martedì 21 settembre 2010

25 luglio 2010 Gerusalemme

25 luglio 2010
Gerusalemme
La mattina partiamo con l’autobus di linea che effettivamente ci aspetta davanti alla sede della MLR. Quando arriviamo a Kalandia l’autobus si ferma e sale a bordo un soldato armato di mitra, sembra di essere in un film della seconda guerra mondiale. Tiriamo fuori i passaporti. Dopo il controllo scendiamo e prendiamo un altro pullman con targa gialla che percorrendo la strada dei coloni ci porta direttamente a Gerusalemme. La situazione di Gerusalemme est sotto il tiro della colonizzazione selvaggia è sempre più tragica. Il quartiere di Beit Hanina è separato dal muro dal centro della città, a Silwan,4) che gli israeliani sostengono essere la città di Davide, gli scavi archeologici fanno crollare le case palestinesi, a Sheik-Jarrah stanno espropriando 28 famiglie del quartiere delle loro case.
Alla porta di Damasco abbiamo appuntamento con Abir, non quella che ci ha accompagnato e invitato a pranzo a Betlemme, che è una giovane donna sui 30-35 anni molto carina senza velo, questa Abir che ci farà da guida a Gerusalemme, è una ragazza più giovane, con l’ijab e una enorme collana di ambra che il mio occhio di orefice non manca di apprezzare. Alla porta di Damasco ci sono soldati armati di mitra. Entrando ci troviamo direttamente nel suk. Con Abir che si dimostra una guida molto efficiente percorriamo la via Dolorosa che è poi la via del mercato. Incontriamo sul cammino una chiesa copta di cui ci racconta tutto, poi percorrendo misteriose stradine ci ritroviamo nella piazza del Santo Sepolcro. Alla Natività non mi interessava entrare ma qui entro volentieri. L’interno è enorme, scendiamo e saliamo in continuazione. Abir ci spiega tutto delle molte confessioni cristiane qui rappresentate. Ci dice che secondo una tradizione di Gerusalemme cristiani e musulmani si scambiano visite nei rispettivi templi durante le feste degli uni e degli altri. Non per nulla Gerusalemme era la città della pace (e della convivenza) prima dell’occupazione. Bassam aggiunge che le chiavi del Santo Sepolcro sono tenute in custodia da due famiglie musulmane che hanno il compito di aprire i portoni, questo per avere un custode super partes onde evitare eventuali dispute tra le varie confessioni cristiane spesso litigiose. La visita del Santo Sepolcro ci tiene occupati fino all’ora di pranzo, mangiamo un panino, cioè pane arabo e falaffel in un ristorante sulla via Dolorosa che è piuttosto caro, ma intanto ci riposiamo. Quando riprendiamo un po’ di vigore proseguiamo la nostra visita diretti alla spianata delle moschee. Nel duomo della roccia non si può entrare, ma tutto quello che c’è fuori è immensamente bello. Per arrivare alla spianata bisogna passare nella piazza del muro del pianto. Mentre scendiamo le scale per accedere alla piazza una donna, che sembrava essere lì apposta, mi dice di coprirmi le spalle. Capisco che i credenti vogliano che la gente entri nei loro templi con le spalle coperte, col cappello o senza cappello, con le scarpe o senza scarpe, ma qui siamo in un luogo pubblico e stiamo andando in una piazza! E’ tutto requisito, santificato e consacrato. Tiro fuori dalla borsa un foulard e lo metto intorno alle spalle ma fa un caldo infernale e nella piazza me lo tolgo di nuovo, un’altra donna spuntata non so da dove mi fa cenno di coprirmi. Il muro occidentale non mi attrae per niente e anzi non vedo l’ora di allontanarmene. Dieci anni fa ci avrei sicuramente messo un biglietto nelle fenditure e avrei recitato una preghiera. Ora vi avverto un senso di sopraffazione, di violenza e provo un misto di repulsione e di estraneità.
Entrare sulla spianata delle moschee non è una faccenda semplice, come in tutti i posti in cui i luoghi sacri ebraici e musulmani sono contigui, l’esercito ha un controllo oppressivo e minaccioso. Chiediamo informazione proprio a loro e ci danno un’indicazione sbagliata, poiché è già successo precedentemente a qualcuno del gruppo quando ci troviamo davanti a una porta chiusa non ci fidiamo e chiediamo nuovamente informazioni, finalmente imbocchiamo la strada giusta e facciamo la fila per il controllo dei passaporti e delle borse. Per la strada opposta passano famiglie di haredim, il padre con un vestito nero il figlio (piccolo) vestito allo stesso modo del padre, entrambi con i peot, i riccioli laterali, vanno al muro del pianto.
