religione a rendere ancora più scuro il quadro dell’oppressione.
Si parla poi del boicottaggio e qui veniamo informati che l’associazione boicotta non solo i prodotti delle colonie ma anche quelli israeliani, che le donne sono state sempre attive in questa lotta anche se ci sono difficoltà perché l’economia palestinese dipende da quella israeliana, tuttavia la campagna è appoggiata in pieno dalle masse popolari. Chiedo se il loro rapporto con le istituzioni le limita nelle decisionalità. Risponde di no, anzi questo aiuta ad arrivare più facilmente alle donne della diaspora e ad avere più risonanza, del resto l’associazione non ha una linea politica definita, ma è un compromesso tra le varie posizioni.
Alla fine dell’incontro raggiungiamo il V piano dove c’è il ristorante, un caffè insieme prima di separarci.
La sera dopo cena con Federica e altri ci fermiamo nella camera di Yousef che ha la televisione accesa perché vuole farci vedere un servizio sulla nostra delegazione. Il servizio, che è già andato in onda nel pomeriggio, però non viene ripetuto, in compenso vediamo che ci sono stati incidenti a Burin un villaggio vicino Nablus. Una ventina di coloni hanno aggredito tre contadini e li hanno mandati all’ospedale poi hanno bruciato i campi. Si vedevano le fiamme correre giù per le colline. Il giorno prima erano entrati a Nablus gettando pietre sulle macchine palestinesi, erano un centinaio protetti dall’esercito che ha poi deviato il traffico allungando il percorso. L’attacco si è ripetuto ancora nella notte.
La mattina Diab, un nostro giovane amico di Nablus che vive a Roma e che abbiamo ritrovato a Ramallah, ci aveva raccontato che mentre era in macchina con dei parenti i soldati, mitra alla mano, li avevano fermati e fatti scendere con maniere tuttaltro che gentili. Sua cugina aveva previsto che sarebbe successo qualcosa quando ha notato che la città si svuotava di poliziotti palestinesi, era un segnale che stavano entrando i soldati israeliani.
Dalla terrazza della mia camera stanotte guardo Ramallah illuminata. A destra un campo profughi, è inserito nel tessuto urbano e non si nota subito, arrivano le voci dei bambini che giocano, si capisce dalle case più basse e povere dalle strade più strette e chiuse e da una bandiera palestinese dipinta su un muro. I campi profughi sono pieni di murales, ora lo è anche il muro, enorme e triste tavolozza dove si sono esercitati non solo i palestinesi, ma gente di tutto il mondo, compresi diversi artisti. A Kalandia sul muro c’è il ritratto di Marwan Barghuti sotto la scritta che chiede la sua liberazione, il deputato palestinese di Fatah letteralmente rapito dalla sua casa nel 2002 e a cui Israele ha dato cinque ergastoli. A sinistra sulla collina si vedono le luci dell’insediamento.
In Israele un rabbino dice che bisognerebbe uccidere tutti i non-ebrei, cioè palestinesi e questo pomeriggio un enorme aquilone nero su cui era disegnato un maghen david ha sorvolato il tetto della Mezzaluna Rossa. La normalizzazione è interrotta da continui episodi del genere. Una normalità apparente. Nablus l’altro giorno ci era parsa una città normale e tranquilla ma non è così, la normalità voluta dagli israeliani e supportata dall’ANP è quella di dover accettare come quotidianità spari e soprusi di ogni genere, che agli occhi distratti di chi passa senza farci caso sembra tranquillità. Ma qui quelli che altrove potrebbero esser fuochi d’artificio sono spari veri e malgrado tutto sembri tranquillo si sentono di continuo nella stessa Ramallah. Il consigliere di Abu Mazen dice che non c’è niente da fare, che ci sono situazioni peggiori di quelle delle famiglie di Sheik Jarrah e parla di stato palestinese come obiettivo pragmatico, ma molto di là da venire. L’immagine dell’impotenza.

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