sabato 18 settembre 2010

Hebron: città prigione

HEBRON: LA VITA NELLA CITTA’- PRIGIONE
Un viaggio nella città della Cisgiordania: attraverso il mercato, le case, le strade da dove «un uccello non saprebbe volarsene via».

UN RACCONTO-TESTIMONIANZA DI GINEVRA DI MONTEREALE - Hebron, 15 settembre, Nena News –

Provo a ricostruire una geografia dei luoghi visti. Una geografia della memoria è un cammino poco sicuro, segue sentieri propri (poco reali) di spazio e tempo. Ritorno sui luoghi per la prima volta con l’aiuto di una carta. I luoghi sono uguali; uguale la loro condizione, il vincolo posto ad ogni gesto e allo stesso vivere.

Hebron è città antichissima; è posta a trentasei chilometri a sud di Gerusalemme. Venne occupata da Israele nel 1967; i primi coloni sono arrivati nel 1968. I cittadini palestinesi vengono espulsi dalla città vecchia, gli accessi alla città vengono chiusi tramite check-point. Nel 1994 un colono sparò nella moschea, provocando una strage. Da allora la città è divisa in due parti, una a controllo palestinese, una sotto controllo israeliano. Ma nella città vecchia araba (circa il 20 per cento della intera città) permaneva un nucleo di circa 400 coloni ebrei. A proteggerli, 1500 soldati. La città diveniva controllata, o anzi prigioniera. Qualunque movimento è difficile, a causa di 101 check-point; le vie sono controllate, interrotte o del tutto sbarrate, deviate. Questa è una sorveglianza chiara visibile senza scampo. Camminiamo e la città vecchia appare semideserta. A destra e a sinistra delle vie di mercato pochi negozi sono aperti; diverse porte sono state sbarrate in via definitiva dai coloni o dai soldati con la fiamma ossidrica. Altrove i proprietari li hanno chiusi, poichè la via era inaccessibile. Ci avvolge uno strano silenzio. Siamo in un mercato, e sentiamo i nostri passi. Hebron è una città abbandonata a causa di un’epidemia diffusa ovunque. Pochi hanno potuto tornare; infinite sono le tracce di vita.

Com’era questa città prima del silenzio, che cosa si vendeva, di cosa si parlava per la strada. Sopra di noi da un lato all’altro della strada per tutta la lunghezza è una fitta rete; ai lati sono lamiere, a volte vetrate. Un uccello non saprebbe volarsene via da qui; le strade come grandi gabbie. Il cielo si vede appena. Succede che dall’alto delle loro case i coloni gettino sul quartiere arabo rifiuti e soprattutto pietre, oggetti capaci di colpire. Siamo sorvegliati ovunque dall’alto delle torrette armate di soldato e da infinite telecamere. Accanto all’ingresso della moschea c’è una gabbia di rete poco alta e larga, con due galline vive.

I cittadini di Hebron hanno dovuto modificare la topografia della città, ricostruire percorsi e luoghi. (La città in cui vivo ha vie romane poi medievali abbastanza larghe. Se alzo lo sguardo vedo ora delle reti, e la luce in parte oscurata da lamiere, come a Hebron. So che grazie a pochi non sarò mai al sicuro in nessun luogo, guardata a vista).
Poco lontano è il centro internazionale di restauro (Hebron Rehabilitation Committe, NdR). Ci accoglie la frescura dei muri. Le case della città vecchia abbandonate dagli abitanti vengono restaurate secondo le forme originarie e rese a chi le abitava. Sono blocchi di poche stanze contigui e comunicanti in altezza con scale esterne e cortili. I muri sono spessi. Saliamo sul tetto, siamo alti quanto il soldato armato nella torretta poco lontano. (In pochi altri casi architettura e restauro hanno un significato così forte. La riconquista della memoria porta con sé la nostra identità, il nostro essere profondo. Il nostro essere incerti e a un tempo comunicanti come stanze. Portiamo in luce le domande di ogni tempo. La risposta è il vivere qui e non altrove. La nostra immagine è l’immagine di queste case).

Il villaggio di At-Tuwani è poco a sud di Hebron; ci arriviamo a piedi a causa di un guasto del pullmann. Siamo al limitare del deserto di sabbia e sassi. Crescono campi di olivi bassi e ordinati, la collina opposta è verde di un bosco di pini, o conifere. Ci accolgono radunati a festa i bambini del campo estivo. Ballano giocano e scherzano, ci chiedono una foto. Il loro volto e il loro sorriso sono stupefacenti. Con loro alcune donne che paiono vecchie, e il portavoce del movimento dei pastori. Hanno deciso di non usare armi né pietre, e però resistere. Custodi dei bambini sono giovani volon-tari, tutti italiani. Sorvegliano i bambini nel cammino a scuola e nel ritorno. Loro stessi in passato scortavano i bambini; da quando un volontario è stato gravemente ferito dai coloni, i bambini sono scortati dai soldati di Israele. Ma la scuola è lontana? la scorta dei soldati è sicura? e i coloni sono armati? che fate nel pericolo? L’insediamento dei coloni non è lontano, l’abbiamo visto dalla strada. I cavi di corrente portano in cima alla collina.. No, la scorta dei soldati non è sicura, sono pur sempre soldati. Ma i coloni armati con bastoni o mascherati sbarrano la strada ai bambini e li aggrediscono. Questo succede spesso ed è già successo. I pozzi più volte sono stati avvelenati, con veleno o animali uccisi. Molti dei bambini sono figli di pastori beduini. Si, i coloni sono armati, e in caso di pericolo non è dato fare molto; i bambini allungano la via pur di non essere sorpresi. (girano intorno alla collina come nelle fiabe più terribili). E la corrente giunge alle case dei coloni, qui al villaggio il generatore produce corrente tre ore al giorno. Da questa collina si vede bene il tessuto verde dei pini, più in là gli olivi bassi e non curati spazzati dal vento. Partiamo che è quasi buio. Non possiamo rientrare a Gerusalemme Est con gli stessi taxi, dobbiamo lasciarli e ripartire su altri. Le strade sono in parte palestinesi, in parte israeliane. Fino ad ora, eravamo solo su queste, su strade israeliane. Che faranno questi bambini da grandi? che faranno senza di voi che guardate di lontano? questa pianta di paura sarà un grande albero; saranno pastori o contadini. Continueranno il cammino e avranno olivi magri. Difenderanno questa lingua, renderanno incomprensibile ogni altra. Voi bambini che andate a scuola e ci accompagnate per tutto il resto del viaggio, se non fosse per i volontari non sapremmo nulla di voi. Ma forse non è vero. Bambini di una scuola disadorna, non vi proteggono i soldati, e neppure gli internazionali per niente ordinari. Vi protegge l’ammonimento di ogni arma, il vostro silenzio ostinato davanti a chi grida. Siamo incapaci di mentire, siamo incapaci di essere piccoli soldati senza volto. Non accettiamo più questa storia. Ma non siamo arresi. Nena News

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