Questi luoghi non mancano di emozionarmi per la loro bellezza. Prima di salire alla spianata vediamo un gruppo di uomini che si trattengono al fresco forse stanno pregando, ma Bassam ci spiega che si tratta di un Mastabah (cerchio). Sono persone che si trattengono alla Moschea organizzando gruppi di studio a rotazione, questo per essere sempre presenti e poter difendere la moschea. Penso che la cosa sia rimasta più che altro come una tradizione, non si vede infatti che potrebbe fare un gruppetto di persone disarmate.
Dal basso vediamo La moschea della roccia che si erge in tutta la sua maestosa bellezza e cominciamo a fotografarla, quando saliamo la scala e raggiungiamo la spianata restiamo senza fiato. La spianata è immensa, vorrei andare dappertutto e catturo con gli occhi gli archi, i giardini sottostanti, la chiesa russa, un gioiello, che vedo brillare tra i cipressi e che mi dicono essere la chiesa dove la madre di Gesù salì al cielo. Fa molto caldo e mi prende una mezza insolazione, per fortuna dappertutto per la spianata ci sono fontanelle e vado a lavarmi la faccia e bagnarmi la testa che il cappello ormai non protegge più.
Gli archeologi israeliani fin dal ‘67 hanno cominciato a fare scavi sotto la spianata delle Moschee e con il tunnel che passa sotto la moschea da una parte all’altra c’è il serio pericolo di crolli. Non posso credere che si possa essere così ottusi da mettere a rischio una meraviglia simile, al di là delle questioni di fede, però l’odio rende ottusi e certi fanatici vorrebbero radere al suolo la spianata con tutto quel che c’è per fare il “Secondo tempio”.
Per uscire facciamo una strada diversa, non dobbiamo più passare dal check point, ma sbuchiamo direttamente nel suk. Proprio all’uscita della moschea siamo colpiti da un’insegna posta sul frontone di un seminterrato, c’è scritto qualcosa come “Comunità africana di Gerusalemme”. Ci fermiamo per saperne di più, un giovane ci invita ad entrare. L’interno sembrerebbe quello di un centro culturale. Mentre siamo seduti al fresco il giovane ci spiega che si tratta di una comunità proveniente per lo più da Sudan, Ciad e Nigeria di 450 persone. “Siamo palestinesi di origine africana” dice “abbiamo abitudini, religione, storia che ci avvicinano e ci sentiamo parte di questo paese, del resto - ci ricorda - lo stesso tessuto sociale di Gerusalemme è misto. Abbiamo un sentimento per l’Africa, ma ci sentiamo palestinesi.” Ci spiega che la presenza africana a Gerusalemme risale all’epoca della conquista islamica, allora erano soprattutto pellegrini. Un’altra immigrazione c’è stata prima della fondazione dello stato di Israele. In passato erano i guardiani della Moschea, venivano chiamati “i vicini”. Nel ‘48 e nel ‘67 hanno subito l’occupazione e le espulsioni da parte di Israele. “Noi facciamo parte del tessuto sociale palestinese, siamo sempre stati in prima fila negli scontri, abbiamo partecipato a tutte le lotte fin dal ’67. Abbiamo avuto martiri e prigionieri. Nella seconda Intifada il primo martire di Gerusalemme apparteneva alla nostra comunità.” Gli chiediamo se per quanto riguarda il matrimonio con ragazze o ragazzi palestinesi hanno avuto problemi di discriminazione. Ci spiega che qui in Palestina il valore essenziale si dà alla terra, quando è in gioco il matrimonio decide la quantità di terra posseduta, che conferisce lo stato sociale, questa è l’unica discriminazione.
Usciamo e la maggior parte del gruppo continua a bighellonare per il suk, io preferisco fermarmi a un baretto all’entrata della porta di Damasco con Patrizia e Silvia, la moglie di un funzionario della MLR che è venuta con noi. E’ italiana ma parla in arabo, la prima volta che l’ho incontrata alla MLR qualche giorno fa mi sono spremuta le meningi per farmi uscire un bel “sabah al kerr” e lei ha risposto semplicemente ciao.
Più tardi ci raggiunge Kifah, Abir è andata via. Mentre guardo il panorama di antenne satellitari sopra Gerusalemme sento degli spari. Si sentono molto vicini e si capisce che non sono fuochi d’artificio. Vedo che Kifah è molto tranquilla e allegra come se non li sentisse. Gli spari si succedono in continuità. Chiedo a Silvia di domandarne l’origine a Kifah. Lei risponde che sono i soldati che sparano per pura intimidazione. Resto un po’ perplessa, Kifah alza le spalle, aggiunge che qui è normale.
Ogni tanto arriva qualcuno dal suk per mostrare un acquisto, il barista aggiunge un tavolo poi lo toglie poi arriva altra gente, lui non sa se aggiungere o togliere tavoli, va un po’ in confusione e forse ci manda al diavolo. Quando siamo tutti riuniti andiamo al quartiere di Sheik Jarrah guidati da Kifah.
Prima di Sheik Jarrah decidiamo di andare a portare la nostra solidarietà a quattro deputati del consiglio legislativo palestinese in sciopero della fame. Nel 2006 sono stati eletti come rappresentanti per la zona di Gerusalemme poi dopo quattro mesi dalle elezioni un decreto israeliano ha imposto loro di dimettersi pena il ritiro della carta d’identità, la carta azzurra di Gerusalemme, e l’arresto. Avevano 30 giorni per dare una risposta ma prima dello scadere del termine erano stati arrestati assieme a altri deputati. Restarono in prigione 3-4 anni lontano dalle famiglie e nell’impossibilità di lavorare. Dopo il rilascio dal carcere avevano 30 giorni per lasciare Gerusalemme altrimenti la loro presenza sarebbe risultata illegale. Due di loro sono usciti dal carcere il 2 giugno, il 3 avevano già l’ordine di lasciare la città. Andiamo alla sede della CRI che li sta ospitando, ci ricevono in giardino dove sono disposte delle sedie in circolo. Ci presentiamo e Patrizia esprime a nome di tutti la nostra solidarietà, discorso che viene tradotto da Bassam. “Quando abbiamo visto che facevano sul serio abbiamo deciso di fare questa protesta e non usciremo da qui senza una soluzione” ci dice uno dei deputati, la motivazione con la quale Israele vuole espellerli è che…non sono fedeli allo stato ebraico. I deputati sono rimasti in tre, uno è già stato riarrestato. “Tutto il mondo riconosce che Gerusalemme è occupata e quindi dovrebbe vigere la Convenzione di Ginevra secondo cui nessuno può essere deportato dalla propria abitazione” ci dice un altro deputato. “Chiediamo al mondo di imporre a Israele la cancellazione delle leggi contro di noi, speriamo che la pressione internazionale possa servire. I nostri avi sono nati qui e vogliamo continuare a viverci, siamo padri di famiglia, vorremmo stare con le nostre famiglie in santa pace.”
Il figlio di sei anni di uno di loro aveva deciso di non uscire più di casa finché non sarebbe tornato il padre, ora vive con lui alla CRI.
“I nostri figli hanno paura, specie di notte, che l’esercito entri in casa. (Il fratello di uno di loro è stato arrestato perché gli somigliava ). Non possiamo uscire di qui senza essere arrestati, stiamo facendo appello a tutte le forze democratiche. Se viene applicata questa legge migliaia di palestinesi subiranno la stessa sorte, abbiamo sentito di una lista di 318 persone che saranno espulse, per Gerusalemme è la terza Nakba. E’ in corso l’ebraicizzazione della città, 10mila bambini potranno essere cacciati raggiunti i 16 anni. Un bambino di 13 anni è stato appena liberato dal carcere e espulso. Chiediamo ai nostri amici di far pressione sui loro governi, vogliamo vivere liberi sulla nostra terra.”
Chiediamo loro se hanno ricevuto espressioni di solidarietà da parlamentari dei paesi europei. Rispondono di si, hanno ricevuto molte lettere di solidarietà dall’Europa, parlamentari inglesi, francesi, spagnoli. Hanno scritto loro anche l’ambasciatore egiziano, giordano e turco e perfino Jimmy Carter che ha condannato questa legge che viola il diritto internazionale. La delegazione inglese, un rappresentante della UE e dell’ONU e il segretario generale della Lega Araba hanno chiesto di riunire il consiglio dell’ONU per esaminare questo caso. Ma soprattutto hanno ricevuto la solidarietà della gente e molte delegazioni sono venute dalle città palestinesi. “E’ stato un grande momento di unità e da questa mobilitazione è nato il “Comitato Nazionale contro la deportazione”.
Politicamente i deputati appartengono all’area di Hamas, ma questo, rispetto al sopruso, è secondario. “Siamo prima di tutto palestinesi” dicono, “se ora tocca a noi domani toccherà ad altri palestinesi di Gerusalemme, stiamo difendendo il diritto di tutti.”

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